ALMANACCO MUSICALE - 14 DICEMBRE - IL TRITTICO di Giacomo Puccini

IL TRITTICO

Musica di Giacomo Puccini

 

Prima rappresentazione: New York, Metropolitan Opera, 14 dicembre 1918



Il tabarro

Opera in un atto di Giuseppe Adami

 

Da molti anni il compositore pensava a tre atti unici da rappresentare in un solo spettacolo teatrale: opere di atmosfera e stili diversi con cui poter toccare i caratteri tragico, lirico e comico. Dapprima (nel 1900) ebbe l’idea di musicare tre ‘quadri’ tratti dalla Commedia dantesca; in seguito, nel 1904, sperò di ricavare tre libretti dai racconti di Maksim Gor’kij, fra i quali preferiva La zattera per il suo tono cupo, ma ancora una volta il progetto andò in fumo. Passati ormai parecchi anni, fu il dramma di Didier Gold La Houppelande a risolvere i dubbi, le incertezze del musicista sulla scelta del soggetto. Esso sarebbe servito per la composizione del primo atto del Trittico, quello passionale e tragico. Puccini cercò la collaborazione di Ferdinando Martini, letterato di fama, e dello stesso commediografo Dario Niccodemi, ma entrambi non realizzarono poi il libretto, che fu infine scritto da Adami. Puccini cominciò a comporre Il tabarro nel 1913, poi interruppe il lavoro per dedicarsi esclusivamente alla scrittura della Rondine e solo alla fine dell’estate 1915 lo riprese, per terminarlo il 25 novembre 1916. Successivamente accompagnò il truce dramma con altre due opere di diverso genere: Suor Angelica e Gianni Schicchi. I tre atti unici ebbero la prima rappresentazione il 14 dicembre 1918, al Metropolitan di New York, diretti da Roberto Moranzoni con esito sostanzialmente positivo, anche se solo Gianni Schicchi fu accolto senza riserve, mentre gli altri due lavori suscitarono qualche perplessità. Vi furono tuttavia dieci chiamate al proscenio per Suor Angelica (che fu criticata dalla stampa), contro le cinque del Tabarro e le otto dello Schicchi. Dopo neppure un mese, l’11 gennaio 1919, il Trittico approdò a Roma (Teatro Costanzi) con la direzione di Gino Marinuzzi. In quel periodo i rapporti tra Toscanini e Puccini erano piuttosto tesi, e tali da non consentire la presenza sul podio del direttore parmense. Il motivo dell’attrito non era soltanto di natura politica, ma riguardava anche Il tabarro: con un aspro giudizio Toscanini condannò apertamente il libretto per il suo «spregevole tono da grand-guignol» e la partitura per la cupa monotonia e per la violenza di un realismo volgare. Puccini rimase talmente offeso che, quando le tre opere furono rappresentate a Londra al Covent Garden, rifiutò la direzione del grande maestro e optò per Gaetano Bavagnoli. Altre rappresentazioni memorabili furono quelle al Teatro Colón di Buenos Aires il 10 luglio 1919, diretta da Tullio Serafin, al Regio di Torino il 25 gennaio 1920, diretta da Ettore Panizza, e alla Scala di Milano il 29 gennaio 1922, sempre con Panizza. Il soggetto da cui fu tratta l’opera, il dramma in un atto La Houppelande di Didier Gold (1910), appartiene al genere nero. Si tratta di un grand-guignol ambientato nei bassifondi di Parigi, sulle rive della Senna. I protagonisti sono degli scaricatori che vivono in uno sfondo sociale di profonda miseria. Il dramma è nel suo insieme assai più violento del Tabarro; non solo Marcel – Michele nell’opera pucciniana – uccide il rivale in amore, ma anche Gujon, il ‘Tinca’ di Adami e Puccini, si vendica dell’adulterio della moglie pugnalandola. Il librettista Adami mantiene il delitto di cui si macchia il padrone della barca, mentre accenna soltanto all’infelicità coniugale del Tinca, che beve per non uccidere la consorte. Diverso è poi il ‘taglio’ dato alla figura di Giorgetta, che nell’opera appare meno colpevole di quanto non sia nel dramma di Gold. La protagonista non è una predatrice d’amore, ma semplicemente una donna che insegue il suo sogno di felicità per dimenticare un passato di sofferenza; inoltre Adami riesce ad accentuare gli accenni di denuncia sociale contenuti nel dramma originale. Gold rimase così entusiasta dell’opera pucciniana, da diventarne il traduttore per l’edizione francese.



LA TRAMA

Sulla Senna è ancorato un vecchio barcone da carico, di cui è padrone Michele. Questi, che ha sposato Giorgetta, una parigina di diversi anni più giovane di lui, avverte che l’unione è in crisi e sospetta da troppi indizi che ella, sempre più insofferente e scontrosa nei suoi riguardi, lo tradisca con un altro uomo. Il sospetto si dimostra fondato: Giorgetta è innamorata di Luigi, un giovane scaricatore che si è legato perdutamente a lei e che ogni sera, richiamato dal tenue chiarore di un fiammifero acceso, la raggiunge protetto dall’oscurità. Mentre Giorgetta si ritira nella sua cabina in attesa che il marito la segua e si assopisca, per poi incontrarsi con l’amato, Michele indugia e rimane solo a rimuginare sui suoi sospetti e a immaginare chi, tra i suoi uomini, potrebbe essere l’amante; nel frattempo accende la pipa. Scambiandolo per il segnale convenuto, Luigi sale sulla barca e Michele lo afferra. Lo costringe con violenza a confessare le sue colpe e lo uccide nascondendone il corpo col proprio tabarro. Giorgetta, allarmata dai rumori, sale in coperta e per essere rassicurata; chiede al marito di essere avvolta nel tabarro, come un tempo. Michele lo apre e avvicina la faccia di lei a quella del cadavere di Luigi.

