ALMANACCO OPERISTICO - 14 gennaio - TOSCA di G. Puccini
TOSCA
Melodramma in tre
atti di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo
Puccini
Prima
rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 14 gennaio 1900
Il dramma Tosca di Victorien Sardou, rappresentato a Parigi nel
1887, interessò dapprima Alberto Franchetti. Nondimeno nel 1896, Franchetti
cedette il soggetto a Giacomo Puccini, che terminò il lavoro, su libretto di
Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, nell’ottobre 1899. L’opera fu rappresentata al
Costanzi di Roma il l4 gennaio 1900. Seguendo la trama di Sardou, la vicenda è
legata ad avvenimenti storici. Nel 1798, dopo le vittorie di Napoleone
Bonaparte nella prima campagna d’Italia, truppe francesi avevano occupato Roma,
soppresso il potere temporale dei papi e proclamato la repubblica. Ma
allontanatosi Napoleone per la spedizione in Egitto, l’esercito napoletano di
Ferdinando IV di Borbone aveva scacciato da Roma il presidio francese,
abbattuto la repubblica, processato i suoi esponenti. Tosca si rifà a
questi avvenimenti.
LA TRAMA
Atto primo. È il primo pomeriggio del 17 giugno 1800, nella chiesa di Sant'Andrea della Valle. Il pittore Mario Cavaradossi sta ritraendo in un quadro Maria Maddalena e le dà il volto della marchesa Attavanti, che ha visto più volte entrare in una cappella. Da questa cappella esce Cesare Angelotti, già console della repubblica romana soppressa dalle truppe napoletane e fratello della marchesa. Angelotti è evaso poco prima da Castel Sant’Angelo, dove il barone Vitellio Scarpia, capo della polizia, l’aveva imprigionato. Cavaradossi, di sentimenti liberali, gli offre rifugio nella propria villa. Sopraggiunge Tosca, cantante tanto famosa quanto avvenente e amante di Cavaradossi. Il quadro che ritrae l’Attavanti l’ingelosisce, ma, rassicurata da Cavaradossi, Tosca s’allontana. Cavaradossi e Angelotti lasciano la chiesa, nella quale entra poco dopo Scarpia, che ha iniziato le ricerche dell’evaso. Torna Tosca, per avvertire Cavaradossi che la sera dovrà eseguire a Palazzo Farnese una cantata per festeggiare la vittoria che l’esercito austriaco ha riportato a Marengo su Napoleone. Non trovando l’amante è ripresa dalla gelosia, che d’altronde Scarpia rinfocola. Da tempo desidera Tosca, e ordina al poliziotto Spoletta di pedinarla. Rimane quindi nella chiesa per assistere al Te Deum di ringraziamento per la sconfitta subita da Napoleone.
Atto secondo. Scarpia sta cenando in una sala di Palazzo Farnese,
residenza romana dei Borbone di Napoli. Gli giunge la voce di Tosca che esegue
la cantata celebrativa e decide di convocarla. Apprende poi da Spoletta che
Angelotti è irreperibile, ma che certamente Cavaradossi conosce il suo
nascondiglio, e quindi lo ha arrestato. Ha inizio l’interrogatorio: il pittore
nega di conoscere il nascondiglio di Angelotti e impone il silenzio a Tosca,
nel frattempo sopraggiunta. Scarpia lo sottopone a tortura e Tosca, disperata,
rivela che Angelotti è nascosto in un pozzo del giardino della villa di
Cavaradossi. Sopraggiunge il gendarme Sciarrone, e informa che a Marengo
Napoleone non è stato sconfitto, ma ha vinto. L’esultante Cavaradossi è
imprigionato. Rimasto solo con Tosca, Scarpia la ricatta: se gli si concederà,
potrà salvare Cavaradossi e lasciare Roma con lui. È interrotto da Spoletta, il
quale riferisce che Angelotti ha evitato la cattura uccidendosi. Tosca, sempre
più sconvolta, chiede a Scarpia, in cambio di ciò che egli pretende, un
salvacondotto per Cavaradossi e per sé. Scarpia acconsente, ma precisa che, non
avendo egli la facoltà di graziare Cavaradossi, occorrerà simularne la
fucilazione, con un plotone che sparerà a salve. Mentre compila il
salvacondotto, Tosca impugna un coltello scorto sul tavolo al quale Scarpia
stava cenando all’inizio dell’atto, e lo uccide.
