ALMANACCO OPERISTICO - 15 DICEMBRE - LA VESTALE di Gaspare Spontini
LA VESTALE
Tragédie lyrique
in tre atti di Victor-Joseph-Étienne de Jouy
Musica di Gaspare
Spontini
Prima
rappresentazione: Parigi, Opéra, 15 dicembre 1807
La protezione dell’imperatrice Joséphine permise a Spontini di approdare
all’Opéra, non senza fare una lunga anticamera, con quella che il compositore
stesso avrebbe salutato come «la grande révolution deLa vestale», un capolavoro
in grado di proiettare verso il successo su scala europea i suoi autori e di
stabilire Spontini come l’indiscusso interprete ufficiale della grandeur
imperiale. La partitura era già pronta dall’estate del 1805, ma l’opposizione
della commissione responsabile del cartellone dell’Opéra e la concorrenza dei
colleghi francesi ne posticiparono di oltre due anni la rappresentazione.
Quando quest’ultima ebbe poi luogo, il successo fu clamoroso, seguito da più di
duecento repliche ed economicamente redditizio sia per il teatro sia per Spontini,
che si vide attribuito anche il premio per l’opera più significativa del
decennio. Il soggetto scelto godeva di buona fortuna sia nelle arti figurative
(Canova scolpì tre busti di vestale), sia nel balletto che nell’opera. In campo
operistico, ricordiamo Il fuoco eterno custodito dalle vestali (Minato-Antonio
Draghi, Vienna 1674), L’innocenza giustificata (Metastasio/Durazzo-Gluck,
Vienna 1755, rivista e rappresentata nel 1768 come La vestale), La
vestale (Badini-Mattia Vento, Londra 1776), La vergine del sole (Moretti-Cimarosa,
Pietroburgo 1789), Vestas Feuer (Schikaneder-Beethoven, 1803, frammenti
della prima scena costituita da due duetti, un recitativo e un terzetto; prima
esecuzione: Westdeutscher Rundfunk, Colonia 1954), Vestas Feuer (Schikaneder-Joseph
Weigl, Vienna 1805), La vestale (Cammarano-Mercadante, Napoli 1840). È
molto probabile che Jouy, la cui collaborazione con il compositore era iniziata
con la felice esperienza di Milton (1804), si sia avvalso direttamente,
per la stesura del libretto, dell’allora celebre tragedia Éricie ou la
Vestale di Jean-Gaspard Dubois Fontanelle (scritta nel 1768, ma
rappresentata solo nel 1787).
Il successo nella capitale francese (cento repliche già nel 1816,
duecento nel 1830) si estese entro il secondo decennio del secolo alle
principali nazioni d’Europa, mentre nel 1823 l’opera veniva rappresentata in
svedese a Stoccolma. La sua fortuna italiana risale alla traduzione a opera di
Giovanni Schmidt per un memorabile allestimento del Teatro San Carlo di Napoli
del 1811 (che incise sul clima culturale partenopeo, sul giovane Manfroce come
sull’imminente produzione seria di Rossini), con Isabella Colbran (Julia),
Andrea Nozzari (Licinius) e Domenico Donzelli (Cinna). La vestale approdò
al Teatro alla Scala nel 1823, mentre Wagner l’allestì a Dresda nel ‘44 (in
quell’occasione incontrò Spontini). La ripresa novecentesca dell’opera (che
rappresentò la prima regia operistica di Luchino Visconti, con Maria Callas e
la direzione di Antonino Votto: Teatro alla Scala, 1954) è stata resa laboriosa
dalle condizioni dell’autografo, tra l’altro mutilo di alcuni fogli, su cui
Spontini ebbe a intervenire con tagli, nuove redazioni e adattamenti. Una
risposta a molti problemi, tra cui quelli concernenti i principali ruoli vocali
maschili – ambiguamente oscillanti tra il tenore e il baritono – e la sequenza
dei pezzi, è fornita dalla nuova edizione critica, a cura di Federico
Agostinelli e Gabriele Gravagna, utilizzata per l’inaugurazione della stagione
1993-94 del Teatro alla Scala, con la direzione di Riccardo Muti.
