ALMANACCO MUSICALE - 14 DICEMBRE - IL TRITTICO di Giacomo Puccini
IL TRITTICO
Musica di Giacomo
Puccini
Prima
rappresentazione: New York, Metropolitan Opera, 14 dicembre 1918
Il
tabarro
Opera in un atto di Giuseppe Adami
Da molti anni il compositore pensava a tre atti unici da rappresentare in
un solo spettacolo teatrale: opere di atmosfera e stili diversi con cui poter
toccare i caratteri tragico, lirico e comico. Dapprima (nel 1900) ebbe l’idea
di musicare tre ‘quadri’ tratti dalla Commedia dantesca; in seguito, nel
1904, sperò di ricavare tre libretti dai racconti di Maksim Gor’kij, fra i
quali preferiva La zattera per il suo tono cupo, ma ancora una volta il
progetto andò in fumo. Passati ormai parecchi anni, fu il dramma di Didier Gold
La Houppelande a risolvere i dubbi, le incertezze del musicista sulla
scelta del soggetto. Esso sarebbe servito per la composizione del primo atto
del Trittico, quello passionale e tragico. Puccini cercò la
collaborazione di Ferdinando Martini, letterato di fama, e dello stesso
commediografo Dario Niccodemi, ma entrambi non realizzarono poi il libretto,
che fu infine scritto da Adami. Puccini cominciò a comporre Il tabarro
nel 1913, poi interruppe il lavoro per dedicarsi esclusivamente alla scrittura
della Rondine e solo alla fine dell’estate 1915 lo riprese, per
terminarlo il 25 novembre 1916. Successivamente accompagnò il truce dramma con
altre due opere di diverso genere: Suor Angelica e Gianni Schicchi.
I tre atti unici ebbero la prima rappresentazione il 14 dicembre 1918, al
Metropolitan di New York, diretti da Roberto Moranzoni con esito
sostanzialmente positivo, anche se solo Gianni Schicchi fu accolto senza
riserve, mentre gli altri due lavori suscitarono qualche perplessità. Vi furono
tuttavia dieci chiamate al proscenio per Suor Angelica (che fu criticata
dalla stampa), contro le cinque del Tabarro e le otto dello Schicchi.
Dopo neppure un mese, l’11 gennaio 1919, il Trittico approdò a Roma
(Teatro Costanzi) con la direzione di Gino Marinuzzi. In quel periodo i
rapporti tra Toscanini e Puccini erano piuttosto tesi, e tali da non consentire
la presenza sul podio del direttore parmense. Il motivo dell’attrito non era
soltanto di natura politica, ma riguardava anche Il tabarro: con un aspro
giudizio Toscanini condannò apertamente il libretto per il suo «spregevole tono
da grand-guignol» e la partitura per la cupa monotonia e per la violenza
di un realismo volgare. Puccini rimase talmente offeso che, quando le tre opere
furono rappresentate a Londra al Covent Garden, rifiutò la direzione del grande
maestro e optò per Gaetano Bavagnoli. Altre rappresentazioni memorabili furono
quelle al Teatro Colón di Buenos Aires il 10 luglio 1919, diretta da Tullio
Serafin, al Regio di Torino il 25 gennaio 1920, diretta da Ettore Panizza, e
alla Scala di Milano il 29 gennaio 1922, sempre con Panizza. Il soggetto da cui
fu tratta l’opera, il dramma in un atto La Houppelande di Didier Gold
(1910), appartiene al genere nero. Si tratta di un grand-guignol ambientato
nei bassifondi di Parigi, sulle rive della Senna. I protagonisti sono degli
scaricatori che vivono in uno sfondo sociale di profonda miseria. Il dramma è
nel suo insieme assai più violento del Tabarro; non solo Marcel –
Michele nell’opera pucciniana – uccide il rivale in amore, ma anche Gujon, il
‘Tinca’ di Adami e Puccini, si vendica dell’adulterio della moglie
pugnalandola. Il librettista Adami mantiene il delitto di cui si macchia il
padrone della barca, mentre accenna soltanto all’infelicità coniugale del
Tinca, che beve per non uccidere la consorte. Diverso è poi il ‘taglio’ dato
alla figura di Giorgetta, che nell’opera appare meno colpevole di quanto non
sia nel dramma di Gold. La protagonista non è una predatrice d’amore, ma
semplicemente una donna che insegue il suo sogno di felicità per dimenticare un
passato di sofferenza; inoltre Adami riesce ad accentuare gli accenni di
denuncia sociale contenuti nel dramma originale. Gold rimase così entusiasta
dell’opera pucciniana, da diventarne il traduttore per l’edizione francese.
LA TRAMA
Sulla Senna è ancorato un vecchio barcone da carico, di cui è padrone
Michele. Questi, che ha sposato Giorgetta, una parigina di diversi anni più
giovane di lui, avverte che l’unione è in crisi e sospetta da troppi indizi che
ella, sempre più insofferente e scontrosa nei suoi riguardi, lo tradisca con un
altro uomo. Il sospetto si dimostra fondato: Giorgetta è innamorata di Luigi,
un giovane scaricatore che si è legato perdutamente a lei e che ogni sera,
richiamato dal tenue chiarore di un fiammifero acceso, la raggiunge protetto
dall’oscurità. Mentre Giorgetta si ritira nella sua cabina in attesa che il
marito la segua e si assopisca, per poi incontrarsi con l’amato, Michele
indugia e rimane solo a rimuginare sui suoi sospetti e a immaginare chi, tra i
suoi uomini, potrebbe essere l’amante; nel frattempo accende la pipa.
Scambiandolo per il segnale convenuto, Luigi sale sulla barca e Michele lo
afferra. Lo costringe con violenza a confessare le sue colpe e lo uccide
nascondendone il corpo col proprio tabarro. Giorgetta, allarmata dai rumori,
sale in coperta e per essere rassicurata; chiede al marito di essere avvolta
nel tabarro, come un tempo. Michele lo apre e avvicina la faccia di lei a
quella del cadavere di Luigi.
