ALMANACCO OPERISTICO - 10 settembre 2020 - DIE FRAU OHNE SCHATTEN di R. Strauss
DIE FRAU OHNE SCHATTEN
(La donna
senz’ombra)
Opera in tre atti
di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard
Strauss
Prima
rappresentazione: Vienna, Staatsoper, 10 ottobre 1919
Nell’arco della collaborazione artistica fra Strauss e il letterato Hugo
von Hofmannsthal, La donna senz’ombra costituisce la chiave di volta, il
vertice assoluto di una feconda intesa ventennale iniziata con Elektra nel
1909 e conclusa nel 1933 con Arabella, che nasce dopo la morte del
poeta. Infatti, non si è ancora spenta l’eco del successo del Rosenkavalier
che comincia a manifestarsi nel poeta (marzo 1911) l’idea di un’opera-fiaba «in
cui due uomini e due donne si scontrano, la prima è una fata, l’altra una
creatura terrena, una donna bizzarra, ma in fondo assai buona d’animo (...) e
tutto l’insieme molto vario: reggia e capanna, preti, navi, torce, caverne,
cori, bambini...». Ma poi la collaborazione fra i due artisti si sposta sulla
creazione di un’opera ‘piccola’ come Ariadne auf Naxos e del balletto Die
Josephslegende; pure, il progetto della Donna senz’ombra e le
relative discussioni continuano, e finalmente il librettista ne stende nel 1913
alcune scene. Ricevuto il primo atto nell’aprile 1914, Strauss inizia la
composizione sull’onda di una straordinaria esaltazione: «Il primo atto è
semplicemente stupendo e così concentrato e coerente che non potrei immaginare
tagliata o cambiata neppure una virgola», scrive il 4 aprile; e il 16 luglio:
«Il secondo atto è meraviglioso, l’arduo problema dell’apparizione del
fanciullo è risolto con tatto e sensibilità colossali, le due scene
dell’imperatore e dell’imperatrice magnifiche e la conclusione dell’atto
grandiosa al massimo». Solo il terzo atto richiede un maggior numero di
revisioni e aggiustamenti, e il 28 giugno 1917 l’opera è terminata anche nella
strumentazione; per la rappresentazione, però, gli autori decidono di attendere
la fine della guerra, e la ‘prima’ si terrà a Vienna il 10 ottobre 1919. Nel
frattempo, Hofmannsthal ha composto un racconto ‘parallelo’ che amplia e chiarisce
il libretto dell’opera, e l’ha pubblicato: segno, anche questo, del suo
speciale attaccamento al soggetto fantastico («non avrà mai un libretto più
bello, né da me né da altri, è stato un favore del destino, un favore unico»
scrive a Strauss, che consente con lui in questo apprezzamento: «Ella in vita
sua non ha scritto niente di più bello e di più compiuto (...) ed è da sperare
che la mia musica sia degna della sua bella poesia». Ma, nonostante la tensione
creativa che la sostiene, La donna senz’ombra è rimasta, fino a pochi
anni fa, tra i titoli più preziosi e meno rappresentati di Strauss, come una
macchina teatrale imponente e faticosa, con difficoltà di allestimento per le
‘magie’, le apparizioni, i cambiamenti di scena continui, e per l’orchestra enorme,
per l’ampio cast di interpreti di grande qualità che richiede;
difficoltà pratiche che si uniscono alla ricchezza della vicenda fiabesca,
intrecciata di allusioni, di sensi oscuri, di significati simbolici ardui da
decifrare, e intessuta di fitti riferimenti culturali che investono il lavoro,
ancor più che nelle altre opere di Hofmannsthal. Molteplici le fonti alle quali
egli attinge: dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi Turandot, anche per i
nomi di Keikobad e di Barak (gli unici personaggi dell’opera che ne abbiano uno
proprio), dalle Mille e una notte e da altre leggende indiane e persiane
(ad esempio, il mito della Peri), dai racconti dei Grimm, da Goethe (Secondo
Faust, Divano occidentale-orientale), da opere tedesche come Oberon,
Lohengrin, Parsifal e soprattutto dal Flauto magico e dal
suo complesso impianto di favola esoterica e morale.
