VIOLETTA... AI TEMPI DEI SOCIAL MEDIA!!!

Devo dire che ho riflettuto parecchio prima di condividere con voi le mie impressioni sulla Traviata parigina che tanto sta facendo scalpore (almeno a sentire i commenti qui in Italia). Il capolavoro verdiano è stata la mia prima opera vista dal vivo in teatro (nell’ormai 1989 – e io avevo 10 anni –  al Teatro Comunale di Adria con una giovane Devinu e un giovanissimo Alagna), ne ho viste altre 5 o 6 versioni dal vivo e le registrazioni audio/video della mia personale discoteca sono innumerevoli, per cui le mie riflessioni partono da questo bagaglio pregresso.

La cosa che fa scalpore, fin dall’inizio dello spettacolo, è naturalmente l’aspetto visivo, dovuto alle scelte registiche di Simon Stone.


Violetta è una sorta di influencer, come tante ce ne sono ai giorni nostri, praticamente onnipresente sui social, giovane e bella. Suo malgrado però la ragazza è malata di cancro (e lo si capisce dagli scambi di messaggini sul telefono con il dottor Grenvil) e fin dalle prime scene si percepisce come, suo malgrado, dovrà soccombere alla fine risultando, della malattia, vittima. La scena della casa di Violetta si svolge in un ambiente praticamente asettico e bianco (che farà da leitmotiv per tutto lo spettacolo), con solo una miriade di bicchieri posti sul fondo… ma poi ecco il coup de theatre: la pedana della scena si gira e siamo catapultati sul retro della festa, in un vicolo con bidoni della spazzatura, casse di bottiglie di acqua minerale e camerieri che trascorrono la loro “pausa sigaretta”. In questo contesto si svolge il primo duetto Violetta/Alfredo.


Il secondo atto si apre con un altro ambiente bianco con dei tavoli da pic-nic, poi con una carriola e una mucca che viene praticamente munta da Violetta e qui forse il regista (anche se in maniera un po’ stiracchiata) vuole far passare il concetto che dietro alla realtà poco virtuale dello star system esiste poi la cruda realtà, fatta dalla manovalanza di Violetta che, pur di bere un bicchiere di latte, se lo deve mungere da sé. In questo contesto si svolge poi il grande duetto Violetta / Germont padre e la scena tra quest’ultimo e Alfredo. La scena della festa a casa di Flora ci riporta in un mondo surreale che guarda sicuramente al cinema degli anni ’60 e ’70 italiano (forse alla Fellini?) mentre il terzo atto ci porta in un ambiente ancora bianco con un unico letto d’ospedale al centro e Violetta (altro azzardo registico) che alla fine muore e sparisce alla moda di Don Giovanni, così da far sembrare che la nostra eroina diventi mito.


Pur con qualche azzardo secondo me lo spettacolo funziona… certo non un capolavoro (ho letto di apprezzamenti importanti a livello di critica europea) ma che non toglie nulla alla partitura, anzi in alcuni momenti tende ad esaltarla. E questo è il bello di Verdi… Spettacolo a mio avviso simile per concezione ma molto più azzeccato di quello scaligero del 2013. In Italia credo però che sarebbe subissato dalle contestazioni.


La parte musicale vede un assoluto trionfatore… Michele Mariotti. Avevo apprezzato il suo approccio a Traviata già nel 2009 a Macerata e poi nel 2012 a Napoli, ma qui credo che il maestro pesarese abbia raggiunto vette fino ad ora inesplorate. In alcuni momenti mi è parso di sentire una Traviata diversa, forse nuova rispetto al solito, in cui i dettagli strumentali (e io l’ho vista in video… non oso pensare in teatro) risultano lucidi in ogni momento. I due preludi sono di una forza espressiva impressionante e l’orchestra segue il direttore in maniera stupefacente. Per me la sua concertazione è un capolavoro.


Le parti solistiche principali sono sostenute da tre bravissimi cantanti attori. Pretty Yende è bellissima nella figura della Violetta “regina dei social”, recita in maniera esemplare ed è calata nella parte totalmente. Peccato che il ruolo di Violetta sia più grande di lei perché purtroppo la voce non è fatta solo di agilità o acuti (qualche volta raggiunti per il rotto della cuffia) ma deve avere un peso specifico che in questo momento il soprano sudafricano, a mio avviso, ancora non possiede a pieno. Anche l’Alfredo di Benjamin Bernheim non soddisfa a pieno. La voce è bruttina (mi ricorda un po’ il Frank Lopardo della Traviata londinese diretta da Solti) anche se riesce a cantare tutte le note cercando qua e là le sfumature che la partitura richiede. Buono il Germont di Jean-François Lapointe. Buoni anche tutti gli altri interpreti che, come tutto il cast così come figuranti e coro, sono pienamente inseriti nello spettacolo di Simon.

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