ALMANACCO OPERISTICO - 19 gennaio 2021 - IL TROVATORE di G. Verdi

IL TROVATORE

Dramma in quattro parti di Salvatore Cammarano, dal dramma El trovador di Antonio Garcia-Gutierrez

Musica di Giuseppe Verdi

 

Prima rappresentazione: Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853

 

Il libretto del Trovatore fu approntato da Salvatore Cammarano, la cui improvvisa morte richiese per qualche scena l’intervento di Leone Emanuele Bardare. L’opera, terminata da Verdi il 14 dicembre 1852, fu eseguita per la prima volta al Teatro Apollo di Roma il 19 gennaio 1853. La trama si rifà a El trovador, dramma di Antonio García-Gutiérrez risalente al 1836 e ambientato nella Spagna del XV secolo.


LA TRAMA

Atto primo. ‘Il duello’. Ferrando narra agli armigeri del conte di Luna la storia di una zingara, condannata al rogo per stregoneria, la cui figlia, per vendicarsi, aveva rapito uno dei due figli del conte – un bambino ancora in culla – e l’aveva bruciato. Nella scena successiva una nobile dama, Leonora, narra a Ines, sua cameriera e confidente, di amare uno sconosciuto cavaliere, incontrato in un torneo, il quale viene nottetempo a trovarla, accompagnando con il liuto i canti con i quali si annuncia. Nella terza scena compare il conte di Luna, figlio dell’omonimo conte al quale era stato rapito il bambino; ama Leonora ed è quindi rivale dello sconosciuto trovatore. Quando questi giunge, il conte di Luna lo sfida a rivelare il proprio nome e l’altro (tenore) dichiara d’ essere Manrico, seguace dell’eretico Urgel. I due si allontanano per battersi.


Atto secondo. ‘La gitana’. Su un monte della Biscaglia alcuni zingari, intenti al lavoro, cantano battendo ritmicamente i martelli sulle incudini. Azucena si tiene in disparte con Manrico, al quale narra che una zingara, bruciata perché accusata di stregoneria, le aveva chiesto, prima di morire, di vendicarla. Quella zingara era sua madre e Azucena aveva rapito un bambino, figlio del conte di Luna, con l’intento di bruciarlo. Ma, frastornata, aveva gettato tra le fiamme il proprio figlioletto e non il bambino rapito. Manrico è sorpreso e turbato, ma Azucena lo rassicura: se non fosse sua madre non avrebbe curato amorosamente le ferite da lui riportate in una vittoriosa battaglia. Ma perché, quando il conte di Luna era piombato su di lui con i suoi, non l’aveva ucciso? E perché, quando si erano battuti in duello, lo aveva risparmiato? Manrico non sa spiegarselo. Gli era parso che una misteriosa voce giungesse dal cielo, imponendogli di non colpire. Azucena gli fa allora giurare che, se in futuro dovesse ancora battersi con il conte, non avrà pietà. Giunge poi un messo e narra che Leonora, credendo morto Manrico, sta per farsi suora. Manrico, ignorando le preghiere di Azucena, che gli ricorda le ferite dalle quali non è ancora guarito, balza a cavallo e piomba sul conte di Luna, che si accingeva a rapire Leonora: l’arrivo di Manrico sventa il suo piano.

Atto terzo. ‘Il figlio della zingara’. Sfilano gli armigeri del conte di Luna, il quale assedia Castellor, difesa da Manrico e dai suoi; subito dopo è catturata una zingara sorpresa in attitudine sospetta. In lei Fernando riconosce chi che aveva rapito e dato alle fiamme il fratellino del conte. Torturata, Azucena invoca l’aiuto del figlio Manrico, ciò che rende ancor più feroce Luna. La successiva scena si svolge in Castellor. Manrico e Leonor sono sul punto di sposarsi allorché Ruiz avverte Manrico che il conte di Luna ha già fatto accendere la pira sulla quale Azucena sarà bruciata. Manrico, disperato, decide una sortita per salvare la madre.