 

CONSIDERAZIONI SULL’OPERA

Sia nel libretto sia nella partitura sono specificate le età dei personaggi: Michele ha cinquant’anni, la moglie Giorgetta la metà, l’amante Luigi è appena ventenne. Sono dati importantissimi, perché offrono un movente naturalistico al tradimento nella differenza di età della coppia. Inoltre non bisogna dimenticare che la morte del figlio ha contribuito a sgretolare l’unione; il dolore per la perdita del bambino ha provocato nella madre una reazione di ribellione, di evasione dalle vecchie e scontate cose, per cercare nel futuro, cioè in Luigi, la ragione della sua esistenza. Un altro elemento importante è l’ambientazione: la Senna, che è parte peculiare di Parigi, diventa una realtà drammatica, tangibile momento per momento nella partitura e, come dice Mosco Carner, se nel dramma «resta solo uno sfondo», nell’opera «sembra invadere la scena come una nebbia malefica attraverso la quale si muovono i personaggi». La tristezza greve del fiume accompagna la squallida e faticosa esistenza di questo popolo di vinti, scandisce le loro azioni ripetitive, i loro ritmi di vita sempre uguali, distrugge le loro speranze e i loro sogni come un destino ineluttabile.

Il Tabarro, pur essendo un atto unico, comprende quattro sezioni che possiamo considerare altrettanti piccoli atti. Nelle prime due è abilmente descritto lo stile di vita di questo sottoproletariato parigino, vengono presentati i personaggi che si stagliano sulla scena come delle autentiche macchiette, con i loro caratteri, i loro piccoli desideri, le loro segrete speranze, amarezze e disillusioni, osservandoli nel momento del lavoro frustrante e faticoso, come nell’ora di relax e del riposo, quando una buona bevuta può sollevare gli animi e il suono di un organetto aprire le danze. Il clima leggero di queste prime due parti si contrappone nettamente a quello cupo e disperato delle ultime due. L’atmosfera si definisce precisamente al centro dell’opera, cioè all’inizio della terza sezione, quando è palese all’ascoltatore l’appassionata relazione tra Giorgetta e Luigi. Due brevi intermezzi vocali separano la seconda sezione dalla terza, e questa dall’ultima.


Prima sezione. La barcarola introduttiva dell’orchestra ci propone il tema ‘della Senna’, costituito da bicordi paralleli, che si distendono nelle trentadue battute iniziali. La mancanza di una precisa affermazione della tonalità, che fluttua fra modo misolidio e sol maggiore e la ripetizione ciclica delle figure ostinate dell’accompagnamento, affidato al pizzicato dei contrabbassi, conferiscono un senso arcaico. La prescrizione della partitura di alzare il sipario prima che la musica attacchi sottolinea che il tema del fiume non è un preludio all’azione, ma l’azione stessa. Esso accompagna e si lega profondamente alle esistenze dei personaggi, almeno per tutta la prima parte dell’opera, suscitando nello spettatore una sensazione di realismo, incrementata dall’impiego dei suoni o rumori propri della vita cittadina: il segnale sonoro del rimorchiatore, la cornetta dell’automobile. Al tema della Senna si intreccia il rude canto marinaio degli scaricatori “Se lavoriam senza ardore”. Segue la chanson à boire “Eccola la passata... Ragazzi, si beve” intonata da Luigi: un valzer rustico in tempo classico di 3/4, un tema che solo un’altra volta risentiremo nel corso dell’opera. Esposto in tre diverse tonalità, accompagnato da un’orchestrazione leggerissima e trasparente, rappresenta il momento del brindisi, luogo comune dell’opera, da Traviata a Otello, alla stessa Rondine, fino al “Viva il vino spumeggiante” di Cavalleria rusticana; ma in questo contesto assume un significato particolare. Il vino diventa l’evasione, l’unico modo per non pensare, il solo piacere che si possono concedere uomini condannati dall’ingiustizia sociale alla miseria (Tinca: «In questo vino affogo i tristi pensieri»; «Fa bene il vino! Si affogano i pensieri di rivolta»). Ai versi di Luigi «Sentirete che artista» gli archi pizzicati accennano il tema ‘dell’amore’ fra lui e Giorgetta, rivelandoci in anticipo la relazione tra i due. Segue il valzer dell’organetto, articolato nella forma del rondò, esposto dai tre flauti accompagnati da tre clarinetti, caratterizzato da un’asprezza politonale dovuta all’urto dell’intervallo di settima maggiore tra il primo e il secondo flauto. Nel valzer sono riconoscibili i temi di due canzoni popolari parigine dell’epoca: Giorgette e La Petit Tonkinaise. La figura e la voce del cantastorie “Primavera, primavera” emergono poi in primo piano; la melodia è accompagnata delicatamente dal suono dell’arpa; egli narra la vicenda di Mimì e un quartetto d’archi cita letteralmente il tema tratto dalla Bohème (è l’unico caso di esplicito autoriferimento, con intento ironico, inserito da Puccini in un suo lavoro, se si esclude il gran numero di spunti tematici attinti dal materiale di opere giovanili od incompiute). La melodia del cantastorie viene ripetuta da un coro di Midinettes (sei soprani) che conclude la pagina.

Seconda sezione. Durante il recitativo d’introduzione della Frugola appaiono alcune sequenze di accordi di sapore stravinskiano; del resto molteplici sono i momenti di quest’opera che ci richiamano l’atmosfera generale di Petruška. I brani che si susseguono nella prima parte della sezione, sia le canzoni intonate dalla Frugola che l’aria di Luigi “Il pane lo guadagno col sudore”, hanno un impianto melodico di natura modale. Quest’ultima è particolarmente interessante per la finezza della scrittura e per l’inconsueto messaggio di denuncia sociale affidata alla vocalità tesa del tenore, che si conclude con un finale a effetto “Piegare il capo ed incurvar la schiena”, sottolineato da improvvisi scatti dell’orchestra: in poche battute, dall’andamento metrico assai irregolare, sono concentrate ben undici differenti indicazioni agogiche. Le canzoni della Frugola invece, condotte ambedue su un andamento ritmico ostinato, sono molto efficaci per la caratterizzazione psicologica del personaggio: una donna stravagante, perennemente intenta a rovistare tra i rifiuti (prima canzone: “Se tu sapessi gli oggetti strani”), una personalità semplice che aspira a piccoli sogni (seconda canzone: “Ho sognato una casetta”) e disposta con rassegnazione ad «Aspettar così la morte ch’è rimedio d’ogni male». Elementi madrigalistici sono riscontrabili nell’episodio successivo, che si articola nella struttura tripartita: l’esposizione del tema ‘della nostalgia’, momento in cui Giorgetta reagisce alla cupa rassegnazione dell’amica, per ricordare la vita esaltante di Parigi fatta «di luci e di lusinghe» e il natio sobborgo di Belleville, dove anche lo stesso Luigi ha abitato, poi la descrizione musicale delle varie situazioni esposte dal testo ‘Alle botteghe che si accendono’, al ‘Bosco di Boulogne’, ai ‘Balli all’aperto’, tutti efficacemente sottolineati dai diversi colori timbrici; infine la ripresa del tema che coincide con l’apice espressivo. Una doppia coda conclude il brano durante il quale si congedano il Talpa e la Frugola. L’intermezzo vocale separa la seconda sezione dalla terza; un sopranino e un tenorino (fuori scena) intonano il tema ‘della Senna’, rievocando l’atmosfera iniziale dell’opera.