LA TRAMA
Atto primo. Nel palazzo imperiale delle fantastiche isole
Sudorientali appare il messaggero di Keikobad, signore degli spiriti e padre
dell’imperatrice, creatura spirituale apparsa all’imperatore durante la caccia
sotto l’aspetto di bianca gazzella e poi divenuta sua sposa, e annuncia che se
entro tre giorni la donna non getterà ombra, cioè acquisterà la maternità,
l’imperatore sarà condannato a trasformarsi in pietra. La nutrice e
l’imperatrice s’inabissano nel mondo degli umani (interludio) e giungono alla
casa di Barak, un povero tintore costretto a sostenere tre fratelli (un orbo,
un monco, un gobbo) e una giovane moglie, bella e insoddisfatta, che non vuole
aver figli. L’imperatrice e la nutrice si dicono disposte a diventare serve
della donna, se vorrà vendere la sua ombra, e la incantano con offerte di doni
e con magiche azioni, come quella di suscitare dal nulla cinque pesciolini per
la cena. Torna Barak, e fra i due sposi, scontenti per diversi motivi, è
scontro; voci infantili sembrano uscire, imploranti (“Mutter, Mutter”), dalla
bocca dei pesci che friggono in padella; passa una scorta notturna che invita i
coniugi ad amarsi (“Ihr Gatten”), ma Barak e la tintora, che ha già impegnato
la sua ombra, si coricano separati.
Atto secondo. La nutrice fa comparire per magia nella capanna la
figura di un ragazzo da cui la tintora era stata per un momento attratta. Nel
padiglione di caccia l’imperatore rievoca l’incontro d’amore con la sua sposa,
rivolgendosi al suo magico falco (“Falke, Falke”), ma è turbato dall’odore di
umano che ha sentito sull’imperatrice: la crede adultera, vorrebbe ucciderla ma
non può. Ancora nella casa del tintore: mentre Barak dorme, la donna è
nuovamente tentata dall’apparizione del giovane, ma al momento di cedere,
risveglia il marito. Nel palazzo, l’imperatrice ha un sonno agitato
(interludio; “Sieh, Amme”) nel quale comprende la colpa commessa nei confronti
dell’onesto Barak e, in una magica apparizione, vede l’imperatore che si
appresta al suo destino (coro “Zum Lebenwasser”). Nella sua capanna, la tintora
schernisce il marito al lavoro (“Es gibt derer”), gli rivela di averlo tradito,
di aver ceduto la sua ombra perché non vuole avere più figli, da nessuno; Barak
sdegnato vorrebbe trafiggerla con una spada comparsa nell’aria, ma la tintora,
commossa del suo amore, confessa di non averlo fatto (“Barak, ich hab’ es nicht
getan”). L’imperatrice comprende di non poter ottenere l’ombra a quelle
condizioni.
Atto terzo. È scaduto il terzo giorno, e l’imperatore è divenuto
una statua. Sulla terra, la tintora è pentita del suo comportamento (“Schweiget
doch”): tenta di correre verso Barak, ma essi non si possono, per magia,
incontrare e ognuno medita su questa terribile separazione (duetto “Dir
angetraut”). Il messaggero di Keikobad condanna la nutrice a vagare nel mondo
degli uomini, che ella disprezza; l’imperatrice e la tintora hanno superato
difficili prove interiori che le hanno redente: l’una ha imparato il sacrificio
e la compassione, l’altra ha riconosciuto il valore del semplice affetto di
Barak; improvvisamente l’imperatrice getta ombra e l’imperatore ritorna a
vivere. Le due coppie ricongiunte intonano un inno d’amore, cui si unisce il
canto dei bambini non-nati desiderosi di esistere.
