ALMANACCO OPERISTICO - 25 gennaio 2021 - ELEKTRA di R. Strauss
ELEKTRA
Tragedia in un
atto di Hugo von Hofmannsthal, da Sofocle
Musica di Richard
Strauss
Prima
rappresentazione: Dresda, Königliches Opernhaus, 25 gennaio 1909
Sull’onda del successo di scandalo di Salome (1905), che aveva
fatto di lui il più acclamato autore d’opera del momento, Strauss si pose
subito alla ricerca di un nuovo libretto: la scelta cadde sulla tragedia Elektra
di Hugo von Hofmannsthal, che egli aveva visto a Berlino nel 1903,
«comprendendo subito che se ne poteva trarre uno splendido libretto».
Inizialmente lo «spaventava l’idea che i due soggetti fossero molto simili nel
loro contenuto psichico», ma, convinto dal poeta («le somiglianze con
l’argomento di Salome mi sembrano ridursi a nulla»), nel giugno 1906 già
dava inizio al lavoro musicale. Hofmannsthal era uno dei grandi nel mondo delle
lettere austriache, autore di liriche e di raffinati drammi in cui si respira
un’atmosfera di dissoluzione e caducità: i miti dell’‘Austria felix’ – la sua
saldezza cattolica, l’imperatore, le parate militari, le feste da ballo, le
passeggiate alla periferia di Vienna – sono condannati a dissolversi, come i
grandi miti delle civiltà passate, da Edipo a Tiziano a Maria Teresa, e «un
senso di morte occulta si coglie dietro le apparenze della vita». Ma il primo
incontro con un poeta così imbevuto di cultura, da cui doveva nascere una
fervida collaborazione durata vent’anni, avveniva sul testo di Elektra,
che attirò Strauss soprattutto per la violenza barbarica delle passioni, per il
potente emergere dei personaggi in un arcaico paesaggio aspro e monumentale,
che gli consentiva di contrapporre una «grecità demonica, estatica, estranea
alle copie romane del Winckelmann e all’umanesimo di Goethe». Quella di
Hofmannsthal era una moderna ricognizione del mito, uno scavo nella favola
antica intriso di cultura psicoanalitica, con personaggi affetti da terribili
nevrosi; nonostante l’innesto di alcuni valori positivi (la maternità, i
figli), le parentele con la Salome di Wilde restano forti, creando una
sensazione di continuità fra la coppia perversa Erode/Erodiade e
Clitennestra/Egisto, tra le figure salvifiche di Jokanaan e Oreste, tra
l’isteria delirante delle due protagoniste. E, come per Salome, Strauss fu
colpito dal frasario con cui, fin dall’aprirsi della scena, viene descritta la
donna («ella ulula», «geme», «urlava», «grida», «balzò su»...), ridotta a una
condizione di animale rabbioso fuori del palazzo di Micene; aveva già
immaginato in termini musicali la parossistica danza finale, e rimase affascinato
dai dialoghi lirici di Elettra con Oreste e con la sorella; così, in meno di
due anni, esattamente il 22 settembre 1908, la partitura di Elektra era
compiuta.