Atto terzo. Sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo. È l’alba,
salutata dallo scampanio delle chiese di Roma e anche dal malinconico stornello
d’un giovane pastore. Cavaradossi, in attesa di essere giustiziato, inizia una
lettera di addio che un carceriere, in cambio di un anello, consegnerà a Tosca.
Colto tuttavia dai ricordi dei giorni felici, si interrompe commosso. Ma Tosca
giunge di lì a poco, mostra il salvacondotto all’amante, entrambi esultano.
Tosca esorta Cavaradossi a fingersi colpito quando il plotone di esecuzione
sparerà a salve: ma Scarpia la ha ingannata. La scarica dei soldati uccide
Cavaradossi, e Tosca, disperata, sfugge a Sciarrone e a Spoletta, che hanno
scoperto l’uccisione di Scarpia, e si getta nel Tevere che scorre sotto Castel
Sant’Angelo, invocando la giustizia divina.
Malgrado l’ottimo esito della prima rappresentazione e di quelle che immediatamente seguirono (in due anni quarantatré, in teatri italiani e esteri), Tosca disorientò una parte della critica. Anche perché, si scrisse più tardi, Puccini era incorso in un verismo sfrenato o addirittura nel grand-guignol, un genere teatrale che porta alle estreme conseguenze la formula naturalista-verista della cosiddetta tranche de vie e la sfruttava inscenando torture e delitti d’ogni genere. Ma il grand-guignol era nato a Parigi l’11 novembre del 1897, con Lui! di Oscar Méténier e soltanto nel 1908 fu importato in Italia. Certamente talune scene del secondo atto sono violente; e anche truci. Truce è la scena della fucilazione di Cavaradossi, ma ancor più lo quella della uccisione di Scarpia per mano di Tosca, che poi si prolunga per le implorazioni di soccorso della vittima e per il macabro cerimoniale che vede Tosca nettarsi le mani, ravviarsi i capelli, togliere il salvacondotto dalle dita raggrinzite dell’ucciso e infine accendere due candele e deporre un crocifisso sul petto della sua vittima. Ma mentre questo avviene, l’Andante sostenuto della piena orchestra, lugubre e ossessivo, rende scenicamente eloquente il silenzio di Tosca. Molto più che nella Bohème, Puccini gioca, in Tosca, sui motivi ricorrenti. Ne ha uno anche Angelotti, in orchestra e, sempre in orchestra, anche il sacrestano. È un motivo satirico quello del sacrestano (che è un essere pavido, untuoso, bigotto) correlato ritmicamente a un tic di cui il personaggio soffre (“E sempre lava” Allegretto grazioso in 6/8, atto primo). Quanto a Tosca, Cavaradossi e Scarpia, sono esseri in vario modo dominati dalla sensualità. Questo è evidente in momenti del loro canto divenuti famosi: l’Andante lento “Recondita armonia”, l’Andante lento appassionato molto “E lucevan le stelle” di Cavaradossi; il Largo religioso sostenuto molto “Tre sbirri... Una carrozza”, l’Andante lento “Ella verrà... per amor del suo Mario” di Scarpia e, infine, l’Andante lento appassionato “Vissi d’arte” di Tosca. «Dolcissimo con grande sentimento», prescrive Puccini per quest’aria.
È noto che in un primo
tempo Puccini si mostrò restìo ad accordare un assolo alla protagonista nel
momento culminante dello scontro con Scarpia. Cedette poi a quelle che si
potrebbero definire come ragioni d’opportunità, a con molte raccomandazioni di piano,
pianissimo, con grande sentimento, dolcissimo all’orchestra.