Come Hofmannsthal aveva annunziato fin dalla prima ideazione dell’opera, nella Donna senz’ombra si scontrano due mondi: quello astratto e lunare degli spiriti dominato da Keikobad, con sua figlia che, come Melusina, la Peri, Rušalka, Loreley, ha qualcosa di divino (i raggi della luce la trapassano), può trasformarsi in gazzella ma, vinta dall’eroico cacciatore, è costretta a entrare nel mondo degli umani, verso cui ella sente una particolare attrazione; eppure, l’amore tra questa donna-fata e l’imperatore ha qualcosa di gelido e incompiuto; di fronte, sta un mondo terreno e quotidiano, con personaggi di sentimenti elementari e buoni, come Barak, ma anche di passioni istintive e violente, come i fratelli e la tintora, che non ha compreso il senso del darsi nell’atto d’amore. (Per inciso, Hofmannsthal non si trattenne dal dichiarare che per questo tipo aveva pensato alla moglie di Strauss, Pauline, inquieta, bisbetica e gaffeuse.) La straordinaria ricchezza di figurazioni simboliche (il falco, la freccia, i cinque pesciolini, la spada, il tempio, la montagna, le scale, la fonte d’oro acqua di vita), i personaggi fantastici (i tre fratelli di Barak, Keikobad come Sarastro, il guardiano del tempio, la figurazione del ragazzo, le sentinelle, i bambini non-nati) entrano a far parte di una narrazione emblematica e ‘mirata’ come quella del Flauto magico, tasselli di un quadro da leggersi come un percorso iniziatico, alla cui base sta la necessità di una redenzione attraverso il tuffo nell’umano, come quello compiuto da Parsifal, Zarathustra, Cristo; la convinzione che amare significa darsi interamente, che l’amore nel matrimonio (celebrato nell’ingresso di Tamino e Pamina nel tempio e da Beethoven nel Fidelio) è la più alta realizzazione dell’esistenza, come sosterrà anche Thomas Mann nello scritto Sul matrimonio del 1925. Se la nutrice appartiene al mondo delle anime oscure, di cui è capostipite la Ortrud del Lohengrin (e Strauss ne aveva già offerto delle repliche in Erodiade e in Klytämnestra) – un essere che impiega la magia per compiere il male ai danni degli uomini che ella disprezza, forse perché hanno contaminato la sua signora, l’imperatrice –, la figura più toccante, cui non si richiede di compiere alcun percorso di redenzione è quella di Barak (forse un autoritratto di Strauss stesso?) che, senza ambizioni e con intima semplicità, sa amare compiutamente, comprendere e perdonare gli errori della sua sposa inquieta. Sul piano musicale, è forse Barak, con la sua profonda umanità, che ispira a Strauss le pagine più alte e toccanti, con il vertice nel grande duetto al terzo atto, pervaso da un’onda di canto ampio e sereno, e con il geniale recupero, nell’episodio dei guardiani notturni che chiude il primo atto, del corale luterano: «emblema culturale pronto anche qui a consolare gli uomini quando cala la notte» (Mazzonis). Nel suo complesso, la partitura possiede un respiro grandioso, di stampo decisamente wagneriano per lo spessore sonoro dell’orchestra e per la complessa elaborazione di numerosi Leitmotive, anche se la scrittura di Strauss va al di là, con passaggi bitonali, con momenti di sospensione atonale, con l’estenuato cromatismo. E anche di matrice wagneriana, filtrata attraverso Salome e Elektra, è la vocalità delle protagoniste femminili, soprani drammatici di eccezionale estensione (da si a re acuto per l’imperatrice, da fa sotto il rigo al do per la tintora), e quella dell’imperatore che, come il Bacchus di Ariadne, echeggia Lohengrin e Tristan, ad esempio nel suo bellissimo assolo (“Falke, Falke”) al secondo atto. Pure, Strauss fa tesoro delle sue recenti esperienze per accogliere l’uso del parlato, molto diffuso nella scena finale dell’imperatrice alla fonte, per recuperare forme dell’opera tradizionale nei numerosi brani d’insieme a tre, cinque, sei voci, anche con coro, e per diversificare fonicamente i due mondi: quello terreno con un’orchestra pesante e colori corruschi, quello degli dèi e dell’imperatrice, con lo strumentale ridotto e leggero già impiegato in Ariadne, e timbri lucidi e trasparenti (celesta, arpa, flauto).