LA TRAMA
Atto primo. Il generale Licinius è tornato nel Foro romano, dove
si sta preparando il trionfo per le sue campagne vittoriose. Tuttavia Licinius
è infelice: innamorato corrisposto di Julia, ha scoperto che la ragazza è
destinata a diventare una vestale (“La nuit achève sa carrière”). Raggiunto
dall’amico Cinna, spiega a quest’ultimo la situazione e ne riceve una calda
testimonianza di amicizia virile (“Dans le sein d’un ami fidèle”). Scambiatisi
una promessa di mutuo aiuto, i due si preparano a sfidare il destino (“Quand
l’amitié seconde mon courage”). Intanto il coro delle vestali, prima di
dirigersi al tempio della dea, intona un inno sacro (“Fille du ciel, éternelle
Vesta”, ‘inno del mattino’). Julia è turbata all’ascolto del canto, che
promette un destino terribile a chi infranga i voti. La gran vestale, allora,
la prende in disparte e le comunica che toccherà proprio a lei l’onore di
incoronare il vincitore, mettendola in guardia dalle insidie nefande
dell’amore, «monstre barbare» seduto su un trono di sangue (“L’amour est un
monstre barbare”). Sconvolta, Julia assapora il momento in cui incontrerà
Licinius (“Licinius, je vais donc te revoir”), mentre le compagne la richiamano
al tempio. Giunge intanto il corteo del vincitore, attorniato da due ali di
folla e dalle somme autorità romane, mentre Cinna guida le truppe e Julia
custodisce il sacro fuoco di Vesta (“De lauriers couvrons les chemins”). Tra
canti festivi avviene l’incoronazione di Licinius, che sussurra a Julia, mentre
questa gli pone la corona sul capo, un appuntamento segreto per quella stessa
notte nel tempio, quando verrà per rapirla. Tra i sospetti degli altri
personaggi e l’oscurarsi della fiamma sull’altare (“Son ésprit tourmenté”),
l’atto si conclude tra giochi, danze e cori di festa.
Atto secondo. Nel tempio di Vesta le sacerdotesse recitano la
preghiera serale (“Feu créateur, âme du monde”, ‘inno alla sera’), prima di
affidare la custodia del fuoco sacro a Julia, cui la gran vestale consegna, con
parole severe, il bastone d’oro per attizzare la fiamma. Julia si raccoglie in
preghiera, rivelando alla dea la sua angoscia (“Toi que j’emplore avec
effroi”). Turbata, in una sorta di delirio, corre a spalancare le porte del
tempio per accogliere l’amato (“Impitoyables dieux!”). Giunge Licinius, che le
offre di liberarla dalla ‘schiavitù’ e si dichiara fiducioso nella compassione
degli dèi (“Les dieux prendront pitié du sort qui nous accable”). Entusiasti, i
due si giurano eterna fedeltà (“Quel trouble... Quels transports... Je suis
auprès de toi”). Improvvisamente, però, il sacro fuoco si spegne, lasciando la
scena nell’oscurità. Nel tempio compare Cinna, che riferisce dell’imminente
irrompere del popolo sdegnato per il sacrilegio e trascina con sé Licinius,
mentre questi cerca invano di convincere Julia a seguirlo (“Ah! Si je te suis
chère”). La ragazza sviene ed è raggiunta da vestali e sacerdoti disperati per
la collera della dea (“Les dieux demandent vengeance”). Di fronte alle accuse
del sommo sacerdote, Julia si dichiara pronta a morire e confessa di essere
innamorata. Condannata alla pena capitale, la ragazza prega per la salvezza di
Licinius (finale “Sa bouche a prononcé l’arrêt”; Julia: “O des infortunés
déesse tutélaire!”). Si rifiuta tuttavia di rivelare il nome dell’amato e,
spogliata degli ornamenti del culto, viene condotta al suo supplizio: sarà
sepolta viva nella tomba (“De son front que la honte accable”).