CONSIDERAZIONI SULL’OPERA
Sia nel libretto sia nella partitura sono specificate le età dei
personaggi: Michele ha cinquant’anni, la moglie Giorgetta la metà, l’amante
Luigi è appena ventenne. Sono dati importantissimi, perché offrono un movente
naturalistico al tradimento nella differenza di età della coppia. Inoltre non
bisogna dimenticare che la morte del figlio ha contribuito a sgretolare
l’unione; il dolore per la perdita del bambino ha provocato nella madre una
reazione di ribellione, di evasione dalle vecchie e scontate cose, per cercare
nel futuro, cioè in Luigi, la ragione della sua esistenza. Un altro elemento
importante è l’ambientazione: la Senna, che è parte peculiare di Parigi,
diventa una realtà drammatica, tangibile momento per momento nella partitura e,
come dice Mosco Carner, se nel dramma «resta solo uno sfondo», nell’opera
«sembra invadere la scena come una nebbia malefica attraverso la quale si
muovono i personaggi». La tristezza greve del fiume accompagna la squallida e
faticosa esistenza di questo popolo di vinti, scandisce le loro azioni
ripetitive, i loro ritmi di vita sempre uguali, distrugge le loro speranze e i
loro sogni come un destino ineluttabile.
Il Tabarro, pur essendo un atto unico, comprende quattro sezioni
che possiamo considerare altrettanti piccoli atti. Nelle prime due è abilmente
descritto lo stile di vita di questo sottoproletariato parigino, vengono
presentati i personaggi che si stagliano sulla scena come delle autentiche
macchiette, con i loro caratteri, i loro piccoli desideri, le loro segrete
speranze, amarezze e disillusioni, osservandoli nel momento del lavoro
frustrante e faticoso, come nell’ora di relax e del riposo, quando una buona
bevuta può sollevare gli animi e il suono di un organetto aprire le danze. Il
clima leggero di queste prime due parti si contrappone nettamente a quello cupo
e disperato delle ultime due. L’atmosfera si definisce precisamente al centro
dell’opera, cioè all’inizio della terza sezione, quando è palese
all’ascoltatore l’appassionata relazione tra Giorgetta e Luigi. Due brevi
intermezzi vocali separano la seconda sezione dalla terza, e questa
dall’ultima.
Prima sezione. La barcarola introduttiva dell’orchestra ci propone il tema ‘della Senna’, costituito da bicordi paralleli, che si distendono nelle trentadue battute iniziali. La mancanza di una precisa affermazione della tonalità, che fluttua fra modo misolidio e sol maggiore e la ripetizione ciclica delle figure ostinate dell’accompagnamento, affidato al pizzicato dei contrabbassi, conferiscono un senso arcaico. La prescrizione della partitura di alzare il sipario prima che la musica attacchi sottolinea che il tema del fiume non è un preludio all’azione, ma l’azione stessa. Esso accompagna e si lega profondamente alle esistenze dei personaggi, almeno per tutta la prima parte dell’opera, suscitando nello spettatore una sensazione di realismo, incrementata dall’impiego dei suoni o rumori propri della vita cittadina: il segnale sonoro del rimorchiatore, la cornetta dell’automobile. Al tema della Senna si intreccia il rude canto marinaio degli scaricatori “Se lavoriam senza ardore”. Segue la chanson à boire “Eccola la passata... Ragazzi, si beve” intonata da Luigi: un valzer rustico in tempo classico di 3/4, un tema che solo un’altra volta risentiremo nel corso dell’opera. Esposto in tre diverse tonalità, accompagnato da un’orchestrazione leggerissima e trasparente, rappresenta il momento del brindisi, luogo comune dell’opera, da Traviata a Otello, alla stessa Rondine, fino al “Viva il vino spumeggiante” di Cavalleria rusticana; ma in questo contesto assume un significato particolare. Il vino diventa l’evasione, l’unico modo per non pensare, il solo piacere che si possono concedere uomini condannati dall’ingiustizia sociale alla miseria (Tinca: «In questo vino affogo i tristi pensieri»; «Fa bene il vino! Si affogano i pensieri di rivolta»). Ai versi di Luigi «Sentirete che artista» gli archi pizzicati accennano il tema ‘dell’amore’ fra lui e Giorgetta, rivelandoci in anticipo la relazione tra i due. Segue il valzer dell’organetto, articolato nella forma del rondò, esposto dai tre flauti accompagnati da tre clarinetti, caratterizzato da un’asprezza politonale dovuta all’urto dell’intervallo di settima maggiore tra il primo e il secondo flauto. Nel valzer sono riconoscibili i temi di due canzoni popolari parigine dell’epoca: Giorgette e La Petit Tonkinaise. La figura e la voce del cantastorie “Primavera, primavera” emergono poi in primo piano; la melodia è accompagnata delicatamente dal suono dell’arpa; egli narra la vicenda di Mimì e un quartetto d’archi cita letteralmente il tema tratto dalla Bohème (è l’unico caso di esplicito autoriferimento, con intento ironico, inserito da Puccini in un suo lavoro, se si esclude il gran numero di spunti tematici attinti dal materiale di opere giovanili od incompiute). La melodia del cantastorie viene ripetuta da un coro di Midinettes (sei soprani) che conclude la pagina.
Seconda sezione. Durante il recitativo d’introduzione della Frugola
appaiono alcune sequenze di accordi di sapore stravinskiano; del resto
molteplici sono i momenti di quest’opera che ci richiamano l’atmosfera generale
di Petruška. I brani che si susseguono nella prima parte della sezione,
sia le canzoni intonate dalla Frugola che l’aria di Luigi “Il pane lo guadagno
col sudore”, hanno un impianto melodico di natura modale. Quest’ultima è
particolarmente interessante per la finezza della scrittura e per l’inconsueto
messaggio di denuncia sociale affidata alla vocalità tesa del tenore, che si conclude
con un finale a effetto “Piegare il capo ed incurvar la schiena”, sottolineato
da improvvisi scatti dell’orchestra: in poche battute, dall’andamento metrico
assai irregolare, sono concentrate ben undici differenti indicazioni agogiche.
Le canzoni della Frugola invece, condotte ambedue su un andamento ritmico
ostinato, sono molto efficaci per la caratterizzazione psicologica del
personaggio: una donna stravagante, perennemente intenta a rovistare tra i
rifiuti (prima canzone: “Se tu sapessi gli oggetti strani”), una personalità
semplice che aspira a piccoli sogni (seconda canzone: “Ho sognato una casetta”)
e disposta con rassegnazione ad «Aspettar così la morte ch’è rimedio d’ogni
male». Elementi madrigalistici sono riscontrabili nell’episodio successivo, che
si articola nella struttura tripartita: l’esposizione del tema ‘della
nostalgia’, momento in cui Giorgetta reagisce alla cupa rassegnazione
dell’amica, per ricordare la vita esaltante di Parigi fatta «di luci e di
lusinghe» e il natio sobborgo di Belleville, dove anche lo stesso Luigi ha
abitato, poi la descrizione musicale delle varie situazioni esposte dal testo
‘Alle botteghe che si accendono’, al ‘Bosco di Boulogne’, ai ‘Balli
all’aperto’, tutti efficacemente sottolineati dai diversi colori timbrici;
infine la ripresa del tema che coincide con l’apice espressivo. Una doppia coda
conclude il brano durante il quale si congedano il Talpa e la Frugola.