Atto quarto. ‘Il supplizio’. Leonora si aggira nottetempo nei pressi del palazzo dove il conte ha imprigionato Manrico, da lui catturato in battaglia. Al suo orecchio giunge la voce di Manrico, che, invocando la morte, le invia l’estremo saluto e il Miserere di un coro di prigionieri. Leonora promette allora al conte il proprio corpo in cambio della salvezza di Manrico. Il finale dell’opera è ambientato nella prigione che rinchiude Manrico e Azucena, che alterna momenti di delirio ad altri di sopore. Sopraggiunge Leonora e annuncia a Manrico che è libero; ma quando Manrico apprende a quali condizioni, inveisce contro di lui, ravvedendosi tuttavia quando Leonora, che continua a esortarlo alla fuga, gli rivela d’essersi avvelenata. Il conte di Luna trova Leonora morente e ordina che Manrico sia giustiziato. A esecuzione avvenuta, Azucena, morente, gli rivela che Manrico era suo fratello, da lei rapito bambino.


Il conte di Luna e Azucena sono i personaggi che reggono la sorte degli altri. Del conte è tipica la veemenza con la quale si esprime. Ne è un primo esempio il terzetto con Leonora e Manrico, che conclude la prima parte, allorché il conte, dopo le convulse frasi iniziali (“Di geloso amor sprezzato”), prorompe nel più ampio “Un accento profferisti che a morir lo condannò” rivolto a Leonora. Questi iperbolici slanci culminano, fra squilli di tromba, nella frase “Non può nemmeno un Dio/ Donna rapirti da me”. Poco prima, tuttavia, con il Largo “Il balen del suo sorriso”, Verdi aveva portato una voce baritonale a cantare d’amore con la flessuosità e l’abbandono di una tenorile. Non per la prima volta, tuttavia, se si pensa al “Vieni meco, sol di rosa” di Don Carlo nell’Ernani. Ma una rocciosa veemenza è il tratto caratteristico del conte, particolarmente evidente nella scena e nel terzetto che inizia la terza parte (“Tu prole, o turpe zingara”) e nel duetto con Leonora della parte quarta (“Ah, dell’indegno rendere/vorrei peggior la sorte”). Ma qui, sia pure con il velo che nel melodramma romantico ammantava certe passioni, Luna rivela la sensualità del suo amore per Leonora (“Tu mia, tu mia, ripetilo”).

Azucena è l’altro personaggio cardine della vicenda, ambiguo, cangiante nelle sue alternanze di lucidità e di torpore mentale, ma anche elemento d’ambientazione folklorica, se si pensa alla diffidenza che ancora ispiravano gli zingari nell’Ottocento e alle ricorrenti dicerie che li volevano rapitori di bambini. Verdi (II,1) li presenta pacati, laboriosi e, nell’accompagnamento del coro (“Chi del gitano i giorni abbella”), introduce quei ritmici colpi di martello che possono essere considerati come una trovata se ci rifacciamo alla metà del secolo scorso, ma che il melodramma barocco, ritraendo fabbri al lavoro, aveva inserito in opere come La catena d’Adone di Domenico Mazzocchi (1623) e l’Enea in Italia di Francesco Pallavicino (1675). Tutte opere sconosciute, si noti, fino a pochi decenni fa. Ma il Trovatore presenta un altro momento tipico del melodramma barocco: la sfilata degli armigeri (III,1) in voga dopo il Bellerofonte di Francesco Paolo Sacrati (1642) e ancora in auge nel 1677, con il Totila di Giovanni Legrenzi.


