ALMANACCO MUSICALE - 30 settembre 2020 - DIE ZAUBERFLOTE di W. A. Mozart
DIE ZAUBERFLÖTE
(Il flauto
magico)
Opera tedesca in
due atti KV 620 di Emanuel Schikaneder
Musica di Wolfgang
Amadeus Mozart
Prima
rappresentazione: Vienna, Theater auf der Wieden, 30 settembre 1791
Sulla genesi del Flauto magico sono fiorite molte leggende: più
che la scarsità, è l’elusività dei documenti in nostro possesso a renderle, se
non legittime, almeno in parte giustificate. Che si parta da una ricostruzione
delle circostanze esterne alla sua nascita, o che invece si affrontino
direttamente il testo e la musica interrogandosi sulla loro sostanza e il loro
significato, Il flauto magico è un’opera pervasa di mistero, avvolta in
un’aura favolosa: e accettare questa condizione, senza specularci troppo sopra,
è l’unica via per entrare dentro il suo mondo. Tutti gli accadimenti scenici e
musicali che si svolgono nel Flauto magico seguono una dinamica
eminentemente teatrale, sganciata però da una logica drammatica coesa,
stringente e unitaria per principio. Se nelle opere ‘italiane’ Mozart aveva
potuto abbattere le barriere dei generi fino al loro intreccio e alla fusione,
facendo dei pezzi d’insieme il culmine dell’azione e della sintesi drammatica
il mezzo per raggiungere la massima tensione musicale, nel Flauto magico
non esistevano un terreno già coltivato su cui innestarsi né una tradizione su
cui intervenire. Semmai c’era un nuovo genere da fondare: quello della
«Teutsche Oper», ossia opera tedesca, titolo col quale Mozart registrò Die
Zauberflöte nel catalogo delle sue opere alla data del luglio 1791, quando
ne cominciò la strumentazione. Opera tedesca non significava automaticamente
fondazione di un genere bensì semplicemente scelta, oltre che di una lingua, di
una forma e di uno stile. La forma era quella del Singspiel, ossia di
un’azione non interamente musicale ma comprensiva di parti parlate e di canto,
lo stile quello della Zauberoper, l’opera di argomento tragico,
mescolanza di tragico e di comico, di ‘meraviglioso’ e di bonariamente
triviale, dove elementi fiabeschi intercalati a caratteri allegorici di più
svariata natura si esprimevano in un tono ora popolare ora alto, non di
commedia realistica ma di racconto fantastico, senza spazio né tempi reali.
LA TRAMA
Atto primo. In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio
montuoso, con un tempio sullo sfondo. Il principe Tamino, disarmato, è
inseguito da un serpente; sfinito e quasi sopraffatto, cade svenuto (“Zu Hülfe,
zu Hülfe”). Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente e, dopo
aver ammirato la bellezza del volto del giovane principe, si allontanano per
informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, Regina della
notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un
curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papageno, un uccellatore vagabondo
vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan (aria
“Der Vogelfänger bin ich ja”). Papageno conferma le supposizioni di Tamino, ma
è subito smascherato e punito per la sua menzogna dalle tre dame, che gli
chiudono la bocca con un lucchetto d’oro; poi le fanciulle mostrano al principe
il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte: il giovane se ne
innamora all’istante (aria “Dies Bildnis ist bezaubernd schön”). Con fragore di
tuono appare nel cielo Astrifiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è
stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla, promettendogliela
in sposa (recitativo e aria “O zitt’re nicht... Zum Leiden bin ich
auserkoren”). Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina, un
flauto d’oro dai poteri magici; liberato Papageno dal lucchetto, consegnano
anche a lui in dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Pamino
nell’impresa. Sala nel palazzo di Sarastro. Pamina, che ha tentato di fuggire
per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da
costui con la forza. Sopraggiunge Papageno, e Monostatos, spaventato dal suo
strano aspetto, fugge. Papageno rivela alla fanciulla di essere stato inviato
dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per
liberarla. I due, pieni di speranza, esprimono la loro fede nella forza
dell’amore (duetto “Bei Männern, welche Liebe fühlen”). Poi si allontanano. La
scena si muta in un boschetto. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi
a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene
impedito, la porta del tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un sacerdote
spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da
lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi. Rimasto solo,
Tamino rivolge il suo pensiero a Pamina: dunque ella vive? Sì, ella vive, gli
risponde magicamente un coro invisibile. Confortato, trae fuori il suo flauto e
suona: subito sbucano fuori animali selvaggi d’ogni specie per ascoltarlo con
gioia. Papageno risponde dall’interno col suo piccolo flauto: seguendo i suoni
dei rispettivi strumenti Tamino e Papageno, che scorta Pamina, si cercano a
vicenda senza tuttavia riuscire a incontrarsi. Il carillon magico di Papageno
costringe Monostatos e alcuni servi, che stavano per catturarlo insieme con la
fanciulla, a danzare e marciare come automi. Compare Sarastro con il suo
seguito: la giovane gli chiede perdono per la fuga, spiegandone i motivi; Sarastro
glielo concede di buon grado, ma rifiuta di lasciarla tornare presso la madre.