Qui va anche notato che, specialmente nella prima metà del nostro secolo, ma
spesso anche attualmente, l’esecuzione della chiusa dell’aria da parte delle
protagoniste non è conforme alle prescrizioni di Puccini che sono le seguenti:
«Nell’ora del dolor perché» (ripresa di fiato) «perché Signor, ah» (fiato)
«perché me ne rimuneri» (singhiozzando su «rimuneri» e con il mi bemolle
sull’ultima ‘i’ di «rimuneri» da tenere a lungo, perché contrassegnato dal
segno di corona); quindi ripresa di fiato e infine un breve «così?». Molte sono
le raccomandazioni di piano e di pianissimo all’orchestra.
Inoltre Tosca, dopo che Scarpia ha cantato «Al tuo Mario per tuo voler/ non
resta che un’ora di vita», affranta dal dolore deve lasciarsi cadere sul
canapé, per rialzarsi alla frase «diedi fiori all’altare». Questo é un esempio
delle minuziose indicazioni di cui Puccini costellò la partitura. Tosca ha un
altro assolo, meno popolare di “Vissi d’arte”, che trova posto nel duetto con
Cavaradossi del primo atto. Tosca ha notato che l’amante è distratto,
sbrigativo (il suo pensiero è volto alla salvezza di Angelotti, che attende
nella cappella degli Attavanti) e reagisce con una sorte di aria di seduzione,
l’Allegro moderato “Non la sospiri la nostra casetta”. Questa pagina che,
alludendo ai convegni notturni, evoca l’abitazione di Cavaradossi (che in
Sardou è una villa ubicata nei pressi delle Terme di Caracalla), ha un sapore
arcadico, ma ricordando i boschi i roveti, le arse erbe, «i franti sepolcreti»,
si rifà alla Roma di allora, nell’opera chiamata in causa da riferimenti a
monumenti e luoghi ben individuati, reali, concreti, famosi: la Chiesa di
Sant’Andrea della Valle nel primo atto, palazzo Farnese nel secondo, Castel
Sant’Angelo nel terzo. Questa Roma, che al celebre storico Jules Michelet
diede, nel 1830, l’impressione d’essere una città morta, non annoverava che
centomila abitanti e corrispondeva all’attuale centro storico, delimitato dalle
mure aureliane e per due terzi occupato da vigne, orti, giardini, parchi.
L’Aventino, il Palatino, il Celio, buona parte del Quirinale e del Viminale,
l’Esquilino, il Pincio erano campagna che ospitava qualche villa patrizia e i
ruderi di acquedotti dell’epoca imperiale o delle prime chiese cristiane. La
vita della città, tolti alcuni quartieri, era quella di un centro rurale,
attraversato di continuo da greggi di pecore e di capre guidati da pastori in
ciocie. Piazza Barberini era un luogo di sosta per i carri a buoi e la fontana
del Tritone serviva per l’abbeverata. Castel Sant’Angelo, nel quale si svolge
il terzo atto, era estrema periferia. Questo fosco e colossale monumento dellla
Roma imperiale, legato anche a lugubri vicende della Roma medioevale e
rinascimentale, incombe, nei primi incerti colori dell’alba, su una piana
solitaria, corrispondente all’attuale quartiere Prati (in origine Prati di
Castello). Ad apertura d’atto un brevissimo motivo, affidato a quattro corni,
sembra voler evocare, con suoni tetri e corruschi, la sua fama di luogo di
orrori. Ma questi suoni diverranno, di lì a non molto, un motivo d’amore,
l’ultima espansione passionale di Mario Cavaradossi e di Floria Tosca.