L’intermezzo vocale separa la seconda sezione dalla terza; un sopranino e un
tenorino (fuori scena) intonano il tema ‘della Senna’, rievocando l’atmosfera
iniziale dell’opera.
Terza sezione. Compare il tema dell’amore, accennato per la prima volta
dopo la canzone del vino: una semplice cadenza perfetta in tonalità minore,
ostinatamente ripetuta e intervallata da pause che suggeriscono un’atmosfera di
sospetto ed esitazione. Questa cellula tematica prorompe con vigore alle parole
di Luigi «preferisco morire». Quindi oboi e corni eseguono una rapida scala
minore armonica che, riprendendo le parole di Giorgetta, possiamo chiamare
‘della voluttà’. Dopo un appassionato duetto Giorgetta-Luigi (“Hai ragione: è
un tormento”), torna il tema ostinato del loro amore. La musica rivela tutta
l’ansia dei due amanti clandestini, che rievocano la sensualità dei loro incontri
segreti, dominati dalla paura di essere scoperti. Il segnale convenzionale tra
i due amanti, il fiammifero acceso, viene suggerito dal suono dell’ottavino.
Giorgetta, alle parole «Mi pareva di accendere una stella», anticipa un
frammento del tema ‘del tabarro’. Il ritorno della scala ‘della voluttà’
conduce al momento di massima espressione emotiva, sottolineato dal tema
‘dell’amore’ alle parole «Non tremo a vibrare il coltello», che in questo caso
si associa a un’immagine di morte, alla gelosia che induce al delitto
passionale. Il successivo duetto Michele e Giorgetta “Perché non vai a letto?”
presenta una costruzione molto interessante. Come una dolce melodia ripetuta
ciclicamente a mo’ di ninna-nanna, modellata sul ritmo ondulante del fiume, si
alterna e si fonde con un disegno di figure cromaticamente sinuose, così il
ricordo nostalgico dei momenti felici, quando i due coniugi innamorati
cullavano insieme con tenerezza il loro bambino, è turbato dall’inquietudine di
Michele, che intuisce e teme il tradimento della moglie. Nel corso di questo
episodio, alle parole «Vi raccoglievo insieme nel tabarro», compare il tema
‘del tabarro’ medesimo; infine, l’ultima parte del duetto tra i due personaggi
è incentrata su un nuovo tema, che diremo ‘della felicità’ prendendo spunto
dalle parole di Michele. In un intermezzo vocale, Michele abbandona l’immagine
di uomo dolce e nostalgico e con rabbia commenta: «Sgualdrina». Due richiami
realistici alla vita: l’arrivederci di due amanti lontani (soprano e tenore) e
il segnale della cornetta di una caserma, precedono il grande monologo
seguente.
Quarta sezione. È il momento in cui Michele attende silenzioso, per
scoprire l’amante della moglie e frattanto passa in rassegna i nomi dei suoi
dipendenti. Il tema principale che si ripete più volte nel corso del monologo
«Nulla... Silenzio» è quello ‘del tabarro’. Alla frase «Chi?... chi?... forse è
il mio sonno» troviamo quello che Mosco Carner chiama «il corale della morte».
Nella parte centrale, nell’attimo in cui Michele nomina il nome di Luigi,
ricompare il tema dell’amore clandestino fra lo scaricatore e Giorgetta. Il
motivo ‘del tabarro’ viene riproposto e trasformato, per un breve interludio
strumentale, durante il quale Michele accende la pipa e Luigi, scambiandolo per
il segnale luminoso di Giorgetta, balza sulla barca. Nella scena del delitto è
sempre il tema del tabarro che guida le figure musicali, mescolato al corale
della morte. Il dialogo tra Giorgetta e Michele ripropone il tema dell’amore,
finché la grande esplosione del finale dell’opera ci rinnova con violenza il
tema del tabarro e del corale della morte. Un delitto conclude quest’opera,
come avviene per l’accoppiata verista: Cavalleria Rusticana e Pagliacci.
Le tre vicende sono imperniate sul triangolo risolto dal marito tradito, che
uccide l’amante. Tuttavia, mentre Alfio e Canio commettono l’omicidio per
vendicare il torto subito e recuperare dignità e onore, Michele uccide in preda
a un raptus, originato dal tormento per la perdita dell’amore, di quella
sola gioia che riusciva a riscattare un’esistenza colma di amarezze, l’unico
spiraglio di felicità che una vita miserabile gli poteva concedere.