Terza sezione. Compare il tema dell’amore, accennato per la prima volta dopo la canzone del vino: una semplice cadenza perfetta in tonalità minore, ostinatamente ripetuta e intervallata da pause che suggeriscono un’atmosfera di sospetto ed esitazione. Questa cellula tematica prorompe con vigore alle parole di Luigi «preferisco morire». Quindi oboi e corni eseguono una rapida scala minore armonica che, riprendendo le parole di Giorgetta, possiamo chiamare ‘della voluttà’. Dopo un appassionato duetto Giorgetta-Luigi (“Hai ragione: è un tormento”), torna il tema ostinato del loro amore. La musica rivela tutta l’ansia dei due amanti clandestini, che rievocano la sensualità dei loro incontri segreti, dominati dalla paura di essere scoperti. Il segnale convenzionale tra i due amanti, il fiammifero acceso, viene suggerito dal suono dell’ottavino. Giorgetta, alle parole «Mi pareva di accendere una stella», anticipa un frammento del tema ‘del tabarro’. Il ritorno della scala ‘della voluttà’ conduce al momento di massima espressione emotiva, sottolineato dal tema ‘dell’amore’ alle parole «Non tremo a vibrare il coltello», che in questo caso si associa a un’immagine di morte, alla gelosia che induce al delitto passionale. Il successivo duetto Michele e Giorgetta “Perché non vai a letto?” presenta una costruzione molto interessante. Come una dolce melodia ripetuta ciclicamente a mo’ di ninna-nanna, modellata sul ritmo ondulante del fiume, si alterna e si fonde con un disegno di figure cromaticamente sinuose, così il ricordo nostalgico dei momenti felici, quando i due coniugi innamorati cullavano insieme con tenerezza il loro bambino, è turbato dall’inquietudine di Michele, che intuisce e teme il tradimento della moglie. Nel corso di questo episodio, alle parole «Vi raccoglievo insieme nel tabarro», compare il tema ‘del tabarro’ medesimo; infine, l’ultima parte del duetto tra i due personaggi è incentrata su un nuovo tema, che diremo ‘della felicità’ prendendo spunto dalle parole di Michele. In un intermezzo vocale, Michele abbandona l’immagine di uomo dolce e nostalgico e con rabbia commenta: «Sgualdrina». Due richiami realistici alla vita: l’arrivederci di due amanti lontani (soprano e tenore) e il segnale della cornetta di una caserma, precedono il grande monologo seguente.

Quarta sezione. È il momento in cui Michele attende silenzioso, per scoprire l’amante della moglie e frattanto passa in rassegna i nomi dei suoi dipendenti. Il tema principale che si ripete più volte nel corso del monologo «Nulla... Silenzio» è quello ‘del tabarro’. Alla frase «Chi?... chi?... forse è il mio sonno» troviamo quello che Mosco Carner chiama «il corale della morte». Nella parte centrale, nell’attimo in cui Michele nomina il nome di Luigi, ricompare il tema dell’amore clandestino fra lo scaricatore e Giorgetta. Il motivo ‘del tabarro’ viene riproposto e trasformato, per un breve interludio strumentale, durante il quale Michele accende la pipa e Luigi, scambiandolo per il segnale luminoso di Giorgetta, balza sulla barca. Nella scena del delitto è sempre il tema del tabarro che guida le figure musicali, mescolato al corale della morte. Il dialogo tra Giorgetta e Michele ripropone il tema dell’amore, finché la grande esplosione del finale dell’opera ci rinnova con violenza il tema del tabarro e del corale della morte. Un delitto conclude quest’opera, come avviene per l’accoppiata verista: Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Le tre vicende sono imperniate sul triangolo risolto dal marito tradito, che uccide l’amante. Tuttavia, mentre Alfio e Canio commettono l’omicidio per vendicare il torto subito e recuperare dignità e onore, Michele uccide in preda a un raptus, originato dal tormento per la perdita dell’amore, di quella sola gioia che riusciva a riscattare un’esistenza colma di amarezze, l’unico spiraglio di felicità che una vita miserabile gli poteva concedere.


«La novità di scrittura del Tabarro è l’evidente unitarietà dell’elaborazione formale, dovuta all’adozione di un diverso processo compositivo, che era articolato nelle opere precedenti in un’accavallarsi quasi febbrile dei temi principali e di quelli derivati, e che viene ora disteso su tempi drammaturgici più lunghi e regolari» (Girardi). L’orchestrazione mostra una maggiore semplicità e funzionalità, ora accompagnando delicatamente la voce, ora rinforzando il volume fino a raggiungere la massima sonorità e tensione; in ogni caso occupa sempre una parte di primo piano, perché è in orchestra che si decide l’atmosfera fondamentale del dramma.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

Suor Angelica

Opera in un atto di Giovacchino Forzano

 

