ALMANACCO OPERISTICO - 10 settembre 2020 - BENVENUTO CELLINI di H. Berlioz
BENVENUTO CELLINI
Opéra-comique in
tre atti e quattro quadri di Léon de Wailly e Auguste Barbier
Musica di Hector
Berlioz
Prima
rappresentazione: Parigi, Opéra, 10 settembre 1838
«In agosto avremo un’opera del signor Berlioz. Sarà trattato bene dalla
stampa perché i lupi non si mangiano tra loro, e voi sapete che egli tiene lo
scettro della critica ai ‘Débats’ [il ‘Journal des Débats’, di cui Berlioz era
critico musicale dal 1834]. Da quelle colonne lancia anatemi contro Auber e
contro di me, le sue due bestie nere. Auber tuttavia è in ottimi rapporti con
lui in questo momento: era il suo turno di passare all’Opéra, dopo Halévy, e
l’ha ceduto a Berlioz. È un colpo da maestro poiché farà risaltare ancor meglio
la sua opera dopo l’inevitabile caduta della precedente». Queste parole
alquanto velenose di Adolphe Adam, fecondo autore di opéras-comiques, la
cui fama sarebbe tuttavia rimasta legata a un balletto come Giselle,
definiscono assai bene i contorni dell’ambiente non certo idilliaco entro il
quale nacque la prima opera del trentunenne Berlioz, infatuato dalla lettura
della Vita del fiorentino «scritta da lui medesimo». Destinata
all’insuccesso, fu accolta con un fiasco totale, come l’autore stesso registrò:
«Si tributò all’ouverture un successo esagerato e si fischiò tutto il resto con
un accordo e un’energia ammirevoli». Berlioz era consapevole che il suo cammino
teatrale sarebbe stato irto di ostacoli: «Non osano venirmi a fischiare in una
sala da concerto ma non mancano mai di farlo in un teatro vasto come l’Opéra.
Questo succederà sempre». Sebbene trovasse in seguito un ammiratore
incondizionato in Liszt, che lo rappresentò a Weimar nel 1852 (e fu in
quell’occasione che Berlioz modificò l’opera ampliandola da due a tre atti), Benvenuto
Cellini non divenne mai popolare, trovando solo in questi ultimi anni un
suo posto nel repertorio, come si addice a un lavoro sperimentale che è allo
stesso tempo documento di un’epoca e incunabolo della modernità.
LA TRAMA
Atto primo. La casa di messer Giacomo Balducci. È il crepuscolo
del lunedì prima della quaresima. Il tesoriere del papa, Balducci, si lamenta
con sua figlia Teresa perché Cellini ha ricevuto dal santo padre l’incarico di
creare una statua in bronzo raffigurante Perseo che stringe la testa mozzata
della Medusa. Egli avrebbe preferito che l’incarico fosse toccato a Fieramosca,
scultore famoso, cui vorrebbe dare in sposa la figlia. Ma Teresa è segretamente
innamorata di Cellini: preoccupata, si chiede se i diritti dell’amore debbono
essere più forti dei doveri verso i genitori (cavatina “Entre l’amour et le
devoir”). Entra Cellini. Durante il loro duetto (“O Teresa, vous que j’aime
plus que ma vie”), entra non visto Fieramosca e sente le parole che Cellini
rivolge a Teresa: le propone di fuggire a Firenze durante i festeggiamenti del
carnevale. Perché ella lo possa riconoscere, Cellini si maschererà da frate con
un saio bianco. Si sente Balducci tornare. Mentre Cellini riesce a fuggire,
Fieramosca si nasconde nella stanza da letto di Teresa, dove viene scoperto:
con sorpresa e indignazione, Balducci e Teresa chiamano a raccolta i vicini
perché vengano a prelevare l’intruso e gli facciano fare un bel bagno nella
fontana.
Atto secondo. Piazza Colonna, la sera del martedì grasso. Cellini,
prima di essere raggiunto dai suoi amici artisti di Firenze nella piazza,
medita sull’amore e sulla gloria (romanza “La gloire était ma seule idole”).