«La novità di scrittura del Tabarro è l’evidente unitarietà
dell’elaborazione formale, dovuta all’adozione di un diverso processo
compositivo, che era articolato nelle opere precedenti in un’accavallarsi quasi
febbrile dei temi principali e di quelli derivati, e che viene ora disteso su
tempi drammaturgici più lunghi e regolari» (Girardi). L’orchestrazione mostra
una maggiore semplicità e funzionalità, ora accompagnando delicatamente la
voce, ora rinforzando il volume fino a raggiungere la massima sonorità e
tensione; in ogni caso occupa sempre una parte di primo piano, perché è in
orchestra che si decide l’atmosfera fondamentale del dramma.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
Suor Angelica
Opera in un atto di Giovacchino Forzano
Dopo aver completato il Tabarro, primo pannello di un ‘trittico’
che vagheggiava sin dall’inizio del secolo, nel gennaio 1917 Puccini trovò un
soggetto adatto per continuare nell’impresa: glielo aveva proposto Giovacchino
Forzano, trentatreenne uomo di teatro a tutto campo (baritono, poi librettista
e regista di grande successo). Forzano si rivelò per il compositore un
collaboratore ideale, grazie al fiuto per il coup de théâtre, al gran
mestiere e a una facile vena che gli consentirono di risolvere velocemente
anche il problema del terzo e ultimo atto unico. A partire dalla fine di marzo
del 1917 Puccini si buttò a capofitto nel lavoro e immaginò subito l’atmosfera
musicale adatta per caratterizzare il luogo dov’era rinchiusa la povera
Angelica. La sua vis creativa lo portò a schizzare subito un progetto
dello Schicchi, che Forzano aveva nel frattempo ultimato, prima di
tornare con rinnovato impegno a Suor Angelica (già composta quasi per
intero entro la fine di giugno e tutta strumentata col 14 settembre
successivo). In origine la ‘prima’ era fissata per il dicembre del 1918 in due
teatri, il Metropolitan di New York e il Costanzi di Roma. Gli ultimi sussulti
della grande guerra rendevano oltremodo difficoltosi i viaggi, in specie quelli
transoceanici, perciò Puccini rinunciò a recarsi negli Stati Uniti, e tutti i
suoi sforzi si concentrarono sul debutto europeo. A New York Suor Angelica
ebbe come interpreti Geraldine Farrar (la prima Butterfly americana) e Flora
Perini (la zia principessa). Al grande successo dell’atto fiorentino, osannato
dalla critica statunitense, non ne corrispose uno pari per le altre due opere: Angelica,
in particolare fu definita un autentico fallimento, poiché la musica era
«troppo poco raffinata per essere naturale». La prima romana ebbe luogo l’11
gennaio 1919, e la parte principale fu sostenuta da Gilda Dalla Rizza. Qui la
critica riabilitò in parte Suor Angelica, ma dopo le prime riprese nei
teatri europei l’opera cominciò a riscuotere meno successo delle sue due
compagne, che cominciarono a vivere un’esistenza separata. Tuttavia l’impatto
teatrale dei tre atti unici, visti uno dopo l’altro, è fra i più travolgenti,
ed è dunque preferibile mettere in scena, come ora si fa più frequentemente,
l’intero Trittico: posta al centro, Suor Angelica costituisce il
perno di tutta la drammaturgia.
LA TRAMA
In un monastero, sul finire del XVII secolo. Mentre le campane
rintoccano, suor Angelica attraversa il chiostro e raggiunge le consorelle
raccolte in preghiera nella piccola chiesetta. All’uscita dalla funzione, la
zelatrice punisce due converse giunte in ritardo; non Angelica, che ha fatto
umilmente atto di contrizione. Poco per volta escono allo scoperto le dure
regole della vita di clausura, fatta di privazioni e umiliazioni, come quella
che tocca poco dopo a suor Osmina, rea di aver tenuto due rose nelle maniche e
costretta a rinchiudersi in cella. Ma ci sono anche giovani monache, come
Genovieffa (“O sorelle, sorelle, io voglio rivelarvi”) capaci di entusiasmarsi
alla vista di un raggio del sole che getta una luce dorata sull’acqua della
fonte. La maestra spiega alle novizie che, per via degli orari rigidi di uscita
dal coro, solo per tre sere di maggio le suore possono vedere il tramonto. Le
monache si rendono allora conto che è passato un anno dalla morte di una sorella,
e Genovieffa le invita a portare sulla tomba un secchiello d’acqua di fonte,
pensando che l’estinta lo gradirebbe. Angelica le ricorda che i morti non
coltivano desideri, ma hanno finalmente trovato la pace (“I desideri sono i
fiori dei vivi”). Genovieffa, che pascolava le pecore prima di entrare in
convento, desidera vedere un agnellino (“Soave Signor Mio”), mentre suor
Angelica, interpellata, dichiara di non avere desideri. Mente, affermano le
suorine, e narrano sottovoce quanto sanno sul suo conto: di origine nobile,
ella vive da sette anni in clausura senza aver notizie della famiglia, che l’ha
rinchiusa in convento per punizione, e vorrebbe aver notizie dei suoi parenti.
Il pettegolezzo viene interrotto dalla suora infermiera, che ottiene da Angelica,
che «ha sempre una ricetta buona fatta coi fiori», un rimedio a base di erbe
per suor Chiara, punta dalle vespe. Rientrano poi le cercatrici portando buone
provviste, che scatenano la gola di suor Dolcina. Mentre tutte beccano un
tralcetto di ribes, la cercatrice descrive una ricca berlina parcheggiata fuori
del parlatorio: subito Angelica viene colta dall’ansia, che cresce sinché la
campanella annuncia una visita. Le monachelle sperano che sia un loro parente,
ma Genovieffa si rivolge ad Angelica, che se ne sta tormentata in un angolo, e
a nome di tutte le augura che sia quella visita che attende da tanti anni. La
badessa chiama l’affannata protagonista al parlatorio, invitandola a calmarsi;
poi la vecchia zia principessa entra, e con atteggiamento altero comunica alla
nipote che è venuta a farle firmare una carta per dividere il patrimonio da lei
amministrato dopo la morte dei genitori. Angelica invoca la sua clemenza, ma la
zia prosegue implacabile, spiegandole che l’atto serve alla sorella minore che
sta per sposarsi, nonostante il disonore che Angelica ha gettato sulla casata,
procreando un figlio al di fuori del matrimonio. Spiega poi all’infelice madre
che, quando si raccoglie in preghiera, le riserba un solo pensiero: che abbia a
espiare la colpa commessa (“Nel silenzio di quei raccoglimenti”). Ma Angelica,
affranta, è tormentata dal desiderio di conoscere la sorte di quel figlio che
le è stato strappato: prima di uscire la vecchia, rimamanendo impassibile
com’era entrata, le rivela che è morto di una malattia incurabile. Angelica dà
sfogo allora a tutta la sua atroce disperazione (“Senza mamma”), e sogna il
figlio in ogni luogo. Non le resta che preparare una pozione di erbe velenose
per togliersi la vita e dare addio al piccolo mondo che l’ha ospitata per sette
anni. Ma all’improvviso si pente del suo gesto: mentre sta per spirare le
appare, come in una visione, la Vergine, che spinge un bambino verso di lei, in
segno di perdono.