LA TRAMA
Il lavoro di adattamento del testo originale non fu né complesso né
difficile; a parte qualche piccolo taglio, Strauss chiese al poeta soltanto
alcuni versi per la scena del riconoscimento di Oreste («per creare una
tensione. (...) Versi tutti nella stessa atmosfera di estasi, di intensità
sempre maggiore») e per il duetto di Elettra e Crisotemide. Intatta rimaneva la
struttura in un atto unico, senza suddivisione in scene, introdotto da una
sorta di prologo in cui cinque donne del palazzo ricostruiscono, a mo’ di coro
greco, l’antefatto del dramma e descrivono la condizione disumana di Elettra; a
esso segue il grande monologo della protagonista “Allein, weh, ganz allein”
(‘Sola, ahimè, tutta sola’) che rievoca l’assassinio del padre Agamennone:
prima manifestazione di quella corda orrorosa su cui sarà intonata tutta la
tragedia, con l’iterazione della parola «sangue» («Blut»), che dominerà insieme
ad altri termini-emblemi come «Bett, Bad, Beil» (‘letto, bagno, scure’) tutto
il racconto. Se, infatti, le atrocità perpetrate nella reggia degli Atridi, il
rapporto indegno fra Clitennestra ed Egisto, il desiderio di vendetta di
Elettra, il suo amore fraterno per Oreste e Crisotemide, il matricidio sono
elementi che discendono dalla tradizione greca, Hofmannsthal vi aggiunge una
dilatazione parossistica, un’ossessiva presenza di morte e di crudeltà
barbariche, un seguito di urla, di invocazioni, di anatemi che sconvolgono la
compostezza del modello sofocleo. E Strauss si cala in questo clima
allucinante, ricorrendo a un’orchestra ancor più ampia e con effetti sonori più
violenti che in Salome, e non consentendo alla sua invenzione melodica
se non brevi cellule tematiche, come quella ossessiva di quattro note –
l’accordo di re minore – su cui viene intonato il nome «Agamemnon», che apre
l’opera ex abrupto. È un fascio di motivi che sarebbe arduo individuare
singolarmente, secondo la prassi del Leitmotiv wagneriano (temi ‘della
vendetta’, ‘della scure’, ‘del sangue’); sono piuttosto profili ritmici ed
espressioni gestuali ricorrenti per i quali la critica ha parlato di visuelle
Klanglichkeit (‘sonorità visiva’). Ma, di contro al carattere aforistico di
questi spunti, vere e proprie ‘testate’ di temi, enunciati in parte nel ‘coro’
delle ancelle, si pone l’avvolgente motivo cantabile (in la bemolle), che
risuona in orchestra quando Elettra pronuncia le parole «deine Kind» (‘tua
figlia’), un grande pensiero musicale compiuto, presente in tutta l’opera con
la sua forte connotazione lirica; e ancora, il vigoroso spunto danzante su cui
ella conclude il monologo, sentenziando «felice è chi ha figli che intorno alla
sua alta tomba danzano regali danze di vittoria», preannuncio del barbarico
scatenamento finale. Accanto alla magnificenza timbrica dell’orchestra,
accidentata è la scrittura vocale della protagonista, ampia, al limite del
grido, che richiede una tensione drammatica da soprano wagneriano.
Ai due quadri iniziali seguono quattro dialoghi che pongono di fronte:
Elettra e Crisotemide; Elettra e la madre; ancora le sorelle, con una breve
scena fra due servitori; Elettra e Oreste, con il riconoscimento tra i due
fratelli; poi, nella catastrofe conclusiva, avviene – fuori scena – l’eccidio
di Clitennestra e di Egisto; ed Elettra, scatenatasi in una folle danza di
esultanza, stramazza a terra. Motore della vicenda, come nella tragedia di
Sofocle, è la notizia della morte presunta e poi l’arrivo di Oreste, ma è
Elettra, con la sua costante presenza in scena, a guidare gli eventi.