Dopo aver completato il Tabarro, primo pannello di un ‘trittico’ che vagheggiava sin dall’inizio del secolo, nel gennaio 1917 Puccini trovò un soggetto adatto per continuare nell’impresa: glielo aveva proposto Giovacchino Forzano, trentatreenne uomo di teatro a tutto campo (baritono, poi librettista e regista di grande successo). Forzano si rivelò per il compositore un collaboratore ideale, grazie al fiuto per il coup de théâtre, al gran mestiere e a una facile vena che gli consentirono di risolvere velocemente anche il problema del terzo e ultimo atto unico. A partire dalla fine di marzo del 1917 Puccini si buttò a capofitto nel lavoro e immaginò subito l’atmosfera musicale adatta per caratterizzare il luogo dov’era rinchiusa la povera Angelica. La sua vis creativa lo portò a schizzare subito un progetto dello Schicchi, che Forzano aveva nel frattempo ultimato, prima di tornare con rinnovato impegno a Suor Angelica (già composta quasi per intero entro la fine di giugno e tutta strumentata col 14 settembre successivo). In origine la ‘prima’ era fissata per il dicembre del 1918 in due teatri, il Metropolitan di New York e il Costanzi di Roma. Gli ultimi sussulti della grande guerra rendevano oltremodo difficoltosi i viaggi, in specie quelli transoceanici, perciò Puccini rinunciò a recarsi negli Stati Uniti, e tutti i suoi sforzi si concentrarono sul debutto europeo. A New York Suor Angelica ebbe come interpreti Geraldine Farrar (la prima Butterfly americana) e Flora Perini (la zia principessa). Al grande successo dell’atto fiorentino, osannato dalla critica statunitense, non ne corrispose uno pari per le altre due opere: Angelica, in particolare fu definita un autentico fallimento, poiché la musica era «troppo poco raffinata per essere naturale». La prima romana ebbe luogo l’11 gennaio 1919, e la parte principale fu sostenuta da Gilda Dalla Rizza. Qui la critica riabilitò in parte Suor Angelica, ma dopo le prime riprese nei teatri europei l’opera cominciò a riscuotere meno successo delle sue due compagne, che cominciarono a vivere un’esistenza separata. Tuttavia l’impatto teatrale dei tre atti unici, visti uno dopo l’altro, è fra i più travolgenti, ed è dunque preferibile mettere in scena, come ora si fa più frequentemente, l’intero Trittico: posta al centro, Suor Angelica costituisce il perno di tutta la drammaturgia.


 

LA TRAMA

In un monastero, sul finire del XVII secolo. Mentre le campane rintoccano, suor Angelica attraversa il chiostro e raggiunge le consorelle raccolte in preghiera nella piccola chiesetta. All’uscita dalla funzione, la zelatrice punisce due converse giunte in ritardo; non Angelica, che ha fatto umilmente atto di contrizione. Poco per volta escono allo scoperto le dure regole della vita di clausura, fatta di privazioni e umiliazioni, come quella che tocca poco dopo a suor Osmina, rea di aver tenuto due rose nelle maniche e costretta a rinchiudersi in cella. Ma ci sono anche giovani monache, come Genovieffa (“O sorelle, sorelle, io voglio rivelarvi”) capaci di entusiasmarsi alla vista di un raggio del sole che getta una luce dorata sull’acqua della fonte. La maestra spiega alle novizie che, per via degli orari rigidi di uscita dal coro, solo per tre sere di maggio le suore possono vedere il tramonto. Le monache si rendono allora conto che è passato un anno dalla morte di una sorella, e Genovieffa le invita a portare sulla tomba un secchiello d’acqua di fonte, pensando che l’estinta lo gradirebbe. Angelica le ricorda che i morti non coltivano desideri, ma hanno finalmente trovato la pace (“I desideri sono i fiori dei vivi”). Genovieffa, che pascolava le pecore prima di entrare in convento, desidera vedere un agnellino (“Soave Signor Mio”), mentre suor Angelica, interpellata, dichiara di non avere desideri. Mente, affermano le suorine, e narrano sottovoce quanto sanno sul suo conto: di origine nobile, ella vive da sette anni in clausura senza aver notizie della famiglia, che l’ha rinchiusa in convento per punizione, e vorrebbe aver notizie dei suoi parenti. Il pettegolezzo viene interrotto dalla suora infermiera, che ottiene da Angelica, che «ha sempre una ricetta buona fatta coi fiori», un rimedio a base di erbe per suor Chiara, punta dalle vespe. Rientrano poi le cercatrici portando buone provviste, che scatenano la gola di suor Dolcina. Mentre tutte beccano un tralcetto di ribes, la cercatrice descrive una ricca berlina parcheggiata fuori del parlatorio: subito Angelica viene colta dall’ansia, che cresce sinché la campanella annuncia una visita. Le monachelle sperano che sia un loro parente, ma Genovieffa si rivolge ad Angelica, che se ne sta tormentata in un angolo, e a nome di tutte le augura che sia quella visita che attende da tanti anni. La badessa chiama l’affannata protagonista al parlatorio, invitandola a calmarsi; poi la vecchia zia principessa entra, e con atteggiamento altero comunica alla nipote che è venuta a farle firmare una carta per dividere il patrimonio da lei amministrato dopo la morte dei genitori. Angelica invoca la sua clemenza, ma la zia prosegue implacabile, spiegandole che l’atto serve alla sorella minore che sta per sposarsi, nonostante il disonore che Angelica ha gettato sulla casata, procreando un figlio al di fuori del matrimonio. Spiega poi all’infelice madre che, quando si raccoglie in preghiera, le riserba un solo pensiero: che abbia a espiare la colpa commessa (“Nel silenzio di quei raccoglimenti”). Ma Angelica, affranta, è tormentata dal desiderio di conoscere la sorte di quel figlio che le è stato strappato: prima di uscire la vecchia, rimamanendo impassibile com’era entrata, le rivela che è morto di una malattia incurabile. Angelica dà sfogo allora a tutta la sua atroce disperazione (“Senza mamma”), e sogna il figlio in ogni luogo. Non le resta che preparare una pozione di erbe velenose per togliersi la vita e dare addio al piccolo mondo che l’ha ospitata per sette anni. Ma all’improvviso si pente del suo gesto: mentre sta per spirare le appare, come in una visione, la Vergine, che spinge un bambino verso di lei, in segno di perdono.