CONSIDERAZIONI SULL’OPERA
Suor Angelica divide col Tabarro il ruolo centrale che il fattore tempo riveste nell’economia del dramma. In particolare il passato è premessa indispensabile della tragedia claustrale, dove la protagonista non ha mai vissuto una vera felicità: quasi due terzi dell’opera sono costellati di riferimenti tramite cui si prende gradatamente coscienza del lento fluire del presente. «Le tre sere della fontana d’oro» sono le uniche in cui le recluse contemplano il tramonto, e conducono le suorine alla riflessione malinconica: «un altr’anno è passato». Il candido desiderio di Suor Genovieffa («Da cinqu’anni non vedo un agnellino») è una delle tante premesse perché Angelica, a colloquio con la zia principessa, constati dolorosamente che «sett’anni son passati» da quando è entrata in clausura. Tutte le strutture temporali, insomma, devono essere rievocate per poter contestualizzare l’attimo che si vive sulla scena. Un secondo parametro vincola saldamente Angelica alle altre due opere: l’inedito ruolo giocato dalla caratterizzazione musicale dell’ambiente in rapporto allo sviluppo dell’azione e alla forma musicale dell’atto unico. Nell’asettico convento di clausura, dove si svolge la vicenda, la vita non pulsa e l’amore manca, mentre regnano il senso di colpa e l’ipocrita bigotteria. Preghiere, rintocchi di campane, inni in latino, sottolineati da una scrittura modale e da timbri sfumati e algidi, marcano un distacco dal mondo degli affetti terreni che è frutto della costrizione e della rinuncia. Angelica è sottratta a ogni inserto naturalistico, di cui invece Tabarro è permeato; pure il luogo claustrale fornisce l’occasione per costruire un tessuto musicale omogeneo e rigoroso, che riflette un clima peculiare. Puccini amò quest’atto unico più degli altri due, non solo per l’originalità del soggetto, ma soprattutto perché gli consentiva di tornare alla tematica prediletta negli anni centrali della sua produzione: l’amore colpevole (Manon Lescaut) o frainteso (Madama Butterfly), vissuto da una protagonista femminile a tutto campo. Peraltro Angelica si differenzia profondamente: dopo avere vissuto l’amore senza un’ombra di egoismo, ne viene privata. Le due eroine precedenti hanno un ruolo attivo nel determinare la propria sorte, mentre la monaca è costretta a subire le angherie del suo milieu aristocratico, e viene rinchiusa tra le mura di un convento per seppellire una colpa che tale non è. In nome delle convenzioni bigotte della sua classe le viene negato il diritto alla maternità, sebbene un istinto biologico fortissimo le consenta di sopravvivere, sorretta com’è dal pensiero di un’altra esistenza che comunque cresce, mentre il tempo intorno a lei si è fermato. La brutale rivelazione della morte del bimbo le toglie l’ultimo appiglio, e il suicidio viene, dopo il grande assolo – “Senza mamma”, vertice fra i più toccanti dell’arte di Puccini – come diretta conseguenza della contrazione dei tempi drammatici. Sette anni d’attesa contro tre frasi pronunciate seccamente dalla crudele zia principessa: un urto talmente improvviso e violento da farle completamente smarrire la ragione.
Anche i biografi più acuti, con rare eccezioni, non compresero la
necessità di dilatare la prima parte del dramma, dando ragione al pubblico che
a sua volta aveva dimostrato di non amare troppo la minuta descrizione della
vita monacale. Troppo attratto dall’atmosfera peculiare del convento di suore
di clausura, il compositore non si sarebbe accorto che la sua immaginazione ne
sarebbe rimasta fatalmente imbrigliata. Critiche simili non tengono conto
dell’assoluta necessità di questa ‘tinta’, fatta di pennellate uniformi e di
colori sfumati (soprattutto impasti tra legni e arpa). La descrizione musicale
dell’atmosfera non risponde a una logica realistica, se non per certi tocchi di
concretezza, quei canti in lode di Cristo e della Vergine o quella voce delle
campane, che divengono elementi funzionali all’accrescersi del dramma personale
della protagonista.
Come in Tabarro, l’azione inizia al tramonto per concludersi a
notte inoltrata, e vede in scena un nutrito gruppo di quindici personaggi,
tutti femminili. Estranea al convento è solo la zia principessa, l’unica parte
importante di tutto il teatro pucciniano affidata a un contralto. Nella
galleria dei grandi carnefici pucciniani essa occupa un posto di primo piano,
per la complessità psicologica che dimostra nel poco spazio concessole in
partitura. La sua ostentata freddezza ha aspetti quasi patologici, che Puccini
suggerisce trattando la sua linea vocale per formule ossessive: il canto
prevalentemente declamato s’aggira come una serpentina e scolpisce l’immagine
di una figura immota, che il tempo ha congelato in un passato carico di sordo
rancore.
Nel miracolo si udranno anche le voci bianche e quelle maschili, unite
nel canto dell’inno (“O gloriosa virginum”). Puccini seppe evitare ogni
monotonia da uniformità dei timbri e isolò sovente piccoli gruppi dal contesto
(trattati come coro da camera), affidò frasi solenni alle suore di rango
superiore e si valse di un secondo soprano dalla voce più leggera, suor
Genovieffa, per alcuni passi di carattere. Ma soprattutto seppe fondere le voci
all’orchestra, calibrando le sonorità e i colori, e sfruttò abilmente gli
idiofoni in lunghi episodi concertanti assieme alle prime parti di legni e
archi, non di rado con l’intervento di trombe e corni con sordina. L’orchestra
si muove in punta di piedi entro un dramma fatto di sottili perfidie e di
malinconia, sfoggiando una grande varietà di tenui impasti timbrici e dinamiche
soffuse (dal pianissimo al piano). Una citazione a parte merita
il miracolo finale, dove le voci del coro misto sono sostenute da una tavolozza
timbrica fredda e brillante: arpeggi di due pianoforti nel registro acuto sugli
accordi fissi dell’organo, fanfara di tre trombe, leggeri colpi dei piatti,
rintocchi delle campane. Un timbro che è già luce di per sé, ma che intensifica
anche l’effetto del fascio luminoso che proviene dalla chiesetta. Su questa
invenzione timbrica, che comunica l’idea della trasfigurazione della
protagonista, cala il sipario sull’atto centrale del Trittico. Puccini
interpreta l’evento come un’abbagliante visione della morente, senza alcun fine
edificante, ed è un suggello perfetto per un’opera intensamente poetica, che
non manca mai di commuoverci.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
Gianni Schicchi
Opera in un atto di Giovacchino Forzano
Per la stesura del libretto della terza parte del Trittico dapprima
Puccini si rivolse allo scrittore francese Tristan Bernard, autore di numerosi
lavori teatrali di successo e noto in Francia anche come romanziere, il quale
gli suggerì come soggetto una sua favola. Tuttavia tale progetto andò in fumo,
quando Giovacchino Forzano attirò l’attenzione del compositore sulla Divina
Commedia e sulla bizzarra figura di Gianni Schicchi. Secondo alcuni,
invece, il merito della fortunata scelta spetta a Puccini, che leggeva spesso
Dante e aveva sempre con sé un’edizione tascabile del capolavoro. Il Maestro
era contento di musicare un argomento vivace e divertente e per comunicare il
suo stato d’animo indirizzò a Forzano una strofetta comica: «Dopo il Tabarro
di tinta nera / sento la voglia di buffeggiare. / Lei non si picchi / se faccio
prima quel Gianni Schicchi». Infatti la composizione dell’opera,
avvenuta quasi tutta a Viareggio, iniziò nel luglio 1917 e si concluse il 20
aprile 1918, tranne la breve interruzione in settembre per la messa a punto di Suor
Angelica. Quando i tre atti unici furono rappresentati al Metropolitan di
New York, il 14 dicembre 1918, il successo pieno l’ebbe Gianni Schicchi,
assai più applaudito di Tabarro e dell’ ‘anemica’ Suor Angelica:
la qual cosa amareggiò profondamente il maestro, il quale amava la sua opera
‘claustrale’ e contava molto sulla ‘novità’ del Tabarro. L’11 gennaio
seguente il Trittico venne dato al Teatro Costanzi di Roma, diretto da
Gino Marinuzzi. Per la rappresentazione al Covent Garden di Londra, Puccini non
volle la direzione di Toscanini e pretese Gaetano Bavagnoli. A questo proposito
scrisse all’amica Sybil, nel marzo 1919, sfogando la sua amarezza: «Io ho
protestato colla Casa Ricordi perché non voglio il pig di Toscanini; lui
ha detto tanto male delle mie opere e ha cercato di suggestionare anche alcuni
giornalisti, perché ne dicessero male». Tuttavia, nonostante la critica talora
poco favorevole, i tre atti unici continuarono a essere rappresentati,
riscuotendo sempre un grande successo di pubblico; è opportuno ricordare, tra
le numerose esecuzioni, quelle al Teatro Colòn di Buenos Aires (10 luglio 1919,
diretta da Tullio Serafin), al Regio di Torino (25 gennaio 1920, diretta da
Ettore Panizza) e alla Scala di Milano (29 gennaio 1922, con il medesimo
direttore).