Atto terzo. Nel ‘campo scellerato’, dove si compirà l’esecuzione,
tra i macabri resti delle vestali punite prima di Julia. Licinius giura di
salvare l’amata dalla condanna (“Julia va mourir!... Non, non, je vis encore”).
Cinna, che frattanto ha riunito un manipolo di fedelissimi sul Quirinale,
conforta l’amico e lo invita a piegare la volontà del sommo sacerdote (“Ce
n’est plus le temps d’écouter”). Invano, tuttavia: lo scontro con quest’ultimo
termina con la conferma della condanna (“C’est à toi de trembler”). Neanche
l’intervento del capo degli aruspici vale a differire il sacrificio. Giunge
allora il corteo dell’esecuzione: Giulia compare tra parenti e fanciulle,
compianta da queste e dalle vestali, ma oltraggiata dal popolo (“Périsse la
vestale impie”). La gran vestale si congeda commossa da lei (duetto “Adieu, mes
tendres soeurs. O vous que je révère”). Quindi la moritura rivolge all’amato
innominabile il suo «dernier soupir» (“Toi que je laisse sur la terre”). Si
prepara intanto il rito funebre officiato dal sommo sacerdote, mentre le
vestali sospendono il velo di Julia sull’altare spento, attendendo che la dea
l’incenerisca con un fulmine, se vorrà perdonare la colpevole (“Vesta, nous
t’implorons pour la vierge coupable”). Irrompono allora, discesi dal Quirinale,
i soldati con Cinna e Licinius: quest’ultimo confessa la sua colpa e si offre
al castigo divino. Julia però lo smentisce recisamente ed entra nel
sotterraneo, che viene subito sbarrato dai littori. Le truppe di Licinius e i
partigiani del sommo sacerdote sono pronti a scontrarsi quando «il cielo si
oscura all’improvviso, il tuono mugghia con fragore; la scena resta illuminata
soltanto dal bagliore dei lampi» (finale “O terreur! ô disgrace!”). Un fulmine
incenerisce il velo di Julia e accende il fuoco sacro. Mentre il popolo è preso
dal panico, Licinius e Cinna scendono nella tomba e portano in salvo Julia
svenuta. Riconosciuto l’intervento della dea, il sommo sacerdote si ritira con
le vestali. Julia è dunque libera dai suoi voti. Con un cambio di scena s’apre
allora il tempio di Venere Ericina, presso il circo di Flora: sacerdoti e
sacerdotesse vi accolgono i giuramenti di fedeltà dei due amanti (coro “Chants
d’alégresse”; Julia e Licinius: “Sur cet autel sacré, viens recevoir ma foi”).