 

CONSIDERAZIONI SULL’OPERA

Suor Angelica divide col Tabarro il ruolo centrale che il fattore tempo riveste nell’economia del dramma. In particolare il passato è premessa indispensabile della tragedia claustrale, dove la protagonista non ha mai vissuto una vera felicità: quasi due terzi dell’opera sono costellati di riferimenti tramite cui si prende gradatamente coscienza del lento fluire del presente. «Le tre sere della fontana d’oro» sono le uniche in cui le recluse contemplano il tramonto, e conducono le suorine alla riflessione malinconica: «un altr’anno è passato». Il candido desiderio di Suor Genovieffa («Da cinqu’anni non vedo un agnellino») è una delle tante premesse perché Angelica, a colloquio con la zia principessa, constati dolorosamente che «sett’anni son passati» da quando è entrata in clausura. Tutte le strutture temporali, insomma, devono essere rievocate per poter contestualizzare l’attimo che si vive sulla scena. Un secondo parametro vincola saldamente Angelica alle altre due opere: l’inedito ruolo giocato dalla caratterizzazione musicale dell’ambiente in rapporto allo sviluppo dell’azione e alla forma musicale dell’atto unico. Nell’asettico convento di clausura, dove si svolge la vicenda, la vita non pulsa e l’amore manca, mentre regnano il senso di colpa e l’ipocrita bigotteria. Preghiere, rintocchi di campane, inni in latino, sottolineati da una scrittura modale e da timbri sfumati e algidi, marcano un distacco dal mondo degli affetti terreni che è frutto della costrizione e della rinuncia. Angelica è sottratta a ogni inserto naturalistico, di cui invece Tabarro è permeato; pure il luogo claustrale fornisce l’occasione per costruire un tessuto musicale omogeneo e rigoroso, che riflette un clima peculiare. Puccini amò quest’atto unico più degli altri due, non solo per l’originalità del soggetto, ma soprattutto perché gli consentiva di tornare alla tematica prediletta negli anni centrali della sua produzione: l’amore colpevole (Manon Lescaut) o frainteso (Madama Butterfly), vissuto da una protagonista femminile a tutto campo. Peraltro Angelica si differenzia profondamente: dopo avere vissuto l’amore senza un’ombra di egoismo, ne viene privata. Le due eroine precedenti hanno un ruolo attivo nel determinare la propria sorte, mentre la monaca è costretta a subire le angherie del suo milieu aristocratico, e viene rinchiusa tra le mura di un convento per seppellire una colpa che tale non è. In nome delle convenzioni bigotte della sua classe le viene negato il diritto alla maternità, sebbene un istinto biologico fortissimo le consenta di sopravvivere, sorretta com’è dal pensiero di un’altra esistenza che comunque cresce, mentre il tempo intorno a lei si è fermato. La brutale rivelazione della morte del bimbo le toglie l’ultimo appiglio, e il suicidio viene, dopo il grande assolo – “Senza mamma”, vertice fra i più toccanti dell’arte di Puccini – come diretta conseguenza della contrazione dei tempi drammatici. Sette anni d’attesa contro tre frasi pronunciate seccamente dalla crudele zia principessa: un urto talmente improvviso e violento da farle completamente smarrire la ragione.


Anche i biografi più acuti, con rare eccezioni, non compresero la necessità di dilatare la prima parte del dramma, dando ragione al pubblico che a sua volta aveva dimostrato di non amare troppo la minuta descrizione della vita monacale. Troppo attratto dall’atmosfera peculiare del convento di suore di clausura, il compositore non si sarebbe accorto che la sua immaginazione ne sarebbe rimasta fatalmente imbrigliata. Critiche simili non tengono conto dell’assoluta necessità di questa ‘tinta’, fatta di pennellate uniformi e di colori sfumati (soprattutto impasti tra legni e arpa). La descrizione musicale dell’atmosfera non risponde a una logica realistica, se non per certi tocchi di concretezza, quei canti in lode di Cristo e della Vergine o quella voce delle campane, che divengono elementi funzionali all’accrescersi del dramma personale della protagonista.

Come in Tabarro, l’azione inizia al tramonto per concludersi a notte inoltrata, e vede in scena un nutrito gruppo di quindici personaggi, tutti femminili. Estranea al convento è solo la zia principessa, l’unica parte importante di tutto il teatro pucciniano affidata a un contralto. Nella galleria dei grandi carnefici pucciniani essa occupa un posto di primo piano, per la complessità psicologica che dimostra nel poco spazio concessole in partitura. La sua ostentata freddezza ha aspetti quasi patologici, che Puccini suggerisce trattando la sua linea vocale per formule ossessive: il canto prevalentemente declamato s’aggira come una serpentina e scolpisce l’immagine di una figura immota, che il tempo ha congelato in un passato carico di sordo rancore.


Nel miracolo si udranno anche le voci bianche e quelle maschili, unite nel canto dell’inno (“O gloriosa virginum”). Puccini seppe evitare ogni monotonia da uniformità dei timbri e isolò sovente piccoli gruppi dal contesto (trattati come coro da camera), affidò frasi solenni alle suore di rango superiore e si valse di un secondo soprano dalla voce più leggera, suor Genovieffa, per alcuni passi di carattere. Ma soprattutto seppe fondere le voci all’orchestra, calibrando le sonorità e i colori, e sfruttò abilmente gli idiofoni in lunghi episodi concertanti assieme alle prime parti di legni e archi, non di rado con l’intervento di trombe e corni con sordina. L’orchestra si muove in punta di piedi entro un dramma fatto di sottili perfidie e di malinconia, sfoggiando una grande varietà di tenui impasti timbrici e dinamiche soffuse (dal pianissimo al piano). Una citazione a parte merita il miracolo finale, dove le voci del coro misto sono sostenute da una tavolozza timbrica fredda e brillante: arpeggi di due pianoforti nel registro acuto sugli accordi fissi dell’organo, fanfara di tre trombe, leggeri colpi dei piatti, rintocchi delle campane. Un timbro che è già luce di per sé, ma che intensifica anche l’effetto del fascio luminoso che proviene dalla chiesetta. Su questa invenzione timbrica, che comunica l’idea della trasfigurazione della protagonista, cala il sipario sull’atto centrale del Trittico. Puccini interpreta l’evento come un’abbagliante visione della morente, senza alcun fine edificante, ed è un suggello perfetto per un’opera intensamente poetica, che non manca mai di commuoverci.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

Gianni Schicchi

Opera in un atto di Giovacchino Forzano

 

