ALMANACCO OPERISTICO - 16 DICEMBRE - DEBORA E JAELE di Ildebrando Pizzetti
DEBORA E JAELE
Dramma in tre
atti proprio, dal Libro dei Giudici
Musica di Ildebrando
Pizzetti
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 16 dicembre 1922
«La prima opera veramente tutta mia»: con queste parole Pizzetti
annunciava la nascita di Debora e Jaele, quasi a voler ratificare un
allontanamento da D’Annunzio, il ‘poeta incantatore’ con cui si era aperta la
sua carriera teatrale. Il compositore questa volta aveva provveduto in prima
persona alla stesura del libretto e non aveva cercato il consenso
dell’Immaginifico ma di un altro poeta, Annibale Beggi, l’amico col quale aveva
già collaborato per l’idea giovanile di Sabina. Tuttavia,
l’atteggiamento dannunziano – comunemente riconosciuto al dramma musicale di
Pizzetti (specialmente nella produzione di quel periodo), indipendentemente dal
fatto che libretto o soggetto appartengano al poeta o siano propri – è
rintracciabile anche in quest’opera, opportunamente filtrato: l’esaltazione di
un individuo spiritualmente superiore, il messaggio morale che investe l’eletto
e la crudeltà delle prove cui si deve sottoporre, l’allusione a un mondo
d’ideale elevatezza. «La genesi di Debora! Prima il bisogno e il
desiderio di creare dei personaggi che io potessi amare, nobili, puri, mossi da
sentimenti e da passioni degne, e poi il desiderio (...) di esprimere con la
mia voce quel meraviglioso mondo biblico, in cui, pare a me, possiamo
ritrovarci tutti, gente di tutto il mondo, con le nostre passioni, le nostre
aspirazioni, i nostri vizi (...) e la nostra speranza». Un mondo biblico in cui
la missione dell’eletto non è eversiva, come in D’Annunzio, ma volta a
preservare l’integrità della comunità. È la mistica dell’amore che si
sostituisce a quella della potenza: una religiosità vissuta come
«partecipazione con animo puro alla vita». Debora, come lo Straniero, Fra
Gherardo e Orsèolo, diventa la voce di un’umanità che ricerca l’affermazione
dell’amore. Il dannunzianesimo è dunque un mezzo che trasfigura l’umanità in
‘sovrumana umanità’, che ricerca una religione nelle vicende della vita e che
sigla i valori dello spirito nell’eroe: colui che assomma in sé tutte le
esperienze umane, le nostre esperienze. All’elaborazione del libretto Pizzetti
attese dal 1917 al ‘21; la composizione, iniziata il 18 luglio 1918, terminò il
21 giugno del ‘21. Secondo Mario Castelnuovo-Tedesco, la genesi di Debora
sarebbe da porre in relazione anche alla lettura della Judith di Hebbel,
testo che egli stesso aveva fatto conoscere a Pizzetti; vi sarebbero in effetti
analogie tra «le scene di una grandiosità davvero biblica del popolo di Betulia
affamata» e il primo atto di Debora, in grado di evidenziare precisi
suggerimenti tratti dal lavoro del drammaturgo tedesco (Judith risale al
1839). L’adattamento della nota vicenda dell’Antico Testamento preserva in un
certo senso solo la cornice esterna della storia originale: la motivazione
risulta completamente rivissuta, tanto che l’identificazione del bene e del male
pare quasi rovesciata. I conflitti rappresentati nel dramma traggono spunto da
un episodio della guerra tra Ebrei e Cananei, al tempo detto appunto ‘dei
Giudici’. All’interno di questa cornice v’è spazio per uno scontro più
articolato e individualizzato, tra l’affermazione di una legge severa e arcaica
(personificata dalla profetessa Debora, voce dello spirito dell’Antico
Testamento) e il superamento di questa stessa legge in un’altra più umana, che
anticipa la pietas cristiana. Quando, verso la fine del dramma, Debora
chiede a Jaele, che ha ucciso Sisera, nemico ma anche amore di un tempo, «Hai
udito la voce del Signore?», la risposta di quest’ultima, dolorosa, è «Non del
tuo Dio... d’un altro, che non conosci!».
LA TRAMA
Atto primo. In Palestina, nel XII secolo a. C. In una piazza di
Kedeh, davanti alla casa di Baràk, capo dell’esercito ebraico, il popolo
attende di ascoltare la profetessa Debora. Si invoca la guerra contro Sisera,
re dei Cananei, ma quest’ultimo è chiuso fra le mura inespugnabili della città
di Haroscet. Debora, conoscendo il sentimento che Sisera nutre nei confronti di
Jaele, decide di assegnare a quest’ultima, accompagnata da Mara, il compito di
attirare il re fuori dalla città, sul monte Tabor, affinché gli Ebrei possano
facilmente sconfiggerlo.