CONSIDERAZIONI SULL’OPERA
Con La vestale Spontini riuscì nell’intento di inventare una
grandiosità drammatica in sintonia con il clima spirituale e le esigenze
dell’epoca napoleonico-imperiale. Non a caso venne scelto un soggetto di aulica
e sacrale nobiltà, risalente alla religio dell’antica Roma e collegato
da Jouy, nell’introduzione e nella dedica del libretto, a tutta la tradizione
della tragédie lyrique da Lully a Sacchini, nonché al neoclassicismo di
Winckelmann. Occorreva un’opera che fornisse il corrispondente musicale di quel
neoclassicismo così fulgidamente rappresentato nelle arti figurative dai Canova
e dagli Ingres. Al contempo doveva trattarsi di un dramma dal forte impatto
emotivo, costruito su affetti riconducibili a situazioni sentimentali di tipo
borghese (un divieto infranto per amore), del tutto spendibili e verosimili
nella società del primo Ottocento. Nuovamente si spiega allora la scelta del
soggetto, in cui la colpa di Julia (l’estinzione del fuoco sacro) comporta la
massima pena, diversamente da quanto avveniva nella realtà storica,
testimoniata ad esempio da Livio (Ab urbe condita, XXVIII, 11, 6-7), ben
meno feroce della fantasia scenica. Quindi un genere di spettacolo capace di
instaurare una comunicazione vitale ed efficace con il pubblico attraverso lo
spiegamento di emozioni violente, espresse con una semplicità tanto immediata
nell’effetto, quanto ricercata nell’elaborazione. Si trattava inoltre di
inventare una nuova, moderna formulazione della secolare grandeur cerimoniale
francese, una monumentalità non vacua, ma sostenuta da un progetto estetico dai
valori musicali inconfutabili (quello che Berlioz chiamerà lo «stile grande»),
veicolo plausibile di affetti intensi sino allo sgomento. Un modello
drammaturgico e musicale che influenzerà l’opera romantica tedesca e, soprattutto,
il grand-opéra francese. A tale fine il compositore, ormai residente a
Parigi da alcuni anni, deviò senza esitazioni sia dalla tradizione operistica
italiana, sia dal modello classico viennese, inaugurando un «sinfonismo
melodrammatico» (Carli Ballola) capace di grandi accensioni tragiche, nutrito
della familiarità con la musica strumentale francese, ma di ideazione
personale, basato sulla pervasiva elaborazione di minuscole cellule tematiche,
quasi ossessive nel loro ostinato riproporsi all’ascolto. Complice anche
l’esperienza di Médée di Cherubini (1797), che aveva scardinato
l’involucro efficace ma fragile dell’opéra-comique, travolgendolo con
un’ondata di alta tragedia, nella Vestale l’equilibrio classico vacilla
di fronte agli abissi delle passioni che si agitano nei cuori dei personaggi.
All’interno di un incandescente flusso sonoro, l’orchestra guadagna un peso
straordinario, conquistato sul campo nella strenua, continua ‘lotta’ con le
voci, suscitando l’ammirazione di Berlioz nel suo Traité d’instrumentation
(autore il cui teatro musicale non poco deve all’aulica drammaturgia di
Spontini: spesso menzionò il collega nelle Memorie e, per citare un solo
esempio, nel 1844 collocò l’inquietante ouverture della Vestale in testa
a un programma di concerto contenente solo «pezzi di stile grande»).
La palma dell’introspezione tra i recessi dell’animo spetta allo
splendido secondo atto, ambientato nel tempio, che allinea in un’unica,
grandiosa progressione drammatica la consegna del fuoco sacro, l’attesa di
Lucinius da parte di Julia (già in preda all’angoscia), il giuramento dei due
amanti, l’estinguersi del fuoco, la fuga di Licinius, lo svenimento di Julia,
l’irruzione di popolo e sacerdoti e la condanna a morte. Particolarmente
impressionante è la seconda scena (che vede Julia sola), introdotta
discretamente dall’evocativo e malinconico ‘Hymne du soir’ (vi si noti
l’apporto suggestivo degli ottoni) e articolata, secondo la tradizione francese
della tragédie lyrique, in un susseguirsi di arie e recitativi, i cui
contorni sono resi evanescenti da Spontini nel trascolorare di un pezzo
nell’altro. La tormentata preghiera che costituisce la prima aria, aperta da
una vasta pagina per corno solista (la locandina dell’Opéra ne segnalò in bella
vista l’interprete), lascia il posto a uno sconcertante recitativo segnato
Presto e Prestissimo, in cui la voce è sospinta dal mugghiare dell’orchestra.