Tamino viene trascinato da Monostatos davanti a Sarastro: il principe e Pamina
si riconoscono al primo sguardo e si gettano l’uno nelle braccia dell’altra.
Sarastro inopinatamente ordina che Monostatos venga punito per avere insidiato
la fanciulla e fa condurre Tamino e Papageno al tempio dell’iniziazione. Il
coro ineggia alla divina saggezza di Sarastro.
Atto secondo. Bosco di palme. Sarastro chiede ai sacerdoti degli
iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che
gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti e di sposare Pamina:
la richiesta viene accolta e tutti invocano Iside e Osiride affinché donino
alla nuova coppia spirito di saggezza (aria con coro “O Isis und Osiris”).
Tamino viene condotto nell’atrio del tempio per essere sottoposto alla prima
prova: mantenere il silenzio qualunque cosa accada. Con lui è anche Papageno,
spaventato e alquanto recalcitrante: solo la velata promessa di ottenere
finalmente una compagna riesce in parte a convicerlo. Alla saldezza d’animo di
Tamino si oppone lo scetticismo di Papageno: i tentativi delle tre dame,
inviate dalla Regina della notte per costringerli a parlare, sono tuttavia
respinti e alla prima prova superata Monostatos si avvicina furtivamente a
Pamina addormentata: vorrebbe baciarla (aria “Alles fühlt der Liebe Freuden”),
ma è cacciato da Astrifiammante che, porgendo un pugnale alla figlia, le ordina
di vendicarla uccidendo Sarastro (aria “Der Hölle Rache”). Monostatos, non
visto, ha ascoltato tutto e minaccia di rivelare l’intrigo se Pamina non
l’amerà. Sopraggiunge Sarastro: dopo aver scacciato Monostatos, si rivolge
paternamente a Pamina e le spiega che solo l’amore, non la vendetta, conduce
alla felicità (aria “In diesen heil’gen Hallen”). Sala nel tempio. Tamino e
Papageno vengono invitati dai sacerdoti a rimanere ancora in silenzio. Papageno
però inizia a conversare con una vecchia che scompare, con fragore di tuono,
non appena egli le domanda quale sia il suo nome. Ricompaiono i tre fanciulli,
che recano, insieme con gli strumenti di Tamino e Papageno, una tavola
imbandita alla quale i due giovani potranno rifocillarsi prima di continuare la
prova. Mentre Papageno è felice di mangiare e bere, Tamino, triste, suona il
suo flauto. Sopraggiunge Pamina: alla sua gioia di rivedere l’amato, Tamino non
può rispondere, e tace. Disperata, Pamina crede di non essere più amata e
desidera la morte (aria “Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden”). Antro delle
piramidi. Sarastro esorta i due innamorati a pazientare, giacché altre prove li
attendono (terzetto “Soll ich dich, Teurer, nicht mehr sehn”). Al suono del suo
carillon, Papageno medita sulla sua solitudine: cosa darebbe per incontrare una
ragazza a cui piacere (aria “Ein Mädchen oder Weibchen”)! Riappare la vecchia,
che si rivela essere una bella e giovane Papagena, scomparendo però non appena
egli cerca di abbracciarla. Un giardino. Pamina, credendosi abbandonata da
Tamino, tenta di uccidersi, ma è salvata dai tre fanciulli, che la rassicurano
sui sentimenti dell’amato. Paesaggio montuoso. Tamino, scortato da due
armigeri, giunge davanti a un cancello al di là del quale si scorgono alte
fiamme e una cascata; lo attendono ora le prove supreme del fuoco e dell’acqua.