Ma per tornare ad Azucena, va notato che la sua parte inizia direttamente con un’aria (l’Allegretto in 3/8 “Stride la vampa”, II,1) e che anche in questo caso Verdi evoca, inconsapevolmente, un’altra consuetudine del melodramma barocco: quella di ritrarre con trilli le fiamme e i loro riflessi. “Stride la vampa” è suddivisa in due strofe, in ognuna delle quali ricorrono trilli brevi e uno prolungato. Brano di ardua esecuzione, è di rado realizzato secondo le prescrizioni di Verdi. La terribile fine della madre è l’ossessione che perseguita Azucena e che, sempre nella seconda parte, è espressa anche dall’Andante “Condotta ell’era in ceppi”, che inizialmente ha il sentore di una tetra cantilena. Poi, con mutamenti di tempo e con una sorta di concitata declamazione, Azucena rivela a Manrico di aver bruciato il proprio figlio anziché il figlio del conte da lei rapito. Il monologo si muta in duetto quando Manrico narra come inspiegabilmente non avesse ucciso il conte di Luna nel duello con lui sostenuto (Allegro “Mal reggendo all’aspro assalto”). La replica di Azucena (“Ma nell’alma dell’ingrato”) si distingue, più che per l’ispirazione melodica, per la teatrale concitazione che coinvolge anche Manrico. Questo complesso duetto si arroventa con il velocissimo 3/8 “Perigliarti ancor languente” di Azucena, concluso da una cadenza virtuosistica che porta la voce al do sopracuto. La replica del tenore (“Un momento può involarmi/ il mio ben, la mia speranza”) ha già quasi il ritmo dello sfrenato galoppo che porterà il protagonista a Castellor per impedire a Leonora, che lo crede morto, di prendere il velo.

Azucena ricompare con una sorta di cantilena (III,3; “Giorni poveri vivea”, un Allegro in 3/8), che si muta in invettiva quando Ferrando e i suoi la maltrattano. Nel finale quarto, che si svolge nella prigione nella quale è rinchiusa con Manrico, Azucena alterna tetre visioni a momenti di lucidità. È lei a intonare, tra il sonno e la veglia, una delle melodie più divulgate dell’opera (l’Andantino “Ai nostri monti ritorneremo”); ed è ancora lei che, in punto di morte, dopo aver rivelato al conte che Manrico era suo fratello, lancia il grido “Sei vendicata, o madre!”.


Leonora non fugge al destino di altre eroine del melodramma romantico: la morte. Ne ha un presagio già nella sua scena a cavatina del primo atto. L’Andantino in 6/8 “Tacea la notte placida”, articolato su lunghi periodi, è d’una sognante dolcezza. Viceversa l’Allegro giusto “Di tale amor che direi” ha uno slancio che denota esaltazione. A questo Verdi giunge con il ricorso al canto di agilità – trilli inclusi – ma articolato su frasi brevi, quasi ansanti, come quella, più volte ripetuta, «per esso io morirò». Nel terzetto di Leonora, Manrico e Luna, che conclude il primo atto, si ha una situazione scenica analoga a quella che nel primo atto dell’Ernani oppone il protagonista ed Elvira a Don Carlo. Nel Trovatore il canto è più rovente, ma Verdi segue comunque lo stesso procedimento. Nell’Ernani l’Allegro assai moderato (“Tu se’ Ernani! me’ l dice lo sdegno”) è iniziato dal baritono ed Elvira e Ernani replicano all’unisono, passando a un Allegro vivacissimo. Nel Trovatore inizia il conte di Luna con un Allegro assai mosso più veemente e protervo del “Tu se’ Ernani” di Don Carlo, ma è soprattutto la risposta di Leonora e Manrico, all’unisono, che è elettrizzante. Si noti che la questione degli unisoni diede luogo a lunghe polemiche: il loro effetto fu considerato brutale dai rossinisti e tale anche da ledere le voci, essendo i cantanti portati a cantare il più forte possibile per superarsi l’un l’altro. Ma lo straordinario successo ottenuto dal finale primo dei Capuleti e Montecchi di Bellini a Venezia, nel l830, allorché Romeo e Giulietta avevano cantato all’unisono la travolgente frase “Se ogni speme è a noi rapita”, aveva divulgato questo espediente, da molti ancora considerato letale per le voci al tempo del Trovatore.