Trattare un tema furfantesco, una situazione da commedia dell’arte, ma di
taglio moderno, era senza dubbio una prova singolare e fuori del comune per un
temperamento non incline all’umorismo, nonostante la brillantezza di molte
pagine di Bohème e della Rondine. Pertanto la comicità dispiegata
nello Schicchi sorprende più di quella del Falstaff, poiché Verdi
aveva già dimostrato di possedere una genuina tendenza a trattare l’elemento
comico (Forza del destino, Un ballo in maschera). I principali
punti di contatto fra queste due opere derivano dalla comune origine del genere
buffo operistico italiano: la voce baritonale per il protagonista, la relazione
sentimentale tra soprano e tenore ostacolata dalle famiglie, fino alla beffa
che dà origine allo scioglimento. Tuttavia, mentre Verdi riflette anche nella
leggerezza profondi principi morali, Puccini pone l’accento sulla dissennata
avidità priva di scrupoli dei parenti di Buoso, valendosi anche di elementi
grotteschi e talora macabri, come la presenza costante del cadavere – prima
messo in bellavista e poi deposto nella stanza attigua – o l’assoluta
spudoratezza di Gianni che, per attuare la sua beffa, si adagia nello stesso
letto del defunto senza neppure il cambio delle lenzuola, né esita a ricattare
i parenti di costui con il taglio della mano, pena decretata per i falsari.
La fonte primaria del soggetto dell’opera è dunque in un breve episodio
contenuto nel trentesimo canto dell’Inferno, dove il protagonista viene
condannato in quanto «falsatore di persone». A sua volta anche Dante si era
ispirato a un fatto realmente accaduto: lo Schicchi, appartenente alla famiglia
Cavalcanti, sostituendosi al cadavere di Buoso Donati, dettò un falso testamento
in favore del figlio di costui, Simone, diseredato dal padre, lasciando per sé
una cavalla di pregio. Tuttavia Forzano poté sicuramente disporre per la
composizione del suo libretto anche di un testo ben più esteso e articolato
rispetto ai pochi versi danteschi: il Commento alla Divina Commedia
d’Anonimo fiorentino del secolo XIV, stampato a cura di Pietro Fanfani nel
1866, che riporta molti particolari (la beneficenza di Buoso per guadagnarsi un
posto in paradiso, l’occultamento del cadavere, il timore di essere scoperto
che frena la ribellione di Simone, ‘la cappellina’, ‘l’opera di Santa
Reparata’, ‘la migliore mula di Toscana’, ecc.) ampiamente ed efficacemente
sfruttati dal nostro librettista. Inoltre il tema dell’avidità degli eredi,
ricorrente in molte farse e commedie di ogni tempo e luogo, richiama alla
memoria il Volpone (1605) di Ben Jonson, drammaturgo del teatro
elisabettiano, con il quale la trama del Gianni Schicchi presenta
evidenti analogie.
Anche in questa opera, come nelle precedenti del Trittico, Puccini
caratterizza con grande precisione l’atmosfera e l’ambiente, ritraendo
un’immagine splendida della Firenze medioevale. La città rivive grazie a
precisi riferimenti storici (Giotto, i Medici, i ghibellini) e topografici –
individuando l’esatto contesto geografico in relazione al Valdarno, dove sono i
possedimenti ambiti dai Donati, oppure citando il fiume che l’attraversa – e
linguistici, con espressioni peculiari, veri e propri toscanismi, che
stimolarono non poco la creatività del lucchese Puccini, specie negli ensembles
concertati. Nella prima parte i Donati sono al centro dell’azione, e sia il
libretto sia la partitura li identificano con grande precisione, definendo
l’età di ciascuno e i rapporti di parentela, importanti quando si deve
stabilire a chi spettino i diritti di un’eredità. Avidi e cinici, sono disposti
a tutto pur di raggiungere il loro scopo, esprimono un cordoglio manierato e
falso, sono nobili decaduti, opportunisti, pronti a dare solo se ricevono:
Simone accende le candele non appena il suo nome compare nel testamento, ma le
spegne prontamente quando si rende conto che non riceverà nulla. Anche per
l’ultima parte del Trittico, Puccini osservò le due unità di luogo e di
tempo: l’azione si svolge nella camera da letto di Buoso Donati, inizia alle
nove del mattino e termina circa a mezzogiorno.