A Pamina, sopraggiunta nel frattempo, è consentito di accompagnarlo. Al suono
del flauto magico, le prove vengono superate. Nel giardino, Papageno si dispera
perché Papagena è scomparsa. I tre fanciulli gli suggeriscono di suonare il
carillon magico: la fanciulla riappare e lo abbraccia. Felici, i due già
progettano una stirpe di Papageni. Minacciosi, recando in mano nere fiaccole,
Monostatos, la Regina della notte e le tre dame tentano di avvicinarsi al
tempio per uccidere Sarastro e i suoi accoliti, ma vengono inghiottiti da un
terremoto. Subito tutta la scena viene avvolta dalla luce del sole. Sarastro e
i sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre («Die Strahlen der
Sonne»), mentre Tamino e Pamina vengono accolti nel regno della bellezza e
della saggezza.
Fonte primaria del Flauto magico è la raccolta Jinnistan ovvero
Raccolta di fiabe di fate e di spiriti edita da Christoph Martin Wieland
tra il 1786 e il 1789: in particolare la fiaba Lulu ovvero Il flauto magico
di August Jakob Liebeskind. Fonti secondarie del repertorio fiabesco sono
invece Oberon, re degli elfi di Karl Ludwig Giesecke e il Singspiel
Hûon e Amanda (1789) di Friederike Sophie Seyler. Per la tessitura morale
dei misteri iniziatici e per l’ethos illuministico del libretto, nonché
per l’ambientazione orientaleggiante ed egizia, alcuni motivi provengono dal
dramma eroico Thamos, re d’Egitto di Tobias Philipp von Gebler (già
musicato da Mozart anni addietro) e dal romanzo Séthos dell’abate
Terrasson; mentre il libro Misteri dell’Egitto del naturalista e massone
Ignaz von Born suggerì probabilmente qualche tratto della figura di Sarastro.
La consuetudine nata nell’Ottocento di considerare l’opera come una successione
di scene costruite sulla progressione verso un unico culmine drammatico, e
dunque sulla continuità dell’azione più che su coppie di contrasti, ha pesato a
lungo, e pesa tuttora, sul giudizio del libretto del Flauto magico:
perfino un uomo di teatro come Richard Strauss lo considerava confuso e
strampalato, riscattato solo dalla musica sublime di Mozart. Molti, fin
dall’inizio, ne hanno sottolineato l’incoerenza, come se l’opera avesse
cambiato linea strada facendo. Questa tesi non soltanto risulta insostenibile da
un punto di vista storico, ma è anche fuorviante rispetto alle premesse e ai
valori drammaturgici che ne stanno alla base.
Il ribaltamento delle situazioni, che poi avrebbe raggiunto una logica
drammatica più stringente nel Fidelio di Beethoven e nel Franco
cacciatore di Weber, era uno degli elementi fondamentali del Singspiel
e in particolare della Zauberoper; ne garantiva per così dire l’effetto
di sorpresa, in modo spesso repentino e inverosimile ma proprio perciò
teatralmente efficace. Gli ingredienti dell’intreccio fantastico, con inserti
comici e simbolismi talvolta oscuri, tali però da colpire l’attenzione in modo
diretto, trovavano la loro più attraente realizzazione negli effetti
spettacolari con cui si moltiplicavano le sorprese, poco curandosi della
verosimiglianza: improvvisi capovolgimenti di scena con conseguente spiegamento
di macchinari, travestimenti e salvataggi spericolati, oggetti magici,
interventi di animali e di mostri, di fate e di spiriti, ora malvagi ora
benigni, spesso in ambigua relazione. Era questo l’armamentario della Maschinen-Komödie,
che nella Vienna della fiabe del Settecento godeva di grande popolarità, forte
di un linguaggio figurativo elementare, prossimo alla tipologia della fiaba: la
cornice cui appartiene anche Il flauto magico ed entro cui sarebbe nata
la nuova ‘opera tedesca’. A spingere verso l’alto e a dare sostanza più
profonda a queste trasformazioni, che per risultare efficaci e avvincenti dal
lato teatrale dovevano essere improvvise e inattese, provvede la tematica
‘morale’ che si innesta sul canovaccio della fiaba: il rogo illuminato di
Sarastro e dei suoi sacerdoti coincide con un cammino di iniziazione. Non c’è
dubbio che Mozart e Schikaneder abbiano riversato qui le loro idee massoniche
