WEXFORD INAUGURA IL SUO FESTIVAL... VIRTUALE CON ROSSINI
Il 13 marzo del 1864, in un salone del palazzo della Contessa Louise Pillet Will, a Parigi, viene presentata, ad uno scelto pubblico di invitati, la Petite Messe solennelle. La composizione non è destinata ad un uso liturgico (il pianoforte non è adatto all’acustica di una chiesa), ma ad un ambiente più intimo, domestico. L’organico è quindi essenziale (da qui l’aggettivo Petite, mentre Solennelle indica che tutto il testo è musicato, compreso il Credo): due pianoforti, harmonium e voci.
Nonostante il desiderio di Rossini (sappiamo quanto rimpiangesse la ormai
inevitabile scomparsa dei castrati), il “terzo sesso” non prese parte
all’esecuzione: i ruoli femminili vennero infatti sostenuti dalle sorelle
Barbara e Carlotta Marchisio, mentre il tenore era Italo Gardoni (primo interprete,
tra l’altro, dei Masnadieri di Verdi), e il basso Louis Agniez. Il coro era
costituito da studenti del Conservatorio di Parigi, scelti personalmente da
Auber, e diretti (alle spalle dei solisti e con tanto di bacchetta) dal maestro
Choen. Per la cronaca, al primo pianoforte sedeva un allievo di Chopin, Georges
Mathias.
La primitiva versione della Petite Messe venne eseguita solo tre volte
durante la vita dell’autore: dopo la sua morte entrò in circolazione una versione
orchestrale (in cui le parti solistiche e quelle corali rimangono identiche),
strumentata dall’autore stesso, anche se malvolentieri. In questa veste venne
eseguita, con un grande organico corale, al Théatre des Italiens di Parigi, il
24 febbraio 1869, ed entrò rapidamente in circolazione, con repliche a Bologna
(sotto la direzione dell’allievo di Verdi, Muzio), a Torino, alla Scala, in
Svizzera, Francia, Russia, Germania, e perfino in Australia!
Considerata un capolavoro di musica sacra, nel 1874 costituisce il metro
di confronto per la prima grande composizione sacra di Verdi, il Requiem.
Nonostante l’organico “ipercameristico” della prima versione (dovuto, in parte, anche a ragioni acustiche), la scrittura dei cori non presenta atteggiamenti solistici di stampo neomadrigalistico, ma assume caratteristiche squisitamente “corali”, come risulta evidente dalla struttura delle fughe, dagli interventi di stampo operistico del Credo, dagli impasti fonici del Sanctus (lo stesso Rossini parla di “Choeurs”). È quindi legittimo considerare la Petite Messe uno dei più grandi capolavori corali della musica sacra, che ogni direttore di coro deve possedere nel proprio repertorio.
Affrontare la Petite Messe solennelle dal punto di vista interpretativo
significa, innanzitutto, confrontarsi con i problemi determinati
dall’eterogeneità e dall’ambiguità di fondo che la contraddistinguono: infatti,
come si può cogliere da un’analisi globale, l’intera composizione oscilla tra
momenti assai contrastanti per stile, tecnica costruttiva e carattere
espressivo.
Quando ci si pone di fronte ad un testo che presenta una consistente
disomogeneità e si propende per una lettura di tipo sintetico, che cioè da
un’idea generale dell’opera tragga un’unica prospettiva interpretativa, si rischia
di interpretare il testo in modo un po’ troppo settoriale, valorizzando estremamente
alcuni spunti e trascurandone altri: alcune esecuzioni del capolavoro
rossiniano, pur pregevolmente realizzate, ma non pienamente soddisfacenti,
hanno probabilmente alla base una lettura eccessivamente sintetica, che
riconduce, in modo un po’ forzato, l’eterogeneità ad un’unica chiave di
lettura.
Questo dunque il punto di partenza che ha preso in considerazione Rosetta
Cucchi, direttore artistico del Wexford Opera Festival, per l’inaugurazione dell’edizione
2020 del prestigioso festival irlandese. Un festival fatto quest’anno di
appuntamenti proposti in diretta streaming e senza pubblico ma sempre molto
interessanti (punta di diamante è l’allestimento “a puntate” del Falstaff
verdiano di cui si parlerà nei prossimi giorni).
L’esecuzione della Petite messe solennelle di Rossini è affidata alla
direzione di Kenneth Montgomery con il supporto musicale di Finghin Coillins e
Carmen Santoro (primo e secondo pianoforte) e Andrew Synnott (harmonium). Il
cast comprende Claudia Boyle (soprano), Tara Erraught (mezzosoprano), Pietro
Adaìni (tenore) e John Molly (basso) oltre al Wexford Factory Ensemble (formato
in tutto da 13 coristi).
L’esecuzione della versione originale del capolavoro rossiniano parte un
po’ in sordina con un Kyrie molto poco incisivo soprattutto nella parte corale
che non sempre è ben amalgamata. Dal Gloria in poi l’amalgama comincia ad
assestarsi e il coro risulta molto più convincente. Discreto il quartetto
solistico che ha in Pietro Adaìni il cantante più in parte (buono il suo Domine
Deus). Interessanti ma nulla più le due voci femminili e ancor meno, a mio
avviso, quella del basso.
Complessivamente un’esecuzione che non rimarrò negli annali ma dimostra
ancora una volta come, se si è supportati da delle buone idee, anche in tempi
di coronavirus si possa fare musica e cultura.
Qui di seguito il link per chi volesse guardare e ascoltare il concerto:
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