LA TRAMA
Nella sua casa di Firenze (anno 1299) è spirato Buoso Donati e i parenti
lo vegliano in preghiera. Ma poiché corre voce che Buoso abbia lasciato i suoi
beni ai frati, la veglia viene interrotta per aprire il testamento, che
conferma la fondatezza delle dicerie. Rinuccio, fidanzato di Lauretta, figlia
di Gianni Schicchi, propone alla famiglia di ricorrere ai consigli del futuro
suocero, che ritiene uomo astuto e accorto (recitativo-arioso di Rinuccio
“Avete torto! È fine! ... astuto...”). Zita, detta la Vecchia, protesta
all’arrivo di Schicchi, a causa delle sue origini plebee e costui, offeso, se
ne andrebbe, senza le implorazioni di Lauretta (“O mio babbino caro”). Subito Gianni
elabora un piano che diventa a tutti chiaro quando, contraffacendo la voce di
Buoso, risponde al dottor Spinelloccio, venuto a informarsi della salute del
paziente. Pertanto manda a chiamare il notaio (arietta di Gianni “Si corre dal
notaio”) e, messosi a letto travestito da Buoso, detta il nuovo testamento,
destinando i beni più ambiti per sé: la casa di Firenze, la mula, i mulini di
Signa. Né i parenti possono protestare senza svelare la truffa e quindi
incorrere nella giusta punizione (stornello di Gianni “Addio, Firenze, addio,
cielo divino”). Dopo aver scacciato tutti dalla casa che è ormai divenuta sua
proprietà, mentre Rinuccio e Lauretta amoreggiano sul balcone (“Lauretta mia,
staremo sempre qui”), egli si rivolge al pubblico, spiegando di aver tanto
osato per il bene dei due fidanzati e reclama l’attenuante.
CONSIDERAZIONI SULL’OPERA
Puccini, nella lettera indirizzata ad Eisner il 14 dicembre 1913, disse
di voler comporre un’opera più divertente e organica del Rosenkavalier di
Richard Strauss, realizzando una notevole concentrazione del materiale musicale
grazie alla continua presenza in scena dei parenti di Buoso, nove solisti nei
diversi registri vocali, trattati dal compositore come un coro da camera. La
scrittura tematica, atta a veicolare i significati semantici con chiarezza, e
il ritmo sono gli elementi unificatori della partitura. «Le linee melodiche,
quasi sempre di struttura metrica binaria, si accompagnano a ostinati ribattuti
spesso inaspriti da episodi politonali e dallo scontro di taglienti dissonanze
di sapore bartokiano» (Michele dall’Ongaro). Le possibilità timbriche delle
voci e dell’orchestra sono ampiamente sfruttate per esprimere le più svariate
sfumature, dal tratto ironico all’esasperazione grottesca: sono soprattutto i
legni, specialmente gli strumenti ad ancia, a mettere in rilievo i numerosi
scorci caricaturali dell’opera.
Già nel piccolo preludio possiamo ascoltare due temi che saranno
fortemente presenti anche in seguito. Il primo, denominato ‘del lutto’, è costituito
da un movimento ostinato di crome al quale subito dopo si sovrappone il
secondo, dal carattere svettante, ritmicamente puntato, rivolto nella prima
parte essenzialmente a mettere in ridicolo l’interesse dei Donati per
l’eredità. Entrambi i temi sono estremamente duttili, e assumono aspetti
diversi in base ai cambiamenti metrici e agogici. Il tema ostinato passa dal
veloce Allegro del preludio al tempo di Largo su cui si alza il sipario,
caratterizzando il lamento ipocrita dei parenti di fronte al corpo esanime del
loro congiunto. Un Allegro vivo sottolinea ed accompagna l’affannosa ricerca
del testamento in ogni angolo della stanza. Poi ritorna nell’assolo di Gianni
“Si corre dal notaio”, quando viene descritta la scena che si presenterà agli
occhi del notaio, condensandosi nei due melismi delle parole «semioscura» e
«letto»; sempre su questo melisma si modella l’importante melodia
dell’avvertimento sulla pena riservata ai falsari, “Addio, Firenze”. Il secondo
motivo, come detto, utilizzato per ridicolizzare l’interesse all’eredità, passa
in seguito a indicare Gianni Schicchi, nominato per la prima volta da Rinuccio.
Quindi punteggia tutta la prima parte dell’assolo del tenore “Avete torto”, e
torna nel momento in cui il protagonista bussa alla porta, sovrapponendosi alla
melodia dei bassi; infine viene intonato dalle tre donne di famiglia dopo la
scena della vestizione (Nella, la Ciesca, Zita “Spogliati bambolino”).
Quando Rinuccio nel suo recitativo arioso “Avete torto”, tesse le lodi
del personaggio principale, compare, alternato al tema del nome, un altro
motivo importante a lui strettamente legato, quello ‘della beffa’: alle parole
«Motteggiatore! beffeggiatore!», la voce è accompagnata da una piccola fanfara
di triadi ribattute. Questa cellula sarà ripresa più volte nell’opera per
ricordare la vera natura dello Schicchi in relazione alla falsa identità di
Buoso. Un altro tema ricorrente, costituito ancora da un frammento di ostinato
inserito entro una cadenza, è quello definibile ‘del testamento’, in quanto si
presenta per la prima volta mentre i Donati aprono il suddetto documento, viene
ripreso là dove Spinelloccio vanta a sproposito i meriti della scuola
bolognese, poi nell’assolo di Schicchi riferito al notaio e infine, molto
chiaramente, quando quest’ultimo farà il suo ingresso in scena. Medicina e
legge vengono ambedue ridicolizzate dai tratti scolastici di questa cadenza
perfetta. Anche l’amore tra Rinuccio e Lauretta ha un motivo specifico più
volte ripreso: una melodia piena di slancio, citata inizialmente dall’orchestra
dopo che il ragazzo è riuscito a trovare la pergamena del testamento e, forte
della sua scoperta, approfitta per chiedere subito la mano dell’amata
fanciulla. Uno dei punti più interessanti del Gianni Schicchi è il
concertato (Simone “Dunque era vero”) che segue l’apertura del testamento: una
pagina dove si scatena la rabbia di tutti che protestano contro le ultime
volontà dello scomparso e dove la musica, utilizzando una variante del tema
‘del lutto’, diventa più netta e squadrata, lasciando spazio ad aggressivi
ostinati, tinti da acidissime dissonanze, alla maniera di un Bartók o di uno
Stravinskij. Rinuccio, dopo aver replicato alla protesta dei parenti contrari
all’unione fra un Donati e «la figlia di un villano! / D’uno sceso a Firenze
dal contado!», canta, «ad uso di stornello toscano», come indica la partitura,
la prima vera e propria romanza dell’opera: “Firenze è come un albero fiorito”.