Poi tutti insieme improvvisano una canzone, che tesse le lodi di tutti gli
artisti orafi della Toscana. Entra Ascanio, per informare Cellini che il papa,
pagando l’artista, pretende che la statua sia pronta per l’indomani. Intanto
Fieramosca ha ordito un piano per sventare la fuga del rivale: indosserà il
saio bianco come Cellini, in questo modo Teresa rimarrà completamente
frastornata (“Ah, qui purrait me résister?”). Ha inizio il carnevale. Mentre
gli attori invitano il pubblico ad assistere alla loro commedia (una pantomima
architettata da Cellini, nella quale è facilmente riconoscibile la caricatura
di Balducci), approfittando del frastuono generale Teresa cerca Cellini, ma si
trova di fronte due frati bianchi che dicono entrambi di essere Cellini. Ne
nasce un tafferuglio, nel corso del quale Cellini uccide involontariamente un
amico di Fieramosca, credendolo il rivale. La folla lo circonda, ma proprio
mentre le guardie stanno per portarlo via si ode un colpo di cannone da Castel
Sant’Angelo. È mezzanotte: il carnevale è finito, inizia la quaresima, tutto il
tripudio deve immediatamente cessare. Approfittando dell’improvviso sconcerto
generale, Cellini fugge e al suo posto viene arrestato Fieramosca.
Atto terzo. Lo studio di Cellini, il mercoledì delle ceneri, di
prima mattina. Ascanio ha trascinato Teresa fuori del tumulto della notte
precedente e l’ha portata nello studio di Cellini. Mentre lo aspettano, sentono
passare in strada la processione del mercoledì delle ceneri e si uniscono alla
preghiera. Entra trafelato Cellini, che racconta come il travestimento gli
abbia salvato la vita: ora potrà finalmente fuggire con Teresa a Firenze, e
poco gli importa dell’impegno preso con il papa e che Ascanio gli ricorda. I
due innamorati cantano esaltati la loro felicità (“Quand des sommets de la
montagne”). Entrano Balducci e Fieramosca, accompagnati dal cardinale; ognuno
espone le sue ragioni, ma su tutto preme una decisione: il papa vuole
assolutamente la sua statua. Di fronte al gesto di Cellini, che afferra il
martello e minaccia di sbriciolare lo stampo già pronto, tutti sono presi dal
terrore. Si cerca una soluzione. Il papa è disposto a concedere il suo perdono
e la mano di Teresa a Cellini a condizione che la statua sia subito terminata:
altrimenti Cellini verrà impiccato. La fonderia di Cellini al Colosseo, la sera
dello stesso giorno. Mentre gli artigiani preparano la fusione della statua,
Cellini medita sulla sua sorte di artista e invidia una vita spensierata,
leggera, come quella del pastore sulle montagne (“Sur les mont le plus
sauvages”). Giunge il papa per essere presente alla fusione. Gli operai urlano
e chiedono ancora metallo: quello di cui dispongono non è sufficiente a
riempire lo stampo. Disperato, Cellini afferra tutti gli oggetti da lui creati
fino a quel momento e li sacrifica al suo capolavoro, gettandoli nella fornace.
Una terriblie esplosione annuncia l’avvenuta fusione e la statua si svela in
tutto il suo splendore. Cellini ha vinto; ma nel suo trionfo c’è anche un’ombra
di tristezza.
Benvenuto Cellini non è soltanto il primo tentativo in campo
teatrale di un giovane musicista di grande talento ma è anche una sorta di
ritratto dell’artista da giovane, se non della giovinezza in quanto tale. Ed è
chiaro che l’artista in questione è Berlioz stesso, che si identifica con
Cellini mutuandone non solo lo spirito (beffardo e intraprendente, isolato e
pure bisognoso di riconoscimenti) ma anche gli ideali (artista vittorioso in un
mondo di furbi e di imbelli). La sfida di Cellini, portata a termine nelle
condizioni più inverosimili, è la sfida di Berlioz: riuscire a compiere il
capolavoro anche a costo di sacrificare quanto fino a quel momento era riuscito
a creare. E per l’autore, a tacer d’altro, della Sinfonia fantastica,
non era ambizione da poco.
L’opera vive di questa frenesia fin dalla straordinaria ouverture, che
costituisce l’anello di congiunzione tra il territorio sinfonico, già
ampiamente esplorato e seminato, e quello teatrale, ancor tutto da scoprire. Ed
è proprio nella scoperta di questo mondo che l’opera si avventura, in modo
irriflesso e scatenato, quasi a voler conquistare il campo sbaragliando tutti i
nemici, veri o presunti, senza troppo preoccuparsi di riuscire anche
controllata e decadente. Ma di fronte a pagine come quelle che compongono la
scena più famosa dell’opera, il carnevale che conclude il secondo atto, si ha
la netta sensazione che con le sue fantasmagoriche bizzarrie Berlioz fosse
consapevole non soltanto della sua sbalorditiva bravura di strumentatore ma
anche della sua capacità di aprire strade nuove, di fatto saltando a pié pari
tutto l’Ottocento: giacché qui il primo esempio di ‘teatro nel teatro’ di cui
si abbia memoria si accoppia a soluzioni timbriche assolutamente novecentesche,
in tutto degne di uno Stravinskij.
