A LONDRA (in streaming)... PER I DOLORI DELLA GIOVANE JENŮFA
L’allestimento di Jenůfa di Leos Janacek in scena in queste settimane alla Royal Opera House di Londra (previsto inizialmente nella stagione scorsa e poi rimandato causa pandemia) sarà sicuramente ricordato come uno dei più interessanti degli ultimi anni di quest’opera.
La regia di Claus Guth, pur non essendo un capolavoro assoluto, rende
molto bene la vicenda narrata da Janacek e tratta dalla pièce Její
pastorkyňa (La sua figliastra) di Gabriela Preissová. La scelta di Guth è
quella di non ricorrere ad una concezione registica realistica e prettamente
estetica del mondo di Jenůfa (l’aspetto folkloristico è molto presente nella
partitura e nelle atmosfere) mentre l’aspetto su cui maggiormente ci si
sofferma è sostanzialmente l’astrattismo e il simbolismo che dal lavoro di Janacek
si possono ricavare.
In base a questa concezione registica ben si inseriscono le scenografie
vagamente claustrofobiche (nel primo e secondo atto soprattutto) di Michael
Levine: il primo atto è ambientato in una fabbrica/casa/dormitorio (al posto
del mulino citato sul libretto) dove ogni singolo movimento dei suoi abitanti sembra
codificato e stereotipato, solo Jenůfa pare sottrarsi a questa vita e qui si
innesta il suo desiderio di essere donna libera. Il secondo atto ci porta nella
casa di Kostelnička, dove è rinchiusa Jenůfa che ha da poco partorito: qui si
accentua ulteriormente la visione claustrofobica in quanto le pareti della
stanza sono costruite dalle reti dei letti visti nel primo atto (quasi una
sorta di prigione vera e propria) mentre i materassi sono accatastati ai lati
quasi a formare delle colline bianche di ghiaccio (dove la vecchia ucciderà il
piccolo appena nato). In questo contesto astratto si aggiungono due simboli in
questo atto: un grande corvo nero che si posa sulle pareti della casa di Kostelnička
che diventa presagio di quello che sarà l’infanticidio e un ragazzo
insanguinato che attraversa il boccascena, altro presagio di morte che aleggia
sulle protagoniste della vicenda. Solo il terzo atto, che avviene a tragedia
consumata, ci riporta in parte all’aspetto folkloristico e più “tipico” in base
all’ambientazione dell’opera ma anche in questo caso Guth sembra voler farci
riflettere sulle stereotipazioni di un ambiente rurale che vuol dare la
parvenza di un mondo sostanzialmente tradizionale e felice (ci si prepara al
matrimonio tra Jenůfa e Laca)… mentre la tristezza e la tragedia di fondo
continuano ad aleggiare.
Regia di non facilissima lettura ma che fa riflettere, non ruba nulla
alla splendida partitura di Janacek ed anzi viene esaltata da una schiera di
interpreti che anche visivamente sono credibilissimi, in primis Jenůfa e Kostelnička.
Veniamo quindi alla parte musicale.
Karita Mattila (che era stata l’ultima interprete di Jenůfa alla ROH ben vent’anni) è una stupefacente ed
enigmatica, allo stesso tempo, Kostelnička: il suo è un personaggio giocato in
maniera quasi compulsiva sul canto, sul legato e sulla liricità della sua voce,
ancora ben calibrata. Molte interpreti di questo ruolo tendono a declamare
molto più che a cantare (normalmente ci si arriva a fine carriera e quindi con
una voce non più al 100%) mentre la Mattila esalta soprattutto il canto,
lasciando nei giusti momenti gli urli, i suoni gutturali, il quasi parlato.
Momento top per lei è il monologo del secondo atto in cui la vecchia decide di
uccidere il bambino… da pelle d’oca.
Asmik Grigorian debutta nel ruolo che fu proprio della Mattila
(commovente il suo inchino di fronte alla stessa al momento degli applausi
finali) e lo fa nel miglior modo possibile. Forse sono di parte (di questa
cantante mi piace veramente tutto) ma ogni volta che il soprano lituano affronta
un personaggio lo fa a tutto tondo, sia vocalmente che scenicamente… e anche in
questo caso non si smentisce. La sua è una interpretazione carica di contrasti:
vocalmente ci porta una Jenůfa dal timbro solida, ricco di armonici, caldo e
sicuro in ogni registro; scenicamente è una ragazza che mostra tutte le sue debolezze
e fragilità nonché il bisogno continuo di avere un appoggio morale. Una
grandissima prova questa della Grigorian che ha il suo culmine nello splendido
momento del monologo e della successiva preghiera del secondo atto, vero
culmine emozionale dell’opera.
Saimir Pirgu è uno Števa ben caratterizzato (veramente ben cantata la
scena dell’ubriacatura del primo atto) mentre Nicky Spense delinea un ottimo
Laca, che passa dal canto apprensivo e geloso del primo atto fino al timbro
appassionato e dolce del terzo atto.
Tra gli interpreti secondari mi sento di menzionare la bella prova di
Elena Zilio (80 anni compiuti!!!) nel ruolo della vecchia Buryjovka.
Henrik Nánási è un ottimo concertatore e lo si sente. I complessi della
ROH lo seguono con attenzione nella sua linea interpretativa votata all’asciuttezza,
cercando di far emergere le spigolature e i contrasti della musica di Janacek.
Anche nella sua direzione, come nella regia di Guth, l’elemento folkloristico è
abbastanza marginale e senza dubbio la resa complessiva dello spettacolo ne
trova giovamento. Forse qualche accento più melodico ci poteva stare
soprattutto nel primo e secondo atto… ma sono sottigliezze. Prova molto
positiva anche la sua.
Nel complesso quindi uno spettacolo con due protagoniste di livello assoluto che, a mio avviso, è da vedere e rivedere.
Streaming del 9 ottobre 2021 – 🌟🌟🌟🌟🌟
Ecco il link per poter vedere lo spettacolo (Operavision - fino al 9
novembre):
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