Per la stesura del libretto della terza parte del Trittico dapprima Puccini si rivolse allo scrittore francese Tristan Bernard, autore di numerosi lavori teatrali di successo e noto in Francia anche come romanziere, il quale gli suggerì come soggetto una sua favola. Tuttavia tale progetto andò in fumo, quando Giovacchino Forzano attirò l’attenzione del compositore sulla Divina Commedia e sulla bizzarra figura di Gianni Schicchi. Secondo alcuni, invece, il merito della fortunata scelta spetta a Puccini, che leggeva spesso Dante e aveva sempre con sé un’edizione tascabile del capolavoro. Il Maestro era contento di musicare un argomento vivace e divertente e per comunicare il suo stato d’animo indirizzò a Forzano una strofetta comica: «Dopo il Tabarro di tinta nera / sento la voglia di buffeggiare. / Lei non si picchi / se faccio prima quel Gianni Schicchi». Infatti la composizione dell’opera, avvenuta quasi tutta a Viareggio, iniziò nel luglio 1917 e si concluse il 20 aprile 1918, tranne la breve interruzione in settembre per la messa a punto di Suor Angelica. Quando i tre atti unici furono rappresentati al Metropolitan di New York, il 14 dicembre 1918, il successo pieno l’ebbe Gianni Schicchi, assai più applaudito di Tabarro e dell’ ‘anemica’ Suor Angelica: la qual cosa amareggiò profondamente il maestro, il quale amava la sua opera ‘claustrale’ e contava molto sulla ‘novità’ del Tabarro. L’11 gennaio seguente il Trittico venne dato al Teatro Costanzi di Roma, diretto da Gino Marinuzzi. Per la rappresentazione al Covent Garden di Londra, Puccini non volle la direzione di Toscanini e pretese Gaetano Bavagnoli. A questo proposito scrisse all’amica Sybil, nel marzo 1919, sfogando la sua amarezza: «Io ho protestato colla Casa Ricordi perché non voglio il pig di Toscanini; lui ha detto tanto male delle mie opere e ha cercato di suggestionare anche alcuni giornalisti, perché ne dicessero male». Tuttavia, nonostante la critica talora poco favorevole, i tre atti unici continuarono a essere rappresentati, riscuotendo sempre un grande successo di pubblico; è opportuno ricordare, tra le numerose esecuzioni, quelle al Teatro Colòn di Buenos Aires (10 luglio 1919, diretta da Tullio Serafin), al Regio di Torino (25 gennaio 1920, diretta da Ettore Panizza) e alla Scala di Milano (29 gennaio 1922, con il medesimo direttore).


Trattare un tema furfantesco, una situazione da commedia dell’arte, ma di taglio moderno, era senza dubbio una prova singolare e fuori del comune per un temperamento non incline all’umorismo, nonostante la brillantezza di molte pagine di Bohème e della Rondine. Pertanto la comicità dispiegata nello Schicchi sorprende più di quella del Falstaff, poiché Verdi aveva già dimostrato di possedere una genuina tendenza a trattare l’elemento comico (Forza del destino, Un ballo in maschera). I principali punti di contatto fra queste due opere derivano dalla comune origine del genere buffo operistico italiano: la voce baritonale per il protagonista, la relazione sentimentale tra soprano e tenore ostacolata dalle famiglie, fino alla beffa che dà origine allo scioglimento. Tuttavia, mentre Verdi riflette anche nella leggerezza profondi principi morali, Puccini pone l’accento sulla dissennata avidità priva di scrupoli dei parenti di Buoso, valendosi anche di elementi grotteschi e talora macabri, come la presenza costante del cadavere – prima messo in bellavista e poi deposto nella stanza attigua – o l’assoluta spudoratezza di Gianni che, per attuare la sua beffa, si adagia nello stesso letto del defunto senza neppure il cambio delle lenzuola, né esita a ricattare i parenti di costui con il taglio della mano, pena decretata per i falsari.

La fonte primaria del soggetto dell’opera è dunque in un breve episodio contenuto nel trentesimo canto dell’Inferno, dove il protagonista viene condannato in quanto «falsatore di persone». A sua volta anche Dante si era ispirato a un fatto realmente accaduto: lo Schicchi, appartenente alla famiglia Cavalcanti, sostituendosi al cadavere di Buoso Donati, dettò un falso testamento in favore del figlio di costui, Simone, diseredato dal padre, lasciando per sé una cavalla di pregio. Tuttavia Forzano poté sicuramente disporre per la composizione del suo libretto anche di un testo ben più esteso e articolato rispetto ai pochi versi danteschi: il Commento alla Divina Commedia d’Anonimo fiorentino del secolo XIV, stampato a cura di Pietro Fanfani nel 1866, che riporta molti particolari (la beneficenza di Buoso per guadagnarsi un posto in paradiso, l’occultamento del cadavere, il timore di essere scoperto che frena la ribellione di Simone, ‘la cappellina’, ‘l’opera di Santa Reparata’, ‘la migliore mula di Toscana’, ecc.) ampiamente ed efficacemente sfruttati dal nostro librettista. Inoltre il tema dell’avidità degli eredi, ricorrente in molte farse e commedie di ogni tempo e luogo, richiama alla memoria il Volpone (1605) di Ben Jonson, drammaturgo del teatro elisabettiano, con il quale la trama del Gianni Schicchi presenta evidenti analogie.

Anche in questa opera, come nelle precedenti del Trittico, Puccini caratterizza con grande precisione l’atmosfera e l’ambiente, ritraendo un’immagine splendida della Firenze medioevale. La città rivive grazie a precisi riferimenti storici (Giotto, i Medici, i ghibellini) e topografici – individuando l’esatto contesto geografico in relazione al Valdarno, dove sono i possedimenti ambiti dai Donati, oppure citando il fiume che l’attraversa – e linguistici, con espressioni peculiari, veri e propri toscanismi, che stimolarono non poco la creatività del lucchese Puccini, specie negli ensembles concertati. Nella prima parte i Donati sono al centro dell’azione, e sia il libretto sia la partitura li identificano con grande precisione, definendo l’età di ciascuno e i rapporti di parentela, importanti quando si deve stabilire a chi spettino i diritti di un’eredità. Avidi e cinici, sono disposti a tutto pur di raggiungere il loro scopo, esprimono un cordoglio manierato e falso, sono nobili decaduti, opportunisti, pronti a dare solo se ricevono: Simone accende le candele non appena il suo nome compare nel testamento, ma le spegne prontamente quando si rende conto che non riceverà nulla. Anche per l’ultima parte del Trittico, Puccini osservò le due unità di luogo e di tempo: l’azione si svolge nella camera da letto di Buoso Donati, inizia alle nove del mattino e termina circa a mezzogiorno.