L’Andantino sostenuto “O dolci mani”, l’Andante amoroso “Amaro sol per te m’era
il morire” e l’Andante sostenuto “Trionfal di nuova speme” sono appunto
l’estremo, inconsapevole addio, seguito dal lugubre Largo con gravità, che
scandisce la cosiddetta ‘marcia al patibolo’ del plotone d’esecuzione sotto i
cui colpi Cavaradossi cadrà. Questa scena finale è il tributo che Puccini paga
al verismo, ma l’effetto teatrale, attentamente preparato e dosato, è di
efficacia innegabile.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Capolavoro assoluto di Giacomo Puccini quest’opera non può mancare nella
discoteca di qualsiasi appassionato d’opera, anche perché negli anni è stata
interpretata praticamente da tutti i massimi cantanti della storia moderna del
melodramma. Dello sterminato catalogo delle edizioni (sono molto vicine a 300 quelle
attualmente in commercio) mi sento di proporvi queste:
- Edizione audio diretta da Victor De Sabata nel 1953 a Milano (M. Callas,
G. di Stefano, T. Gobbi);
- Edizione audio diretta da Francesco Molinari Pradelli nel 1959 a Roma (R.
Tebaldi, M. Del Monaco, G. London);
- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1962 a Vienna (L.
Price, G. di Stefano, G. Taddei);
- Edizione audio diretta da Bruno Bartoletti nel 1976 a Londra (R.
Kabaivanska, P. Domingo, S. Milnes);
- Edizione audio diretta da Nicola Rescigno nel 1978 a Londra (M. Freni, L.
Pavarotti, S. Milnes);
- Edizione audio/video diretta da Giuseppe Sinopoli nel 1985 a New York (H.
Behrens, P. Domingo, C. MacNeil);
- Edizione video diretta da Daniel Oren nel 2006 a Verona (F. Cedolins,
M. Alvarez, R. Raimondi);
- Edizione video diretta da Maurizio Benini nel 2010 a Madrid (D. Dessì,
F. Armiliato, R. Raimondi);
- Edizione video diretta da Riccardo Chailly nel 2019 a Milano (A.
Netrebko, F. Meli, L. Salsi).
L’edizione del 1959 vede la intensa e musicalissima direzione d’orchestra
di Francesco Molinari Pradelli (un direttore poco valorizzato, a mio parere)
che guida gli ottimi complessi di Santa Cecilia. La Tosca di Renata Tebaldi e
tutta giocata sulla bellezza e dolcezza del suo timbro: una Tosca liricissima.
Mario Del Monaco è un Cavaradossi, oserei dire, dorato e giusto contraltare con
la Tebaldi. Non all’altezza invece, a mio avviso, lo Scarpia di George London.
Molto interessante l’edizione del 1962 diretta da Herbert von Karajan,
che dirige con dovizia di dettagli gli ottimi Wiener Philharmoniker. Belle le
voci di Leontyne Price (ottima anche se a mio avviso meno a suo agio rispetto
ad altri ruoli), Giuseppe di Stefano (ma al di sotto dell’edizione con la
Callas di nove anni prima) e Giuseppe Taddei.
Nel 1976, per il film di De Bosio, dirige un pucciniano di prim’ordine
come Bruno Bartoletti ed ha a disposizione un cast, per il periodo, ottimo.
Raina Kabaivanska tratteggia una Tosca lirica ma anche molto “civettuola”,
Placido Domingo ci lascia un Cavaradossi vocalmente al top (voce calda e
passionale), Sherill Milnes si dimostra come uno dei migliori Scarpia del XX
secolo.
L’edizione del 1978 che ho preso in esame si avvale purtroppo della
scialba direzione orchestrale di Nicola Rescigno (tempi larghi e poca verve nel
complesso) anche se la compagnia di canto è tutt’altro che scialba. Mirella
Freni ci porta una Tosca piena di squisita limpidezza vocale (anche se il
personaggio di Tosca non le calza a pennello) mentre Luciano Pavarotti è, in
termini vocali, il suo giusto contraltare (in quanto a limpidezza e fragranza
della voce lui è al top). Ottimo anche in questa occasione lo Scarpia di
Sherill Milnes.