Atto secondo. Nel palazzo di Haroscet, Sisera fa imprigionare
Hèver, venuto a tradire gli israeliti; malgrado Jaele si presenti poco dopo
come donna velata, non può portare a termine la sua missione: un ministro di
Sisera è venuto a conoscenza della presenza degli israeliti sul monte Tabor.
Vistasi scoperta, la donna si getta sul re per ucciderlo, ma all’improvviso si
rende conto di esserne innamorata: il perdono offerto da Sisera la conquista,
vorrebbe rimanere; sarà il canto di Mara, che piange il figlio ucciso dai
Cananei, a ricondurre Jaele alla realtà. Turbata, chiede al re di lasciarla
partire e Sisera acconsente, promettendo di raggiungerla dopo la vittoria sugli
Ebrei.
Atto terzo. Sconfitto inaspettatamente dall’esercito ebraico,
Sisera si rifugia nella tenda di Jaele, nel querceto di Saananim. Il fatto è
riferito a Debora da Mara: la profetessa giunge sul luogo e intima la consegna
del sovrano. Jaele reagisce dapprima offrendo la propria vita in cambio di
quella del re; poi, quando una folla minacciosa di Ebrei si avvicina alla
tenda, uccide l’amato nel sonno, per risparmiargli lo scempio che ne avrebbe
fatto il popolo.
CONSIDERAZIONI SULL’OPERA
A differenza di Fedra, Debora lascia intravvedere
l’esistenza di un mondo ideale, in cui v’è spazio per la pace e il perdono; e
la nuova inclinazione del piano ideologico si riflette nell’assetto
drammaturgico. Nell’opera la tradizione modale si qualifica come colore dello
spirito, si integra di significato religioso, diviene referente di un passato
liturgico; e parola e musica si fondono in un declamato in grado di
amministrare l’economia espressiva dell’intero dramma, elemento regolatore
dello stesso tessuto sinfonico-tematico, del linguaggio armonico, della
dinamica, del timbro. Come è stato rilevato, «non v’è personaggio... che non sia
fortemente caratterizzato dal musicista, che non sia individuato dal suo
linguaggio, sintassi e accento... Soltanto la profetessa ci mostra sempre lo
stesso viso, ci rivela la stessa certezza; gli altri, Jaele, Sisera e il
popolo, mutano di scena in scena e quest’ultimo più volte in breve volgere di
tempo» (Gatti). Proprio il coro assurge in Debora a vivide funzioni
drammatiche e dinamiche, da personaggio addirittura protagonista; non più
statico e lirico come in Fedra, incarna la mutevole psicologia della folla,
si fa carico di condurre l’azione (particolarmente nel primo atto) sia
interferendo con le voci dei protagonisti, sia differenziandosi al suo interno
in gruppi contrapposti, vincolati a passioni antitetiche, interagenti. L’idea
pizzettiana di dramma, che ricerca un continuo divenire dell’azione, non
impedisce la presenza di notevoli squarci lirici: i momenti vissuti da Jaele e
Sisera nel secondo e nel terzo atto, o la ninna-nanna di Mara nel primo, che
ritorna alla fine con valore evocativo, di stimolo alla missione omicida di
Jaele; sono picchi lirici che penetrano nel vivo dell’anima dei vari
personaggi, esprimendone le passioni con vivida intensità, con realistica forza
vitale. Salutata al tempo della ‘prima’ come l’opera del «più grande musicista italiano
d’oggi» (Gatti 1921), Debora e Jaele fu presto ritenuta, a dispetto
delle voci dissenzienti, non solo il capolavoro del suo autore, ma addirittura
una delle vette dell’opera italiana del XX secolo; Debora e Jaele fruttò
tra l’altro il conferimento a Pizzetti – nel 1931 – del premio Mussolini
(assegnato da una commissione formata da Accademici d’Italia), per
«l’elevatezza degli intendimenti artistici, la singolarità del principio
estetico informatore, la nobiltà dell’ispirazione e dello stile, la sapienza
tecnica». Nel 1956 era ancora ritenuta degna di occupare un prestigioso terzo
posto (insieme alla straussiana Salome) nella rosa delle venti opere più
importanti del secolo; pure, dopo la scomparsa del compositore, è uscita
completamente dal repertorio, come del resto gli altri suoi lavori. Neppure le
celebrazioni del centenario pizzettiano (1980) hanno finora stimolato una fase
di riavvicinamento al musicista di Parma, in vista di una riproposta della sua
migliore produzione.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Pochissime sono le edizioni di questa che, se da molti viene considerato
il capolavoro di Pizzetti, è fuori repertorio praticamente da quando il suo
autore è scomparso.
Assieme ad una edizione del 1963 alla Scala, con la direzione di Antonino
Votto con Fedora Barbieri, Clara Petrella e Bruno Prevedi nei tre ruoli
principali io vi segnalo la prima registrazione di quest’opera, avvenuta nel
1952 alla RAI di Milano, con la direzione di un giovane Gianandrea Gavazzeni e con
protagonisti Cloe Elmo (Debora), Clara Petrella (Jaele) e Gino Penno (Sisera).
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