Hofmannsthal, pur nell’apparenza di una classica tragedia ‘d’azione’, ha inteso
dipanare una storia di rapporti morbosi che potrebbero collocarsi all’interno
di una borghese famiglia europea di fine secolo, attraversata da affetti al
limite della psicosi e della perversione, come in un testo di Ibsen. Terribile
è infatti l’odio che Elettra prova per la madre, colpevole di aver ucciso il suo
sposo e cacciato il figlio Oreste perché fosse ucciso, che vive nell’angoscia
che possa ritornare, e tiene nella propria dimora come schiava, in condizioni
disumane, la figlia. Ma prima di giungere allo scontro tra Clitennestra ed
Elettra, che anche sul piano musicale è il vertice della tragedia, Hofmannsthal
attenua la tensione recuperando da Sofocle la figura femminile di Crisotemide,
la tenera sorella che accetta il destino compiuto («il padre è morto e il
fratello non torna più»): memorabile il mesto andamento processionale con cui
Strauss delinea la solitudine delle due sorelle che, fisse come uccelli sulla
stanga, stanno in attesa di Oreste; ma al desiderio di vendetta di Elettra che
‘non può scordare’, alla sua fissità nel passato, la serena Crisotemide
contrappone la volontà del divenire («voglio vivere»), di realizzarsi
umanamente: il desiderio di nozze, l’aspirazione a diventar madre. Una radicale
diversità di natura, una contrapposizione di tipologie femminili (evidenziato
anche dal timbro vocale di Crisotemide, un soprano lirico) da cui nasce uno
stupendo episodio, in cui hanno voce gli affetti umani più semplici e profondi:
si noti lo slancio tenero della melodia in mi bemolle sui versi «Kinder will
ich haben» (‘Voglio aver figli, voglio scaldarli col mio corpo’) e l’avvolgente
finale con l’immagine dei figli e del latte materno, con il vocalizzo che
accompagna trionfalmente la parola-chiave «Weibschicksal» (‘destino di donna’),
momenti di immediata godibilità melodica nello spessore petroso dell’opera. Ma
già nella conclusione del duetto, con il pianto di Crisotemide e la beffarda
allusione di Elettra alle nozze, si profila l’orrore della scena seguente: è un
breve interludio, una marcia in cui Strauss tocca i vertici del parossismo, con
feroci dissonanze, un’estensione fonica con timbri che vanno dall’ottavino al
bassotuba, con archi divisi, con ogni tipo di percussione; un magma di musica
al limite del rumore per illustrare l’entrata di Clitennestra: «D’innanzi alle
finestre illuminate da una luce violenta» – così la didascalia – «passa
tintinnando e scalpicciando un corteo frettoloso. È un tirare, un trascinare
animali, un altercare soffocato, un gridare subito represso, uno schioccare di
fruste, un avanzare tumultuoso». Nel dialogo la vecchia madre, carica di
amuleti e gioielli, trova accenti quasi commoventi nel descrivere le sue
spaventose notti insonni («ich habe keine guten Nächte»), il suo vano «recare,
recare offerte, offerte» agli dèi per placare un rimorso che non trova pace,
nel suo chiedere aiuto alla figlia; ma di contro a lei si erge la furia di
Elettra, che allude crudelmente all’unica vittima sacrale che potrà darle pace:
lei stessa, quando sarà stata uccisa da Oreste. La scena è pervasa da una
tensione fonica del tutto inedita nella storia dell’opera, in una direzione che
non è improprio definire espressionistica, anche se la dissonanza, il
cromatismo esasperato, la sovrapposizione di piani tonali, sono momenti
ideologicamente occasionali nel sistema straussiano; in più, a conclusione del
dialogo, Strauss prescrive per Clitennestra una serie di agghiaccianti risate
alla notizia della morte di Oreste e una declamazione non intonata, quasi
grido, di «luci! più luci!»: non siamo certo allo Sprechgesang, ma la
ricerca di qualcosa che sia altro dal canto, che faccia a gara con il rumore
dell’orchestra è fortemente affermata. Lo stesso Strauss, scrivendo «il mio
stile di canto ha lo stesso tempo del dramma recitato, ed entra spesso in
conflitto con le figurazioni e la polifonia dell’orchestra», traduce
esemplarmente il nuovo rapporto di clamoroso straniamento della scrittura
vocale rispetto al tessuto sinfonico instaurato da Elektra, nel quale non
sempre è possibile percepire le singole parole, stravolte in un dettato
angosciosamente rapido. E – ben altrimenti che nella più sensuale e iridescente
Salome – le relazioni illustrative di genere madrigalistico tra parola e
suono divengono rare, spesso neppure percepibili, poiché l’intricata,
lussureggiante invenzione orchestrale procede per suo conto, senza sosta, come
un poema sinfonico di cui il racconto sembra dimenticarsi, facendo emergere
solo qualche parola o grido isolato.