Certo, la partitura convince più nelle scene di massa, massimamente in
quella finale della fusione, dove la musica letteralmente esplode mandando in
frantumi ogni convenzione, che negli episodi lirici e solistici, peraltro
intrisi di nobile effusione patetica; ed elettrizza nei momenti caricaturali e
in quelli d’azione tanto quanto sembra mordere il freno quando si espongono
ideali artistici contrapposti o si indugia in oasi di contemplazione, in
episodi collaterali di gusto un poco accademico. Ma anche questo carattere è
coerente con le intenzioni di Berlioz, volte per così dire a occupare
militarmente il campo cimentandosi in tutti gli aspetti dell’opera, anche in
quelli più legati alla tradizione. Per questo motivo non ha molto senso, in un
lavoro sicuramente eterogeneo e discontinuo, separare le pagine più profetiche
e innovatrici da quelle di ordinaria amministrazione: giacché le une sono in
funzione delle altre, al fine di far risaltare per contrasto il nuovo dal
vecchio. L’ironia che Berlioz riversa sull’avaro tesoriere del papa e sul
concorrente Fieramosca si esprime necessariamente in forme accademiche o
antiquate; tanto quanto l’esaltazione del protagonista e dei suoi giovani
seguaci non conosce limiti nell’affermare le ragioni di una libertà
incondizionata. Solo alla fine, quasi in un ripiegamento interiore prima
dell’ultima sfida, dopo tanti eccessi ed ebbrezze, Berlioz sembra stendere sul
suo eroe un velo di tristezza e interrogarsi egli stesso sul senso, se non
dell’arte e della sua missione, almeno della vita. Ed è come se d’improvviso si
spegnesse anche la spensieratezza della gioventù e con essa si facesse strada
la coscienza dell’inarrestabile scorrere del tempo.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
La discografia ufficiale dell’opera di Berlioz è abbastanza numerosa,
visto che stiamo pur sempre parlando di un ottimo lavoro ma non certo di un
capolavoro. Sono una ventina le edizioni ufficiali oltre a quelle che non hanno
ottenuto il vaglio della ufficialità.
Io mi sento comunque di ricordare queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Colin Davis nel 1972 (BBC – N. Gedda, C. Eda-Pierre,
J. Bastin, R. Massard);
- Edizione video diretta da Vladimir Vedoseyev nel 1987 (Firenze – C.
Merritt, C. Gadia, J. Bastin, V. Braun);
- Edizione video diretta da John Eliot Gardiner nel 2019 (Versailles – M.
Spyres, S. Burgos, M. Muraro, L. Lhote).
L’edizione registrata al Maggio Musicale Fiorentino del 1987 ha una
direzione sicuramente pregevole di Fedoseyev che però a mio parere non
raggiunge l’acume e la profondità di altri direttori (opera questa che è stata
diretta più volte anche da un altro direttore russo, Valeri Gergiev, con gli
stessi risultati). Il cast è sicuramente interessante e vede un buonissimo
Chris Merritt nel ruolo del protagonista.
La recente edizione in forma di concerto diretta da Gardiner è
musicalmente molto interessante. Il direttore inglese di avvale dell’Orchestre
Révolutionnaire et Romantique oltre che l’ottimo Monteverdi Choir e il cast è
capitanato da un bravissimo Michael Spyres. Però, a mio giudizio, l’approccio
di Gardiner non è azzeccato al 100% come per Les Troyens e rimane,
seppur di ottima fattura, al di sotto rispetto all’edizione che io consiglio.
A mio avviso la più bella edizione (ed è sempre un parere personale) è
quella diretta da Colin Davis con Nicolai Gedda bravissimo Cellini. Tutti gli
interpreti di contorno sono azzeccati ma su tutti primeggia l’interpretazione
del direttore inglese che secondo me segna, in questa edizione, la sua migliore
prestazione tra le opere scritte da Hector Berlioz.
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Davis:
Commenti
Posta un commento