Leonora ricompare nel finale secondo: trovarsi di fronte Manrico creduto morto, le ispira un Andante mosso che è una delle espressioni di quello che Verdi soprattutto fu: un genio dell’effetto scenico. L’incredulità, l’emozione di Leonora si traducono in brevi frasi ansanti, dapprima e quindi, dopo una lunga pausa di silenzio assoluto, nel canto ampio, estatico e liberatorio di “Sei tu dal ciel disceso o in ciel son io con te?”. Il concertato che segue, con gli interventi del conte di Luna, di Manrico e quindi di Ferrando e del coro, riflette quel contrasto di passioni che, nella sua veemenza, è forse la ragione prima della popolarità del Trovatore. Ma è soprattutto nel quarto atto che Leonora emerge. Si susseguono il sognante abbandono dell’Adagio “D’amor sull’ali rosee”, le lugubri frasi (“Quel suon, quelle preci, solenni, funeste”) che si stagliano sul Miserere, l’Allegro agitato “Tu vedrai che amore in terra” – sovente omesso, specie in passato, nelle esecuzioni correnti – il duetto con Luna, con l’Andante mosso “Mira d’acerbe lacrime”, che tratteggia lo stato d’esaltazione di Leonora e, infine, il patetico Andante “Prima che d’altri vivere”.


Se si guarda alla struttura degli atti, Manrico (Alfonso de Manrique nel dramma di Gutiérrez) è un protagonista puramente nominale; Leonora, Luna e Azucena hanno, in termini di partecipazione, uguale peso. Ma Manrico assurge a protagonista anzitutto per il fascino tipicamente romantico dell’eroe immeritatamente vilipeso dalla sorte e, in secondo luogo, perché destinatario di melodie celeberrime: la serenata fuori scena del primo atto; l’Andante “Ah sì, ben mio” e l’Allegro “Di quella pira” – specie se eseguito con il do di petto di tradizione – che concludono il terzo atto; inoltre il Miserere del quarto atto, il duetto con Azucena nella scena della prigione e un frammento del successivo incontro con Leonora, l’Andante “Ha quest’infame l’amor venduto” che un tempo poteva anche provocare richieste di bis. Il Trovatore annovera un altro personaggio di qualche peso. È Ferrando, impegnato soprattutto nel primo atto, nel quale narra ai domestici e agli armigeri del conte di Luna l’antefatto della vicenda. L’inizio del racconto, “Di due figli vivea padre beato”, è un Andante mosso nel quale Verdi, per sottolinearne l’arcano contenuto, inserisce dei trilli. Nella seconda parte (l’Allegretto “Abbietta zingara”) il canto di agilità si accentua: non si può del tutto escludere che si tratti di un espediente di Verdi per distinguere l’elemento fantastico – o prevalentemente fantastico – dalla realtà.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

LA MIA PROPOSTA

Straordinario capolavoro di Giuseppe Verdi, Il trovatore è stata una delle prime opere con cui mi sono imbattuto e della quale, dopo essermene innamorato, ho letteralmente distrutto un paio di vecchie musicassette così come una videocassetta. Dello sterminato catalogo delle edizioni (più di 200 quelle attualmente in commercio) mi sento di proporvi queste:

- Edizione audio diretta da Carlo Sabajno nel 1930 a Milano (A. Pertile, I. Minghini-Cattaneo, M. Carena, A. Granforte, B. Carmassi);

- Edizione audio diretta da Tullio Serafin nel 1962 a Milano (C. Bergonzi, F. Cossotto, A. Stella, E. Bastianini, I. Vinco);

- Edizione audio diretta da Gianandrea Gavazzeni nel 1964 a Milano (C. Bergonzi, G. Simionato, G. Tucci, P. Cappuccilli, I. Vinco);

- Edizione audio diretta da Zubin Mehta nel 1969 a Londra (P. Domingo, F. Cossotto, L. Price, S. Millnes, B. Giaiotti);

- Edizione audio diretta da Richard Bonynge nel 1976 a Londra (L. Pavarotti, M. Horne, J. Sutherland, I. Wixell, N. Ghiaurov);

- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1979 a Berlino (F. Bonisolli, E. Obraztsova, L. Price, P. Cappuccilli, R. Raimondi).