La seconda scena fra Elettra e Crisotemide lasciò perplesso il pubblico,
già alla prima del dramma di Hofmannsthal, per le esplicite venature di
sentimento omosessuale di Elettra, che ammira la bellezza corporea di
Crisotemide, l’abbraccia, le si getta alle ginocchia «come una schiava»: per un
simile precipitare del rapporto fra le sorelle, con Elettra che giunge a
maledire Crisotemide, restando ancora una volta sola con il suo nevrotico
desiderio di vendetta, Strauss trova accenti in cui la tenerezza del precedente
incontro si stravolge fino a divenire spasimo e furia: basti ricordare il breve
passaggio orchestrale ove l’eroina dissotterra l’ascia con cui è stato scannato
il padre. Ma il procedere paranoico della psiche di Elettra ha un altro momento
di pacificazione nella scena del riconoscimento con Oreste; come già per
Jokanaan, Strauss ricorre al caldo timbro baritonale per raffigurare la forza
consolatrice del giovane fratello, e a un’inventiva melodica distesa, ad
accenti di tenerezza commovente: soprattutto nell’episodio lirico ‘aggiunto’
gli orrori sonori delle scene precedenti sono soppiantati da sonorità calme e
trasparenti, intrise di una calore che sfiora ancora una volta la sensualità,
pur essendo un dialogo tra fratelli. Sul piano della drammaturgia, Hofmannsthal
e Strauss non hanno evitato una certa prolissità nelle scene successive,
soprattutto nel dialogo tra Elettra e Egisto, quando ella finge una
tranquillità ironica per attirarlo nell’agguato; poi tutto precipita verso la
scatenata danza, fino al suo stramazzare al suolo vinta dall’emozione, in
un’esultanza crudele in cui s’intreccia una forte carnalità, e di fronte alla
quale gli stessi Crisotemide e Oreste si ritraggono raccapricciati. Ma
angosciante nel suo carattere interrogativo è la chiusa in cui Crisotemide,
mentre echeggia ancora una volta in orchestra il tema di Agamemnon, grida
spaventata il nome del fratello «Orest, Orest!», presagio del destino cui egli
dovrà andare incontro per i terribili eccidi di cui si è macchiato.
Elektra andò in scena a Dresda il 25 gennaio 1909 sotto la
direzione di Ernst von Schuh: «Il successo della ‘prima’ – ricorda Strauss –
non fu altro che un successo di stima»; pure, l’opera passò rapidamente in
altri teatri con notevoli successi; in Italia, ebbe la ‘prima’ a Milano (6
aprile 1910, direttore Edoardo Vitale), con Salome a Krusceniski come
protagonista. Ma dopo l’apparizione del Rosenkavalier e la prima guerra
mondiale, Elektra attraversò un periodo di disinteresse, fino agli anni
Trenta, quando le prime rappresentazioni negli Stati Uniti determinarono una
forte ripresa delle sue quotazioni anche sul mercato teatrale europeo, fino a
collocarla – nell’opinione della critica come degli spettatori – tra i massimi
esiti del teatro di Strauss.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Opera che ha segnato inevitabilmente la storia del melodramma, Elektra
vanta una vasta discografia che parte dal lontano 1937 per arrivare fino ad oggi.
Dell’importante catalogo delle edizioni (circa un centinaio quelle attualmente
in commercio) mi sento di proporvi queste:
- Edizione audio diretta da Fritz Reiner nel 1952 a New York (A. Varnay,
W. Wegner, E. Hongen, S. Svanholm, P. Schoffler);
- Edizione audio diretta da Dimitri Mitropoulos nel 1957 a Salisburgo (I.
Borkh, L. Della Casa, J. Madeira, M. Lorenz, K. Bohme);
- Edizione audio diretta da Karl Bohm nel 1960 a Dresda (I. Borkh, M.