 

LA TRAMA

Nella sua casa di Firenze (anno 1299) è spirato Buoso Donati e i parenti lo vegliano in preghiera. Ma poiché corre voce che Buoso abbia lasciato i suoi beni ai frati, la veglia viene interrotta per aprire il testamento, che conferma la fondatezza delle dicerie. Rinuccio, fidanzato di Lauretta, figlia di Gianni Schicchi, propone alla famiglia di ricorrere ai consigli del futuro suocero, che ritiene uomo astuto e accorto (recitativo-arioso di Rinuccio “Avete torto! È fine! ... astuto...”). Zita, detta la Vecchia, protesta all’arrivo di Schicchi, a causa delle sue origini plebee e costui, offeso, se ne andrebbe, senza le implorazioni di Lauretta (“O mio babbino caro”). Subito Gianni elabora un piano che diventa a tutti chiaro quando, contraffacendo la voce di Buoso, risponde al dottor Spinelloccio, venuto a informarsi della salute del paziente. Pertanto manda a chiamare il notaio (arietta di Gianni “Si corre dal notaio”) e, messosi a letto travestito da Buoso, detta il nuovo testamento, destinando i beni più ambiti per sé: la casa di Firenze, la mula, i mulini di Signa. Né i parenti possono protestare senza svelare la truffa e quindi incorrere nella giusta punizione (stornello di Gianni “Addio, Firenze, addio, cielo divino”). Dopo aver scacciato tutti dalla casa che è ormai divenuta sua proprietà, mentre Rinuccio e Lauretta amoreggiano sul balcone (“Lauretta mia, staremo sempre qui”), egli si rivolge al pubblico, spiegando di aver tanto osato per il bene dei due fidanzati e reclama l’attenuante.

 

CONSIDERAZIONI SULL’OPERA

Puccini, nella lettera indirizzata ad Eisner il 14 dicembre 1913, disse di voler comporre un’opera più divertente e organica del Rosenkavalier di Richard Strauss, realizzando una notevole concentrazione del materiale musicale grazie alla continua presenza in scena dei parenti di Buoso, nove solisti nei diversi registri vocali, trattati dal compositore come un coro da camera. La scrittura tematica, atta a veicolare i significati semantici con chiarezza, e il ritmo sono gli elementi unificatori della partitura. «Le linee melodiche, quasi sempre di struttura metrica binaria, si accompagnano a ostinati ribattuti spesso inaspriti da episodi politonali e dallo scontro di taglienti dissonanze di sapore bartokiano» (Michele dall’Ongaro). Le possibilità timbriche delle voci e dell’orchestra sono ampiamente sfruttate per esprimere le più svariate sfumature, dal tratto ironico all’esasperazione grottesca: sono soprattutto i legni, specialmente gli strumenti ad ancia, a mettere in rilievo i numerosi scorci caricaturali dell’opera.

Già nel piccolo preludio possiamo ascoltare due temi che saranno fortemente presenti anche in seguito. Il primo, denominato ‘del lutto’, è costituito da un movimento ostinato di crome al quale subito dopo si sovrappone il secondo, dal carattere svettante, ritmicamente puntato, rivolto nella prima parte essenzialmente a mettere in ridicolo l’interesse dei Donati per l’eredità. Entrambi i temi sono estremamente duttili, e assumono aspetti diversi in base ai cambiamenti metrici e agogici. Il tema ostinato passa dal veloce Allegro del preludio al tempo di Largo su cui si alza il sipario, caratterizzando il lamento ipocrita dei parenti di fronte al corpo esanime del loro congiunto. Un Allegro vivo sottolinea ed accompagna l’affannosa ricerca del testamento in ogni angolo della stanza. Poi ritorna nell’assolo di Gianni “Si corre dal notaio”, quando viene descritta la scena che si presenterà agli occhi del notaio, condensandosi nei due melismi delle parole «semioscura» e «letto»; sempre su questo melisma si modella l’importante melodia dell’avvertimento sulla pena riservata ai falsari, “Addio, Firenze”. Il secondo motivo, come detto, utilizzato per ridicolizzare l’interesse all’eredità, passa in seguito a indicare Gianni Schicchi, nominato per la prima volta da Rinuccio. Quindi punteggia tutta la prima parte dell’assolo del tenore “Avete torto”, e torna nel momento in cui il protagonista bussa alla porta, sovrapponendosi alla melodia dei bassi; infine viene intonato dalle tre donne di famiglia dopo la scena della vestizione (Nella, la Ciesca, Zita “Spogliati bambolino”).

Quando Rinuccio nel suo recitativo arioso “Avete torto”, tesse le lodi del personaggio principale, compare, alternato al tema del nome, un altro motivo importante a lui strettamente legato, quello ‘della beffa’: alle parole «Motteggiatore! beffeggiatore!», la voce è accompagnata da una piccola fanfara di triadi ribattute. Questa cellula sarà ripresa più volte nell’opera per ricordare la vera natura dello Schicchi in relazione alla falsa identità di Buoso. Un altro tema ricorrente, costituito ancora da un frammento di ostinato inserito entro una cadenza, è quello definibile ‘del testamento’, in quanto si presenta per la prima volta mentre i Donati aprono il suddetto documento, viene ripreso là dove Spinelloccio vanta a sproposito i meriti della scuola bolognese, poi nell’assolo di Schicchi riferito al notaio e infine, molto chiaramente, quando quest’ultimo farà il suo ingresso in scena. Medicina e legge vengono ambedue ridicolizzate dai tratti scolastici di questa cadenza perfetta. Anche l’amore tra Rinuccio e Lauretta ha un motivo specifico più volte ripreso: una melodia piena di slancio, citata inizialmente dall’orchestra dopo che il ragazzo è riuscito a trovare la pergamena del testamento e, forte della sua scoperta, approfitta per chiedere subito la mano dell’amata fanciulla. Uno dei punti più interessanti del Gianni Schicchi è il concertato (Simone “Dunque era vero”) che segue l’apertura del testamento: una pagina dove si scatena la rabbia di tutti che protestano contro le ultime volontà dello scomparso e dove la musica, utilizzando una variante del tema ‘del lutto’, diventa più netta e squadrata, lasciando spazio ad aggressivi ostinati, tinti da acidissime dissonanze, alla maniera di un Bartók o di uno Stravinskij. Rinuccio, dopo aver replicato alla protesta dei parenti contrari all’unione fra un Donati e «la figlia di un villano! / D’uno sceso a Firenze dal contado!», canta, «ad uso di stornello toscano», come indica la partitura, la prima vera e propria romanza dell’opera: “Firenze è come un albero fiorito”. Fra la prima e la seconda strofa è inserita la melodia della successiva aria di Lauretta “Oh mio babbino caro”, poi viene descritto lo scorrere dell’Arno con figure ostinate di semicrome e infine nell’ultima parte, condotta a mo’ di marcia, sono citati due grandi toscani venuti dalla provincia, Arnolfo di Cambio e Giotto.