Un autentico vertice di questo colore fantastico è
raggiunto nella scena del sonno dell’imperatrice, a metà del secondo atto,
mentre l’episodio ‘terreno’ di massima potenza è quello della dichiarazione
furibonda della tintora alla fine del secondo atto; gli interludi che coprono i
numerosi passaggi di scena vengono da Strauss impiegati per dipingere il magico
trascolorare da un mondo all’altro. Le sue straordinarie capacità di illustratore
musicale, esibite nei poemi sinfonici o in partiture come Salome,
ritornano ancora in episodi tenebrosi (in apertura, con il messaggero di
Keikobad), o luminosi come quello delle apparizioni nella capanna della
tintora, pagine eccellenti che pure possono suscitare un certo senso di alto
manierismo; altrove, si può avvertire una sovrabbondanza ed eterogeneità di
materiali musicali (come i canti dei fratelli, che hanno un che di taverna
bavarese) e qualche insistenza librettistica. Ma quando si giunge al grandioso
finale, in cui tutte le tensioni del racconto e gli emblemi si sciolgono in un
trasparente inno di felicità, l’inventiva di Strauss sembra toccare il culmine
della concentrazione e della grandiosità emozionale in un messaggio di grande respiro
umano, che supera ogni precedente tentazione illustrativa. E questo non deve
stupire: Hofmannsthal, come già detto, elaborò il progetto della Donna
senz’ombra contemporaneamente al libretto di Ariadne auf Naxos,
nella quale è protagonista la mitica Arianna, immagine di donna abbandonata che
si racchiude nella sua grotta (nel proprio io), non credendo più all’amore e
rifiutandosi all’idea di poter ricominciare a vivere; eppure anche per lei
giungerà un nuovo sposo, Bacco. Entrambe le opere, pur così diverse tra loro,
si chiudono dunque con una celebrazione della ritrovata unione d’amore. Ma
nella storia interiore di Hofmannsthal Die Frau ohne Schatten, opera
prediletta, suggella il momento di passaggio dalla pre-esistenza,
dall’immersione continua nella civiltà del passato, dal parossismo
dell’esperienza estetizzante, all’impegno diretto con le cose, dall’universo
del metaforico all’umana esistenza concreta, al «senso terribile della realtà»,
per usare le sue parole. Forse Strauss non visse il suo rapporto familiare con
altrettanta programmatica esaltazione, ma sul piano musicale la sintonia fra il
compositore e il poeta (raffigurato nel gelido imperatore), che celebra il
coronamento emblematico di questo percorso nella creazione di una famiglia e
nella nascita di un figlio, non potrebbe essere più convincente nella sua
grandiosa semplicità. Si pensi quale fosse la condizione di disorientamento
dell’Europa negli anni della prima guerra mondiale, e come quest’opera
letteratissima potesse essere un’interpretazione trasfigurata delle sue
aspirazioni di rigenerazione. E forse non è casuale che la fortuna tardiva
della Donna senz’ombra si collochi nel nostro tempo: il messaggio di
positività morale che scaturisce dal suo sublime inno conclusivo torna a risuonare
con immutata validità a distanza di decenni, in mezzo a un’umanità tormentata,
assetata di certezze e di valori etici assoluti.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il catalogo delle edizioni audio/video di quest’opera, che io considero
tra le più difficili di Strauss, è tutt’altro che scarno (arriviamo ad una
cinquantina di edizioni) e mi sento di ricordarne alcune:
- Edizione audio diretta da Karl Bohm nel 1977 a Vienna (J. King, L.
Rysanek, R. Hesse, W. Berry, B. Nilsson);
- Edizione audio diretta da Wolfgang Sawallisch nel 1987 a Monaco (R.
Kollo, C. Studer, H. Schwarz, A. Muff, U. Vinzing);
- Edizione video diretta da Georg Solti nel 1992 a Salisburgo (T. Moser,
C. Studer, M. Lipovsek, R. Hale, E. Marton);
- Edizione audio diretta da Valery Gergiev nel 2012 a San Pietroburgo (A.