 

L’edizione “vecchissima” del 1930 è stata una delle prime opere che ho ascoltato (ricordo di aver comprato delle musicassette con, oltre al Trovatore, anche il dittico Cavalleria / Pagliacci con protagonista Jussi Biorling) e ricordo, pur nell’anzianità dello stile interpretativo un ottimo Aureliano Pertile, qui quarantacinquenne e contornato da un cast vocale buono… ma inevitabilmente schiavo del suo tempo.


Interessante l’edizione diretta da Tullio Serafin, che dirige con grande maestria ma nello stesso tempo mantenendo un ottimo ritmo per tutta l’opera. Qui è da apprezzare innanzitutto l’ottimo Manrico di Carlo Bergonzi (cantante che io adoro) dal filato e dall’accento tipicamente verdiano che ci lascia un Manrico di primissimo piano. Assieme a lui ci sono una buona Fiorenza Cossotto e una altrettanto buona Antonietta Stella nel ruolo di Leonora. Buono ma non entusiasmante qui, a mio parere, il Conte di Luna di Ettore Bastianini.


L’edizione di due anni più giovane, sempre registrata alla Scala, vede una direzione elettrizzante di Gianandrea Gavazzeni, un Bergonzi che sostanzialmente è sugli stessi livelli della precedente edizione oltre ad una buonissima Gabriella Tucci (anche se non mi entusiasma in questo ruolo) e ad un potente Piero Cappuccilli come Conte di Luna. Qui abbiamo una Azucena di primissimo ordine come Giulietta Simionato, che ci lascia una delle migliori interpretazioni in assoluto di questo personaggio.


L’edizione del 1976 annovera tra i protagonisti un’altra “grande” Azucena: Marilyn Horne qui in un ruolo che, a pensarci, può esserle lontano (vista il suo normale repertorio di frequentazione) ma a mio parere di una pregnanza e di una lucentezza ammirevoli. Squillante e adamantino il Manrico di Luciano Pavarotti e interessantissima anche la Leonora di Joan Sutherland. Poco a suo agio il Conte di Ingwar Wixell. Richard Bonynge dirige alla sua maniera Verdi… ma questo titolo non è proprio nelle sue corde.


L’edizione del 1979 è sostanzialmente il testamento interpretativo che Herbert von Karajan ci lascia di questo capolavoro verdiano. Può piacere oppure no… perché per lui questo è un titolo notturno, cupo, nel quale la parola diventa sottile e sussurrata. Certo il Manrico di Franco Bonisolli sembra correre da tutt’altra parte mentre Leontyne Price ci lascia un’ottima Leonora. Molto interessante il Conte di Piero Cappuccilli mentre non entusiasma particolarmente l’Azucena di Elena Obraztsova.


L’edizione che a mio parere è la più completa è quella diretta, nel 1969, da Zubin Mehta a capo dell’ottima New Philharmonia Orchestra. Il diretto indiano persegue tempi non velocissimi ma giusti, molto buono l’accompagnamento delle voci, che non sembrano mai “stressate” dal volume orchestrale. Ottimi gli interpreti con Leontyne Price che offre una prova migliore rispetto alla registrazione diretta da Karajan mentre Placido Domingo offre un Manrico giovanile e slanciato, con buona presa delle note più acute e nel complesso un calore vocale di prim’ordine. Molto buona in questa registrazione l’Azucena di Fiorenza Cossotto così come è centratissimo il Conte di Sherill Milnes. Da notare in questa edizione l’ottimo Ferrando di Bonaldo Giaiotti, uno straordinario artista che è ancora poco valorizzato. Nel complesso sicuramente non è un’edizione stratosferica… ma la più completa, a mio parere.  

 

Di seguito il link per ascoltare il capolavoro verdiano diretto da Zubin Mehta:



Commenti

  1. Tra le tantissime edizioni di Trovatore, in studio e live, mi sentirei di escludere quelle con Carlo Bergonzi, specificatamente per lui, che da grande voce verdiana, tutto è tranne Manrico, ed inserirei quelle con Franco Corelli, Studio e live da Salisburgo, ci metto anche quella con Bjorling, con le altre sono d'accordo, poi ci sono altre edizioni minori e quasi sconosciute di grande valore.

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    1. Grazie delle considerazioni che hai voluto condividere!!!

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