Puccini, per la celebre aria di Lauretta “Oh mio babbino caro”, brano di intensa effusione lirico-sentimentale, con cui la ragazza supplica il padre di aiutarla a coronare il suo sogno d’amore, riprende la melodia per la prima volta esposta nello stornello di Rinuccio, probabilmente per associare alla ‘gente nuova’, esaltata dal fidanzato, il senso dell’affetto familiare di cui i Donati sono totalmente sprovvisti. Il personaggio che più di ogni altro affascina e convoglia l’ammirazione e le simpatie del pubblico, perfettamente descritto sia dal punto di vista narrativo che musicale, è sicuramente Gianni Schicchi: uomo scaltro e astuto, dalla forte personalità, vero rappresentante di una classe borghese solida anche al tempo in cui la vicenda è ambientata. Fin dal suo ingresso in scena si dimostra impavido, senza scrupoli e, completamente padrone della situazione, aggredisce con vigore la Zita che lo scaccia, apostrofandola «Vecchia taccagna! Stillina! Sordida! Spilorcia! Gretta!»; dopodiché attacca un travolgente quartetto in cui la sua voce si contrappone a quella della vecchia e all’ansia dei due amanti, che parlano della collina di Fiesole dove si sono giurati eterno amore. Dopo l’assolo “Si corre dal notaio” il protagonista canta una canzone dall’andamento grottesco “In testa la cappellina!”, in cui l’orchestra accompagna la voce in una melodia cromatica, quasi da cabaret, con accordi pizzicati dagli archi. Lo stesso cromatismo lo troviamo nel brevissimo concertato seguente, caratterizzato da un fitto intreccio polifonico. L’“Addio, Firenze”, stornello prima intonato da Gianni e poi dagli altri, dalla modalità ‘medievaleggiante’, in cui la nota dominante esercita una forza d’attrazione tale da convergere tutte le ondulate figure di cui è composto il tema, funge da necessaria premessa al gran finale e rappresenta il macabro avvertimento ai parenti prima che arrivi il notaio. Lo Schicchi detta il testamento e lascia per sé i beni più preziosi del defunto Buoso, unica possibilità che permetta l’unione di Rinuccio con Lauretta, ostacolata dalla classe nobile, corrotta e decaduta.

Per frenare le proteste dei Donati, il baritono alterna la dettatura al canto minaccioso di “Addio Firenze”, intessuto d’armonie sempre più dissonanti. Infine l’amore tra i due giovani, espresso nel duetto conclusivo “Lauretta mia, staremo sempre qui!”, basato sul tema simbolo del loro sentimento, si contrappone alla confusione della scena precedente, in cui i furiosi parenti saccheggiano la casa cacciati dal nuovo proprietario e riscatta tutte le debolezze umane, compresa quella di Gianni che torna in scena carico degli oggetti strappati ai Donati. Come in ogni opera buffa che si rispetti, lo Schicchi avanza verso il proscenio e, accennando agli innamorati con la berretta in mano, declama la sua licenza sugli accordi tenuti dell’orchestra.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

LA MIA PROPOSTA

Per quanto riguarda Il tabarro molte (per la verità non moltissime) sono le edizioni e, come succede per le tre opere del Trittico, non sempre coincidono con una esecuzione integrale di tutte.

Sicuramente interessante è l’edizione del 1977 con la direzione di Lorin Maazel e una serie di voci abbastanza buone (Ingvar Wixell, Placido Domingo e Renata Scotto), così come sono da ascoltare sia l’edizione del 1991 diretta da Bruno Bartoletti (Con Juan Ponso, Giuseppe Giacomini e Mirella Freni) che quella del 1998 diretta da Antonio Pappano (con Carlo Guelfi, Neil Shicoff e Maria Guleghina).


Edizione a mio avviso di riferimento per quest’opera è però quella del 1956 diretta elegantemente da Vincenzo Bellezza e con un cast superlativo che annovera innanzitutto lo straordinario Michele di Tito Gobbi, l’ottimo Luigi di Giacinto Prandelli e una buonissima Margaret Mas come Giorgetta. I comprimari sono di un livello altissimo e di questi voglio ricordare Piero De Palma (Il Tinca) e Plinio Clabassi (Il Talpa).


Ecco qui il link per ascoltare l’opera:



Per quanto riguarda Suor Angelica ci sono alcune edizioni molto interessanti: quella diretta da Tullio Serafin nel 1957 con  Victoria de los Ángeles e Fedora Barbieri; quella diretta da Lorin Maazel nel 1976 con Renata Scotto e Marilyn Horne; infine quella diretta da Bruno Bartoletti nel 1991 con Mirella Freni e Elena Souliotis (quest’ultima però fuori ruolo).


Insieme a queste però consiglio l’edizione diretta da Bruno Bartoletti (uno dei più grandi direttori pucciniani di sempre) nel 1973 a Santa Cecilia con una straordinaria, a mio parere, Katia Ricciarelli e un’ottima Fiorenza Cossotto come Zia Principessa.

 

Qui il link per ascoltare l’opera cantata dalla Ricciarelli:




Parlando di Gianni Schicchi non si possono non ascoltare tre belle edizioni, almeno a mio parere: quella diretta da Francesco Molinari-Pradelli con protagonista Renato Capecchi e quella diretta da Lorin Maazel con Tito Gobbi. 


Ma a farla da padrona è per me l’edizione del 1958 con la buona direzione di Gabriele Santini e la straordinaria performance di Tito Gobbi, contornato da ottimi cantanti tra cui l’ammaliante Lauretta di Victoria de los Ángeles.

 

Qui di seguito il link per ascoltare questa edizione:



Negli ultimi anni spesso il Trittico è stato eseguito in maniera completa e vorrei ricordare, a proposito, la buona edizione scaligera del 2008 con la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Luca Ronconi. Assieme a questa mi preme ricordare la buonissima edizione andata in scena nei teatri emiliani con la direzione orchestrale di Julian Reinolds e la regia di Cristina Pezzoli.

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