Amonov, M. Khudoley, O. Savova, E. Umerov, O. Sergeyeva);
- Edizione audio diretta da Sebastian Weigl nel 2014 a Francoforte (B.
Fritz, T. Wilson, T.A. Baumgartner, T. Stensvold, S. Hogrefe).
L’edizione diretta da Wolfgang Sawallisch poggia quasi totalmente sulla
parte di concertazione che il grande direttore tedesco riesce ad ottenere
grazie agli ottimi complessi della Radio Bavarese. La sua è una direzione molto
accurata che deriva da una conoscenza e un amore per quest’opera sicuramente
profondo (ne ha diretto ben cinque edizioni ufficiali oltre alle tantissimi
edizioni nei teatri di tutto il mondo). Il cast è buono con nessuna punta di
eccellenza e con qualche ruolo di prim’ordine veramente scarso (Muff e
Vinzing).
L’edizione salisburghese live diretta da Georg Solti è stata la mia prima
Donna senz’ombra. Anche qui, come nell’edizione di Sawallisch, primeggia
la concertazione che a mio avviso è una delle più azzeccate di Solti (assieme a
quella altrettanto bella di Arabella). Il cast è buono ma anche qui,
come nell’edizione di cui parlavo sopra, nessuno primeggia: buoni Moser e Hale
mentre un po’ al di sotto (forse tranne la Lipovsek) le donne.
L’edizione video diretta da Gergiev è discreta vocalmente così come è
suonata bene dall’orchestra del Teatro Marinskij. Il direttore d’orchestra
russo ne dà una lettura sicuramente interessante che però non va oltre una buonissima
routine.
L’edizione registrata a Francoforte è buona e si avvale di una solida
direzione di Sebastian Weigl e di un cast vocale discreto, con la punta di una
buona Wilson come Kaiserin.
L’edizione che mi sento di consigliare è quella diretta da Karl Bohm nel
1997 alla Staatsoper di Vienna. Bohm ha diretto quest’opera un sacco di volte
(9 volte in registrazioni ufficiali senza contare quelle non ufficiali) e
quella in questione è a mio avviso il suo “testamento” rispetto a questa
composizione di Strauss. Nello specifico voglio parlare un attimo dei protagonisti
vocali di questa edizione. Walter Berry è per me il miglior Barak mai esistito
discograficamente e qui si sente tutta la sua carica umana con cui esegue le
note scritte sul pentagramma da Strauss. Birgit Nilsson (che qui interpreta la
moglie di Barak) è sicuramente troppo matura per il personaggio (sia
anagraficamente che vocalmente), la sua voce è tagliente, poco sensuale… ma è
una grandissima voce se paragonata a tutte le altre interpreti che hanno affrontato
questo ruolo. James King interpreta un Kaiser straordinario e sembra fatto per
questo ruolo: il suo registro centrale è splendido, metallico, virile al punto
giusto, di una bellezza spiazzante e “freddo” come deve essere questo ruolo. La
sua sensualità vocale è trascinante… ed inarrivabile a chiunque, pur nel timbro
un po’ usurato (e in questa edizione lo sono anche la stessa Nilsson e anche
Berry… ma io li vorrei tutti così i cantanti usurati). Anche la Rysanek è, a mio
avviso, la migliore interprete assoluta nel ruolo dell’Imperatrice. La sua
interpretazione è sconvolgente (basta pensare che il soprano aveva in repertorio
questo personaggio da oltre vent’anni) pur con qualche piccolo neo dovuto
proprio all’usura del suo strumento vocale. Alcuni accenti sono un po’ striscianti,
ci sono degli improvvisi sussurri così come alcuni urli sembrano fuori luogo…
ma il suo dominio del personaggio e la sua totale immersione in esso sono
strabilianti. Un esempio su tutti per ricordare la sua interpretazione: il suo “Vater
bist du’s” è a mio parere uno dei momenti più alti della storia dell’interpretazione
novecentesca. Unico neo è la Nutrice della Hesse che, a fronte di colleghi
stratosferici, risulta all’ascolto abbastanza insignificante. Per me questa è l’edizione
di riferimento della Donna senz’ombra.
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Bohm:
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