Fra la prima e la seconda strofa è inserita la melodia della successiva aria di
Lauretta “Oh mio babbino caro”, poi viene descritto lo scorrere dell’Arno con
figure ostinate di semicrome e infine nell’ultima parte, condotta a mo’ di
marcia, sono citati due grandi toscani venuti dalla provincia, Arnolfo di
Cambio e Giotto.
Puccini, per la celebre aria di Lauretta “Oh mio babbino caro”, brano di
intensa effusione lirico-sentimentale, con cui la ragazza supplica il padre di
aiutarla a coronare il suo sogno d’amore, riprende la melodia per la prima
volta esposta nello stornello di Rinuccio, probabilmente per associare alla
‘gente nuova’, esaltata dal fidanzato, il senso dell’affetto familiare di cui i
Donati sono totalmente sprovvisti. Il personaggio che più di ogni altro
affascina e convoglia l’ammirazione e le simpatie del pubblico, perfettamente
descritto sia dal punto di vista narrativo che musicale, è sicuramente Gianni
Schicchi: uomo scaltro e astuto, dalla forte personalità, vero rappresentante
di una classe borghese solida anche al tempo in cui la vicenda è ambientata.
Fin dal suo ingresso in scena si dimostra impavido, senza scrupoli e,
completamente padrone della situazione, aggredisce con vigore la Zita che lo
scaccia, apostrofandola «Vecchia taccagna! Stillina! Sordida! Spilorcia!
Gretta!»; dopodiché attacca un travolgente quartetto in cui la sua voce si
contrappone a quella della vecchia e all’ansia dei due amanti, che parlano
della collina di Fiesole dove si sono giurati eterno amore. Dopo l’assolo “Si
corre dal notaio” il protagonista canta una canzone dall’andamento grottesco
“In testa la cappellina!”, in cui l’orchestra accompagna la voce in una melodia
cromatica, quasi da cabaret, con accordi pizzicati dagli archi. Lo
stesso cromatismo lo troviamo nel brevissimo concertato seguente,
caratterizzato da un fitto intreccio polifonico. L’“Addio, Firenze”, stornello
prima intonato da Gianni e poi dagli altri, dalla modalità ‘medievaleggiante’,
in cui la nota dominante esercita una forza d’attrazione tale da convergere
tutte le ondulate figure di cui è composto il tema, funge da necessaria
premessa al gran finale e rappresenta il macabro avvertimento ai parenti prima
che arrivi il notaio. Lo Schicchi detta il testamento e lascia per sé i beni
più preziosi del defunto Buoso, unica possibilità che permetta l’unione di
Rinuccio con Lauretta, ostacolata dalla classe nobile, corrotta e decaduta.
Per frenare le proteste dei Donati, il baritono alterna la dettatura al
canto minaccioso di “Addio Firenze”, intessuto d’armonie sempre più dissonanti.
Infine l’amore tra i due giovani, espresso nel duetto conclusivo “Lauretta mia,
staremo sempre qui!”, basato sul tema simbolo del loro sentimento, si
contrappone alla confusione della scena precedente, in cui i furiosi parenti
saccheggiano la casa cacciati dal nuovo proprietario e riscatta tutte le debolezze
umane, compresa quella di Gianni che torna in scena carico degli oggetti
strappati ai Donati. Come in ogni opera buffa che si rispetti, lo Schicchi
avanza verso il proscenio e, accennando agli innamorati con la berretta in
mano, declama la sua licenza sugli accordi tenuti dell’orchestra.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Per quanto riguarda Il tabarro molte (per la verità non
moltissime) sono le edizioni e, come succede per le tre opere del Trittico, non
sempre coincidono con una esecuzione integrale di tutte.
Sicuramente interessante è l’edizione del 1977 con la direzione di Lorin
Maazel e una serie di voci abbastanza buone (Ingvar Wixell, Placido Domingo e
Renata Scotto), così come sono da ascoltare sia l’edizione del 1991 diretta da
Bruno Bartoletti (Con Juan Ponso, Giuseppe Giacomini e Mirella Freni) che
quella del 1998 diretta da Antonio Pappano (con Carlo Guelfi, Neil Shicoff e
Maria Guleghina).
Edizione a mio avviso di riferimento per quest’opera è però quella del 1956 diretta elegantemente da Vincenzo Bellezza e con un cast superlativo che annovera innanzitutto lo straordinario Michele di Tito Gobbi, l’ottimo Luigi di Giacinto Prandelli e una buonissima Margaret Mas come Giorgetta. I comprimari sono di un livello altissimo e di questi voglio ricordare Piero De Palma (Il Tinca) e Plinio Clabassi (Il Talpa).
Ecco qui il link per ascoltare l’opera:
Per quanto riguarda Suor Angelica ci sono alcune edizioni
molto interessanti: quella diretta da Tullio Serafin nel 1957 con Victoria de los Ángeles e Fedora Barbieri;
quella diretta da Lorin Maazel nel 1976 con Renata Scotto e Marilyn Horne;
infine quella diretta da Bruno Bartoletti nel 1991 con Mirella Freni e Elena
Souliotis (quest’ultima però fuori ruolo).
Insieme a queste però consiglio l’edizione diretta da Bruno Bartoletti
(uno dei più grandi direttori pucciniani di sempre) nel 1973 a Santa Cecilia
con una straordinaria, a mio parere, Katia Ricciarelli e un’ottima Fiorenza
Cossotto come Zia Principessa.
Qui il link per ascoltare l’opera cantata dalla Ricciarelli:
Parlando di Gianni Schicchi non si possono non ascoltare tre belle edizioni, almeno a mio parere: quella diretta da Francesco Molinari-Pradelli con protagonista Renato Capecchi e quella diretta da Lorin Maazel con Tito Gobbi.
Ma a farla da padrona è per me l’edizione del 1958 con
la buona direzione di Gabriele Santini e la straordinaria performance di Tito
Gobbi, contornato da ottimi cantanti tra cui l’ammaliante Lauretta di Victoria
de los Ángeles.
Qui di seguito il link per ascoltare questa edizione:
Negli ultimi anni spesso il Trittico è stato eseguito in maniera completa e vorrei ricordare, a proposito, la buona edizione scaligera del 2008 con la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Luca Ronconi. Assieme a questa mi preme ricordare la buonissima edizione andata in scena nei teatri emiliani con la direzione orchestrale di Julian Reinolds e la regia di Cristina Pezzoli.
Commenti
Posta un commento