L’edizione del Metropolitan del 1985 è tutta basata sulla direzione
palpitante e frenetica di Giuseppe Sinopoli mentre la parte vocale è abbastanza
innocua (scarsa la Behrens, sufficiente Domingo e poco convincente anche
MacNeil).
Le due edizioni successive che ho preso in esame (quella areniana del
2006 e quella madrilena del 2010) le ho scelte per ricordare due interpreti che
nei primi anni 2000 sono state tra le migliori Tosche in circolazione: Fiorenza
Cedolins e Daniela Dessì. Tra gli altri protagonisti di queste edizioni ricordo
in particolare Ruggero Raimondi, punto di riferimento, negli anni a cavallo tra
XX e XXI secolo, per il ruolo di Scarpia.
L’ultima edizione presa in esame è quella che ha inaugurato la stagione
scaligera 2019/2020 con le buone prestazioni vocali di Anna Netrebko e
Francesco Meli, l’ottima Scarpia di Luca Salsi e la bellissima concertazione di
Riccardo Chailly. Questa edizione però ha il pregio di essere, musicalmente, la
prima stesura dell’opera, quella che ha debuttato nel 1900 a Roma e che poi
Puccini ha modificato, regalandoci quel grande capolavoro che tutti conosciamo.
Dopo tutte queste edizioni, mi soffermo su quella che a mio avviso è la
migliore in termini assoluti: l’edizione scaligera del 1953 con il trio Callas –
di Stefano – Gobbi e la direzione di De Sabata. Vorrei partire innanzitutto
dalla direzione orchestrale che è splendida, dettagliata, tagliente in alcuni
momenti ma, in altri, liricissima. La scelta dei tempi e delle atmosfere per
ogni quadro è accurata. Insomma… la direzione più completa di quest’opera.
Maria Callas non ha, purtroppo, paragoni. Non c’è cantante che interpreti (nel
vero senso attoriale, anche se si tratta di registrazione audio) Tosca come fa
il soprano greco: il suo personaggio trasuda di musicalità e di passione, ogni
nota è cesellata e cercata, i fiati sono impressionanti. Una performance
superlativa mai più raggiunta. Con una partner così non poteva risparmiarsi
Giuseppe di Stefano che ci lascia una delle sue migliori interpretazioni di
tutta la carriera: il suo è un Cavaradossi è il giusto contraltare della Callas
perché è limpido, adamantino per certi versi, ma anche sanguigno al punto
giusto. Lo Scarpia di Tito Gobbi è il “male” messo in musica… a mio parere non c’è stato nessun
altro che sia riuscito a scavare questo personaggio come lui (l’unico che si è
avvicinato è Millnes) che ancora oggi, dopo quasi 70 anni, lo rende irraggiungibile.
Questa, per me, la migliore Tosca di sempre.
Di seguito il link per ascoltare il capolavoro pucciniano diretto da Victor De Sabata:
Concordo sulla migliore esecuzione. Fra l' opera diretta da De Sabata e quella diretta da Von Karajian ci sono 15 minuti di differenza di durata, ad evidenziare l' azione stringente che si svolge da mezzogiorno all' alba. Callas eccezionale, Di Stefano preso nel momento migliore, anche se sugli acuti si sente già un po' di "ingolamento". Eccezionale anche Gobbi, che fornisce una interpretazione assai cruenta. Trovo che l' interprete ideale a rappresentare lo Scarpia descritto da Cavaradossi "bigotto satiro che affina con le divote pratiche la foia libertina" sia stato Leonard Warren, che si mostra un vero serpente a sonagli sotto l' aspetto di una lucertola.
RispondiEliminaWarren è di sicuro un ottimo Scarpia e la sua interpretazione, nell'edizione diretta da Leinsdorf, è molto interessante. Personalmente ho adorato questo straordinario cantante in alcune interpretazioni verdiane di prim'ordine, come ad esempio in Macbeth.
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