LA FENICE RINASCE... COL DON CARLO DI CHUNG
Dopo la tragica acqua alta del 12 novembre scorso, che tanti
danni ha provocato alla città e anche al teatro, in una corsa contro il tempo fortunatamente
riuscita, il Teatro La Fenice di Venezia ha inaugurato ieri sera la stagione
2019/2020 con un nuovo allestimento del Don Carlo verdiano, con la concertazione
di Myung-Whun Chung e la regia teatrale di Robert Carsen.
La mia recensione si ferma all’aspetto musicale in quanto l’opera
è stata ascoltata attraverso il collegamento radio in diretta.
La versione scelta da Chung, sicuramente anche in connubio
con le scelte registiche di Carsen, è la versione milanese del 1884, in quattro
atti… più stringata rispetto a quella parigina e modenese ma sicuramente più
levigata e concettualmente più pregnante.
Partiamo innanzitutto dalla concertazione del maestro
coreano, vero trionfatore della serata. Innanzitutto bisogna riconoscere a
Chung una conoscenza e padronanza di questa splendida ma difficilissima
partitura verdiana oserei dire impressionante. Ogni nota è scavata, levigata,
mai scontata; ogni frase, di contraltare, è completamente legata a quella
successiva; alla morbidezza di alcuni suoni si contrappone la maestosità dei
momenti più solenni e ridondanti, che però non sono mai concitati (che in quest’opera
può portare anche a tanta confusione). Il rapporto buca-palcoscenico è
eccezionale: Chung accompagna, aiuta, segue, porta, respira insieme a tutto il
cast e questo ne fa, soprattutto in Verdi, uno dei massimi direttori
attualmente operanti nel panorama mondiale. Chung è aiutato nella sua
concezione e direzione dell’opera da un’orchestra in vero stato di grazia… ogni
volta che i professori della Fenice fanno musica assieme a lui sembra che un’alchimia
particolare si formi, dando vita veramente a cose meravigliose. Esempio per me
di questo connubio è l’introduzione orchestrale al secondo atto… mai sentita
suonata così!!!
Il cast messo a disposizione del maestro coreano è, sulla
carta, tra i migliori disponibili (ricordiamo che servono almeno 6 cantanti di
primissimo piano per quest’opera, da qui la grande difficoltà per i teatri di
metterla in scena con frequenza) ma non tutti gli interpreti hanno reso quanto
la parte richiede.
Cominciamo innanzitutto dal protagonista. Piero Pretti
debutta nel suolo di Carlo… e lo fa nel migliore dei modi. Il suo è un Infante
dalla bellissima voce, molto armonica, che non ha nessuna difficoltà nell’affrontare
un ruolo che chiede molto al tenore (anche perché gran parte della scrittura
musicale è su registri di passaggio medio/alti). Un’interpretazione generosa la
sua che lo rende come un personaggio credibile e sfaccettato.
Julian Kim, anch’esso debuttante nel ruolo, interpreta un
ottimo Marchese di Posa. Il suo Rodrigo canta da manuale, nitidissima la
dizione, bellissimo il filato e le mezze voci. Chicca assoluta l’acuto finale,
dell’aria del carcere, smorzato dal forte al piano prima di cantare “Salva la
Fiandra”. Un’autentica rivelazione!
Il terzo debuttante, nel ruolo difficilissimo di Filippo II,
è Alex Esposito che conferma la tendenza di molti bravissimi cantanti per lo
più rossiniani che si affacciano a Verdi e soprattutto al personaggio del Re di
Spagna (vedi Samuel Ramey e altri). Purtroppo l’operazione non ottiene l’effetto
desiderato: la complessità del personaggio, il peso vocale dello stesso (pur
non richiedendo una voce ridondante) sono troppo per le corde di Esposito. Se
la cava benissimo nei passaggi in cui le frasi sono secche, ma quando le frasi
si fanno lunghe e melodiche si nota la difficoltà di rendere quello che Verdi
scrive. Peccato perché è un signor cantante… credo che col tempo la voce
maturerà ulteriormente e sicuramente potrà riaffacciarsi nelle stanze di
Filippo II.
Non è nuovo al personaggio del Grande Inquisitore Marco Spotti
che anche qui (ricordo bene il Don Carlo torinese diretto da Noseda) ne propone
una lettura di gran classe.
Altro ruolo fondamentale maschile, pur nella brevità della
sua parte, è il frate qui interpretato non molto bene da Leonard Bernad. Il suo
ingresso nel Chiostro di San Giusto è preoccupante in quanto a linea di canto e
dizione, migliore nel finale ma sicuramente non lascia il segno.
Maria Agresta affronta il ruolo di Elisabetta di Valois a
mio parere con il freno a mano. Per carità le note ci sono tutte ma gli acuti
risultano abbastanza approssimativi, in alcuni casi il fiato sembra corto. Non
vorrei che fisicamente ci fossero dei problemini, altrimenti la serata è da
ascriversi come una di quelle decisamente poco positive, che possono capitare a
tutti i cantanti. Rimane comunque una grande artista che ci lascia,
calcisticamente parlando, in zona Cesarini, una bella interpretazione di “Tu
che le vanità” oltre ad un commovente duetto finale con Carlo.
Veronica Simeoni canta bene la Principessa d’Eboli ma la
possanza delle note scritte da Verdi viene un po’ a mancare. In alcuni momenti
sembra “leggera” rispetto a quanto richiesto dalla partitura. Caso emblematico
la canzone saracena: la Simeoni canta tutte le note scritte ma il peso è quello
quasi di una melodia belliniana.
Interessante il Tebaldo della giovane Barbara Massaro che
spicca, forse anche troppo, nel duettino con Eboli e che dopo una palese
emozione iniziale ha portato a termine una buona recita.
Buoni anche gli altri comprimari, compresi i sei deputati
fiamminghi.
Buona la prova del coro, con una entrata (scena di San
Giusto) veramente eccezionale e qualche piccola imperfezione dell’auto da fè.
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