di fratellanza e di solidarietà, facendo però dell’iniziazione un percorso
teatralmente articolato. Se già il tono solenne della presentazione di Sarastro
si identifica, anche nell’ascoltatore più ignaro dei riti massonici, con
l’affermazione di valori superiori, quasi sacri, il bene non è ancora un valore
acquisito: sarà il risultato di una conquista. Gli elementi di questa conquista
portano in primo piano alcune convinzioni di Mozart, collegate alle ragioni più
sostanziali e rituali della sua adesione agli ideali della massoneria; l’idea
che accanto alla sfera terrena dei sensi, rappresentata nell’opera da Papageno,
esista una sfera spirituale, di più completa bellezza: ed è lì che si realizza,
nell’aspirazione alla trascendenza, la conquista dell’amore. Questo messaggio,
non univoco ma piuttosto realizzato nella compresenza di più piani, non avrebbe
tuttavia valore se accanto alla sfera superiore della coppia ‘nobile’ di Tamino
e Pamina non continuasse a esistere anche quella inferiore, ‘plebea’, di
Papageno e Papagena: umana l’una quanto l’altra. Nel contemperare e collegare
questi valori l’opera ha una progressione tutt’altro che astrusa e
inverosimile. Le simmetrie molto evidenti di cui l’opera è costellata, dal
numero tre simbolo massonico al sette della figura piramidale retta dalla
specularità di luce e tenebre, ricostruiscono un’unità formale interna
all’opera, che fa della coerenza di piani il perno attorno a cui ruota il
divenire delle trasformazioni.
Di solito si annette scarsa attenzione, in sede sia critica sia esecutiva,
alla funzione dei dialoghi parlati nell’economia dell’opera. In teatro le parti
parlate vengono abbondantemente tagliate, alterando così il rapporto con la
musica. Se tutto ciò è ormai probabilmente irreversibile, bisogna tuttavia
tenerne conto quando si giudichi la tenuta drammatica del testo nel suo
complesso. È in quegli spazi che si creano i presupposti e gli svolgimenti
dell’azione, lavorando perché essi avvengano. Il clima di attesa che si produce
quando la musica tace è la premessa affinché la tensione drammatica si
intensifichi, sfociando poi nel canto. Punto culminante di tutto questo
intreccio di motivi diversi è il finale del primo atto, che se da un lato
riassume tutto ciò che fino a quel momento era stato posto in campo, dall’altro
introduce verso altri significati. A mutar direzione non è solo il paesaggio
esterno, ma soprattutto quello interiore, psicologico. La musica con cui i tre
fanciulli, accompagnando Tamino davanti alle porte dei tre templi, richiamano
alla fermezza, alla temperanza e al silenzio, ha il tono eloquente di un invito
rassicurante, che prefigura il clima caldo, umano del regno luminoso di
Sarastro, e nello stesso tempo contiene un’emozione arcana, un dubbio
angoscioso che reca l’eco oscura della severità, della magnificenza e perfino
del dolore della Regina della notte. Di colpo siamo introdotti in un’altra
dimensione. L’intensificazione drammatica è ottenuta proprio abolendo
l’alternanza fra parlato e canto, dando alla scena della rivelazione la forma
di un recitativo accompagnato incalzante, che si fa dialogo serrato
nell’incontro di Tamino con il sacerdote venuto a istruirlo sulla missione che
l’attende. E che qui stia per accadere qualcosa di decisivo lo dice proprio la
scelta di una forma aperta continua, intensamente drammatica, che innalza la
sorpresa a effetto puramente musicale, al posto delle forme chiuse – arie,
duetti e insiemi – usate in precedenza. Il fatto musicale diviene così
individuazione di una dimensione formale e spirituale nuova anche sotto il profilo
teatrale.
Se il finale del primo atto rappresenta la rivelazione dell’esistenza
dell’amore nella coscienza individuale, le prove del fuoco e dell’acqua
costituiscono l’affermazione di una legge universale, trascendente, che
riguarda tutta l’umanità in tutto ciò che vi è in essa di divinamente sacro: il
compimento dell’amore come bellezza e saggezza nel mondo degli uomini. È ciò
che chiaramente esprime, al vertice di tutta l’opera, la scena degli armigeri.