Infine la seconda aria, “Impitoyables dieux!”, dà fondo alle qualità quasi
espressionistiche della scrittura del compositore, costringendo il soprano a
mantenersi ossessivamente in un registro acuto, finché il grave passo
dell’apertura delle porte del tempio non avviene tra romantiche dissonanze di
settima diminuita, dissolte in modo sinistro dal riappacificarsi
dell’orchestra, che seguirà attentamente l’evolversi del successivo recitativo
accompagnato di Julia con Licinius. Più tardi alla vestale spetterà un’altra
aria-preghiera, “O des infortunés déesse tutélaire!”: Spontini ha scelto per
questa invocazione una vocalità più dichiaratamente italiana, che suona come
un’oasi insperata e commovente all’interno dei clamori corali in cui è
incastonata. La scena, che si era aperta con un possente e originale scambio
‘stereofonico’ di maledizioni tra il coro di popolo fuori scena e quello di sacerdoti
e vestali sul palcoscenico, si sarebbe conclusa con quel monumentale finale
secondo in cui la voce terribile del sommo sacerdote scaglia le masse del coro
generale e dell’orchestra contro la povera Julia, ormai annientata. Altre
occasioni di grandiosità corale sono il finale primo, articolato in una serie
di ieratici cori dal profilo differenziato per popolo, guerrieri, vestali e
sacerdoti; la marcia funebre del terzo atto, che accompagna, lugubre,
l’ingresso di Julia condannata a morte; la concatenazione di cori che
commentano in successione, nel finale ultimo, il segno celeste del cielo
oscurato, il fulmine disceso sull’altare e l’esito gioioso, liberatorio della
vicenda, siglato dal timbro etereo dell’arpa. Da ultimo segnaliamo due luoghi
particolarmente memorabili della partitura. Preceduta da un recitativo di forte
tensione drammatica, l’ardua aria della gran vestale “L’amour est un monstre
barbare”, segnata da contrasti musicali laceranti, simboli evidenti di
un’irrequietezza interiore, testimonia la vocazione della matura drammaturgia
spontiniana a un virtuosismo senza compromessi, che costringe l’interprete a
districarsi nell’alternanza serrata di impietosi passi belcantistici e zone
dalla vocalità distesa ma non meno esigente. Un virtuosismo che non si propone
come esibizione compiaciuta di abilità tecniche, ma è strettamente funzionale
allo spessore tragico del personaggio, di cui rivela le pieghe più remote di
una psiche turbata. Nella scena che apre l’ultimo atto, Licinius, «seul et dans
le plus grand désordre», si dichiara pronto a strappare Julia dal suo destino
nel nome dell’amore e della disperazione, trascorrendo indistintamente dal
recitativo all’aria, ma non prima che una straordinaria pagina orchestrale
abbia stabilito il clima allucinato di questo atto estremo, piegando archi,
legni (soprattutto oboi e fagotti, inchiodati a una serie di trilli
inquietanti), tromboni e timpani a un disegno armonico dissonante di
straordinaria violenza ed energia espressiva.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Parlare de La Vestale vuol dire considerare, nella pochezza delle
edizioni, tre registrazioni imprescindibili.
La prima è stata registrata nel 1969 a Palermo e vede, assieme alla
discreta direzione di Fernando Previtali, la Giulia importantissima di Leyla
Gencer che canta assieme ad un buon cast.
Imprescindibile per conoscere quest’opera, nella sua interezza, è poi l’edizione
del 1993 con la quale Riccardo Muti inaugurò la stagione scaligera. Qui la
parte vocale non è particolarmente esaltante ma la direzione di Muti ci porta
una concertazione di primissimo piano… forse una delle sue più belle direzioni
di tutti gli anni da direttore musicale del Teatro alla Scala.
Pur rimaneggiata e in italiano l’edizione di riferimento non può che
essere quella milanese del 1954 con la bella direzione di Antonino Votto e la
Giulia, in tutto e per tutto, di Maria Callas. Per la cantante greca una
interpretazione a tutto tondo mai eguagliata da nessun altro. Da ricordare qui il
debutto di Franco Corelli (nel ruolo di Licinius) e l’interessante Gran Vestale
interpretata da Ebe Stignani.
Questi i link per ascoltare l’edizione scaligera con Maria Callas come
protagonista:
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