Le opere dimenticate... "ATAHUALPA" di C. E. Pasta
Il compositore Carlo Enrico Pasta, milanese di nascita e formatosi
oltre che in Italia anche a Parigi, è uno dei tanti artisti italiani
parzialmente o del tutto dimenticati dal grande pubblico di oggi. La sua importanza,
a mio avviso, è tanta soprattutto per il suo rapporto con la vita musicale
negli stati latino-americani dove la passione per l’opera era, nell’ottocento,
una realtà ben presente anche in virtù degli stretti legami che questi stati
mantenevano con quanto avveniva negli stessi anni in Europa.
Pasta si trasferì in Perù nel 1855 dove vi rimase, salvo rari
ritorni in Italia, fino alla sua morte nel 1898.
Proprio in occasione di un ritorno in Italia nel 1875 fece
rappresentare a Genova Atahualpa, su libretto di Antonio Ghislanzoni. L’opera
si pensava fosse andata perduta e solo in anni recenti è stato recuperata la
riduzione per canto e pianoforte mentre nulla è rimasto dell’orchestrazione.
Con un lavoro certosino il compositore Matteo Angeloni ne ha curato la
riorchestrazione che riesce a giovarsi di una aderenza stilistica e una forza
espressiva magistrali.
Certo non stiamo parlando di un capolavoro assoluto del
melodramma ma la musica di Pasta risulta essere non priva di efficacia. In essa
si sente tantissimo l’influenza francesce di Meyerbeer oltre ai tanti echi del
Verdi giovanile e in parte anche del Verdi francese (a tal proposito ci sono delle
assonanze tra il coro iniziale dei soldati spagnoli con la scena abbastanza simile
de “I vespri siciliani”). Tutta la composizione di Pasta è basata su un ideale
rifiuto del colonialismo e del fanatismo, religioso e non.
La trama del libretto è abbastanza semplice perché ci parla
della storia d’amore tra la principessa indigena Cora e il giovane cavaliere
nemico Hernando de Soto ma Ghislanzoni (ricordiamo che è il librettista di “Aida”)
riesce a dipanarlo con una buona originalità mettendo in contrapposizione il
fanatismo dei conquistatori, incarnato da Vicende de Valverde, rispetto alla
nobilissima tolleranza degli indigeni fra i quali viene a posizionarsi Pizarro
che si trova, a sua volta, in difficoltà schiacciato dall’influenza maligna di
Valverde e quella positiva di Soto, innamorato della principessa Cora e
propugnatore della pace con gli inca. Questa contrapposizione arriva al suo
culmine nell’ultimo atto quando Cora, fattasi cristiana per amore, scopre gli
inganni di Valverde che racconta al popolo inca la finta conversione del loro
Re al fine di costringerlo a piegarsi. A quel punto la fanciulla svela l’inganno
e, dopo aver rinnegato il battesimo, accetta il martirio diventando così eroina
di un popolo vinto ma non domato.
Sicuramente nella concezione di Pasta, che viveva in Perù,
invasori e nativi sono considerate le due parti di una stessa medaglia perché
dal loro connubio sarebbe poi nato il nuovo popolo peruviano. Allo stesso tempo
il cristianesimo, nell’opera e nella concezione del compositore, è una forza
diabolica che è riuscita a distruggere la cultura nativa ed ha inoltre impedito
una pacifica ed autentica integrazione.
Alcuni momenti dell’opera sono sicuramente da ricordare: i
due duetti Cora/Soto e Cora/Atahualpa in primis, senza dimenticare il
bellissimo concertato che chiude il primo atto. In tanti momenti echi di melodie
popolari peruviane calzano a pennello con la concertazione simil-verdiana. Non
c’è dubbio inoltre che il coro, così come in Verdi, ha un’importanza
fondamentale e funge non da spettatore ma da protagonista.
Dopo la sua riscoperta… c’è da sperare che qualche teatro
nostrano possa pensare di “provare” a metterla in scena. Sarebbe un giusto
riconoscimento non solo a Pasta ma a tutta la musica italiana che è stata
maestra in tutto il mondo.
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