Qui Mozart utilizza un procedimento simmetrico rispetto al finale del primo
atto: non un canto interiorizzato dell’eroe, che si spoglia delle sue certezze
per prepararsi esitante a una nuova rivelazione, ma una verità che si rivela
con la forza di un imperativo categorico, la cui certezza consentirà alla
coppia eletta di superare le prove supreme. Il fatto che Mozart abbia
introdotto in questa scena un corale di Bach nel duetto degli armigeri che
leggono l’iscrizione misteriosa, e ne abbia poi elaborato la citazione su
accompagnamento contrappuntistico nella marcia della purificazione, costituisce
un superamento e allo stesso tempo un inveramento della convenzione teatrale in
legge musicale assoluta: qui è la musica stessa a diventare protagonista della
scena, con gesto che addita la meta del divino. Quando il fugato si arresta
bruscamente, comprendiamo di essere giunti, dopo un cammino di lunga attesa,
alle soglie dell’eterno. Componendo l’ouverture per ultima, due giorni prima
che la partitura iniziata sei mesi avanti venisse rappresentata per la prima volta
con straordinario successo, Mozart ribadì i diversi piani dell’opera e ne
indicò musicalmente gli sviluppi. Il triplice accordo che risuona all’inizio
annuncia solennemente il regno di Sarastro, ma è anche il simbolo di un’attesa
e di una trasformazione che l’Adagio misteriosamente scandisce; la dinamica in
cui si svolgerà l’azione è prefigurata dal fugato in cui si slancia l’Allegro,
un segnale che riassume in sé l’altezza di pensiero dei motivi morali e insieme
la vivace, spensierata immediatezza teatrale della favola: da ultimo, la spinta
verso una rotazione completa si placa e si compie nel corale degli armigeri
sulla soglia del tempio, rivelandosi musica senza tempo né spazio, governata da
leggi assolute.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Folto il catalogo audio/video del capolavoro mozartiano (periamo
abbondantemente le 130 edizioni, se guardiamo quelle ufficiali) e quindi scelta
non facile riguardante i consigli di ascolto sui quali trovare la mia edizione preferita.
Io voglio innanzitutto ricordare queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Arturo Toscanini nel 1937 (H. Roswaenge, W.
Domgraf-Fassbaender, J. Osvath, J. Novotna, A. Kipnis);
- Edizione audio diretta da Thomas Beecham nel 1937 (H. Roswaenge, G.
Husch, E. Berger, T. Lemnitz, W. Strienz);
- Edizione audio diretta da Ferenc Fricsay nel 1955 (E. Haeflinger, D.
Fischer-Dieskau, R. Streich, M. Stader, J. Greindl);
- Edizione audio diretta da Karl Bohm nel 1964 (F. Wunderlich, D.
Fischer-Dieskau, R. Peters, E. Lear, F. Crass);
- Edizione audio diretta da Otto Klemperer nel 1964 (N. Gedda, W. Berry,
L. Popp, G. Janowitz, G. Frick);
- Edizione audio diretta da Georg Solti nel 1969 (S. Burrows, H. Prey, C.
Deutekom, P. Lorengar, M. Talvela);
- Edizione video diretta da Colin Davis nel 2003 (W. Hartmann, S. Keenlyside,
D. Damrau, D. Roschmann, F.-J. Selig);
- Edizione audio diretta da Claudio Abbado nel 2005 (C. Strehl, H.
Muller-Brachmann, E. Miklosa, D. Roschmann, R. Pape).
L’edizione diretta da Arturo Toscanini ha alcuni pregi e tanti difetti ma
la ritengo comunque interessante perché ci porta a conoscenza della prima
registrazione integrale assoluta di quest’opera. Siamo nel 1937 a Salisburgo e
il direttore italiano dirige Mozart “alla sua maniera”: ci sono parecchi suoni
aspri, i tempi passano dagli stacchi veloci fino a momenti di una lentezza
preponderante. Però i Wiener Philharmoniker suonano proprio bene. Il cast è
discreto e vede il buon Tamino di Roswaenge al quale si affiancano la Novotna
(buona Pamina) e Kipnis (buon Sarastro). Scialbo il Papageno di
Domgraf-Fassbaender e inascoltabile la Regina della Osvath.