Schech, J. Madeira, F. Uhl, D. Fischer-Dieskau);
- Edizione audio diretta da Georg Solti nel 1966-67 a Vienna (B. Nilsson,
M. Collier, R. Resnik, G. Stolze, T. Krause);
- Edizione video diretta da Claudio Abbado nel 1989 a Vienna (E. Marton,
C. Studer, B. Fassbaender, J. King, F. Grundheber);
- Edizione video diretta da Esa Pekka Salonen nel 2013 a Aix en Provence
(E. Herlitzius, A. Pieczonka, W. Meier, T. Randle, M. Petrenko).
L’edizione registrata nel 1952 al Metropolitan di New York, pur essendo
di precaria qualità, ci mostra la straordinaria maestria di Reiner nella
conduzione di un’orchestra lussureggiante (forse è la migliore concertazione in
assoluto di quest’opera). Il cast a sua disposizione è il migliore che in
quegli anni poteva essere assemblato e si poggia sulla straordinaria Elektra
della Varnay così come non sono da meno la Chrysothemis della Wegner e la
Clytemnestra della Hongen.
La registrazione del 1957 ci consente di ascoltare una concertazione
molto particolare (come era poi nel suo normale stile interpretativo) di
Dimitri Mitropoulos affiancato da una delle migliori interpreti assolute (a mio
parere) del ruolo di Elektra e cioè Inge Borkh. Non da meno è la prestazione di
Jean Madeira che è una Chrysotemis eccellente sotto ogni punto di vista.
Immensa, e inarrivabile, è la Klytemnestra di Lisa Della Casa, che alla fine
vale tutta la registrazione.
Interessante poi l’edizione del 1960 diretta da Karl Bohm che dirige
molto bene ma non arriva alle vette quasi inarrivabili dell’altro capolavoro
straussiano e cioè Salome. La Borkh e la Madeira sono sostanzialmente
quasi alla pari rispetto all’edizione con Mitropoulos mentre purtroppo Marianne
Schech non si avvicina minimamente alla prestazione della Della Casa e si
milita ad una onestissima interpretazione. Da ricordare in questa edizione il
nobile, forse anche troppo, Oreste di Dietrich Fischer-Dieskau.
L’edizione video registrata nel 1989 alla Staatsoper di Vienna si avvale
della direzione imponente, ma nello stesso tempo asciutta e pertinente di Claudio
Abbado. Eva Marton è stata l’Elektra degli ultimi anni del ‘900, anche se non
ha mai raggiunto le vette interpretative di tante sue colleghe che hanno
cantato in là negli anni. Buona la Klytemnestra della Fassbaender mentre è
ottima (forse la sua migliore interpretazione in assoluto) la Chrisotemis di
Cheryl Studer. Grandioso anche lo spettacolo, con la regia di Harry Kupfer.
L’allestimento del 2013 al Festival di Aix en Provence (poi approdato in
tanti teatri tra cui la Scala) vede la regia bellissima – una sorta di
testamento interpretativo – di Patrice Cherau combinata alla ispiratissima
direzione orchestrale di Esa Pekka Salonen. Punta di diamante del cast è
sicuramente l’Elektra di Evelyn Herlitzius così come sono ottime la Chrisotemis
di Adrienne Pieczonka e la Klytemnestra di Waltraud Meier. Buoni qui i ruoli
maschili ma non straordinari.
L’edizione che però trovo sia, nel complesso, la più completa in ogni
aspetto è quella diretta nel 1966-67 da Georg Solti a Vienna. La concertazione
del direttore ungherese è sontuosa e sfavillante anche grazie all’apporto di
una compagine magnifica come quella dei Wiener Philharmoniker. Birgit Nilsson è
una Elektra ideale, sostenuta magnificamente da Solti e qui offre a mio parere
la sua migliore interpretazione in assoluto (forse ancor migliore rispetto ai
tanti ruoli wagneriani). Pur non dotata di un timbro entusiasmante Regina
Resnik ci offre una Klytemnestra di grandissimo impatto. Svolgono degnamente la
loro parte sia la Collier (ottima Chrysothemis) che Stolze e Krause (buonissimi
Aegist e Orest).
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