Sicuramente più interessante è l’edizione diretta da Sir Thomas Beecham
sempre nel 1937 (in studio però). Il direttore inglese dà una interpretazione
magistrale del capolavoro mozartiano: la sua concertazione è, allo stesso
tempo, leggera ma anche attraente e piena di energia. Subiscono in maniera
benefica di questa linfa vitale che permea la concertazione quasi tutti i
cantanti: è ottimo Roswaenge come Tamino (molto al di sopra della registrazione
salisburghese) così come Husch ci propone un esuberante Papageno. Interessante
anche la Pamina della Lemnitz e maestoso (ma con un canto allo stesso tempo
morbido) Strienza nel ruolo di Sarastro. Buona la Berger come Regina della
Notte anche se il suo timbro non mi convince molto.
L’edizione diretta da Fricsay la trovo buona per vari motivi e meno buona per altri. Innanzitutto la direzione è discontinua perché alterna momenti molto belli ad altri (ritmicamente ma non solo) appena convenzionali. Il cast vede primeggiare Haeflinger (Tamino) e la Stader (Pamina) anche se se la cava piuttosto bene il giovane Fischer-Dieskau come Papageno. La Regina della Notte della Streich, pur cantando tutte le note scritte da Mozart, non ha quel paso vocale che la parte richiede. Appena sufficiente Greindl come Sarastro.
L’edizione diretta da Karl Bohm nel 1964 è molto bella. Il direttore austriaco
dirige uno dei suoi migliori Mozart, l’orchestra è molto morbida e incanta in
tanti punti. Wunderlich è un Tamino da manuale e dal bellissimo timbro mentre
il Papageno di Fischer-Dieskau migliora, e di molto, rispetto alla
registrazione diretta da Fricsay. Brutta, a mio avviso, la Regina della Notte
impersonata dalla Peters, buona la Pamina della Lear così come il Sarastro di
Crass.
L’edizione di Solti del 1969 è sicuramente diretta con gusto ma non mi soddisfa
a pieno. Buoni Burrows e Prey mentre non è, a mio avviso, in parte la Deutekom
nei panni della Regina della Notte (se dicessi che canta male direi una bugia…
ma la sua voce non è per questo personaggio). Discreta la Pamina della Lorengar
e una garanzia il Sarastro di Talvela.
L’edizione video registrata al Covent Garden di Londra vede una bella
direzione di Colin Davis (in parte la si può considerare quasi un testamento
della sua interpretazione mozartiana) anche se lo spettacolo non è molto
accattivante. Punta di diamante dell’intero cast è la stratosferica Regina
della Notte di Diana Damrau. Il resto dei cantanti in scena non brilla particolarmente
anche se tutta la recita corre via limpida.
L’ultima edizione che ho preso in considerazione vede innanzitutto la
direzione di Claudio Abbado. Il suo Mozart è sempre molto particolare e qui
ripercorre un po’ i risultati ottenuti con la trilogia di Da Ponte con la quale
ha spopolato a Ferrara negli anni ’90. Il cast è complessivamente discreto
senza punte particolari in alto… ma neanche in basso.
Avrete dunque capito che l’edizione che mi sento di consigliare è quella
diretta da Otto Klemperer. A mio avviso la sua direzione, rispetto a quelle che
ho preso in considerazione, è la più bella. Ottiene sonorità splendide dalla
Philharmonia Orchestra: già dall’ouverture si capisce quale è la sua idea dell’opera
e soprattutto la sezione dei violini lo segue a menadito. Tutta la sua
concertazione è un capolavoro… qualcuno la riterrà un po’ agee ma a me piace
moltissimo. Gedda forse non è il miglior Tamino ma qui mi piace così come Berry
è un ottimo Papageno (supportato da un Klemperer che fa suonare l’orchestra
quasi come se fossimo in un circo “di altissimo livello”). La giovane Popp
canta in maniera ammirevole la Regina della Notte e si staglia tra le massime
interpreti di questo ruolo “monstre”. Frick è il miglior Sarastro di sempre e
le sue arie sono cantate in maniera mirabile. Ottima anche la Pamina della
Janowitz (ero un po’ scettico prima di ascoltarla… ma alla fine mi ha
incantato). Quest’edizione ha inoltre il pregio di avere dei cantanti
comprimari che definirli tali è una mancanza di rispetto. Come non ricordare
Elisabeth Schwarkopf e Christa Ludwig (Prima e Seconda dama), per esempio, così
come il Monostatos di Gerhard Unger. Insomma… per me questo è il miglior Flauto
magico attualmente in circolazione.
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Klemperer:
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