ALMANACCO OPERISTICO - 6 settembre 2020 - LA CLEMENZA DI TITO di W. A. Mozart
LA CLEMENZA DI TITO
Dramma serio per
musica in due atti KV 621 di Caterino Mazzolà, da Metastasio
Musica di Wolfgang
Amadeus Mozart
Prima
rappresentazione: Praga, Teatro Nazionale, 6 settembre 1791
Nell’ultimo anno della sua vita, Mozart ricevette un’importante
commissione originariamente destinata a Salieri. In occasione dei
festeggiamenti per l’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore Leopoldo II,
il 20 luglio 1791, i rappresentanti degli stati boemi firmarono con
l’impresario Guardasoni un contratto per un’opera celebrativa dell’avvenimento.
Sulla base di questa data, sappiamo che Mozart, all’epoca a buon punto della
composizione delFlauto magico, poté cominciare il lavoro quasi a ridosso della
prima rappresentazione, prevista per il 6 settembre. Per il titolo del dramma
la scelta cadde su uno dei più celebrati testi mestastasiani, scritto nel 1734
sempre per una festività della corte di Vienna (all’epoca il sovrano cui si
alludeva con il personaggio di Tito era l’imperatore Carlo VI, padre di Maria
Teresa).
LA TRAMA
Atto primo. Vitellia, figlia del deposto predecessore di Tito
Vespasiano, progetta di vendicarsi contro l’imperatore (che pure l’affascina)
armando contro di lui la mano del proprio spasimante Sesto che, se l’ama
veramente, dovrà dimostrarlo uccidendo il monarca (“Come ti piace, imponi”).
Giunge Annio, annunciando che le progettate nozze tra Tito e Berenice sono
rimandate. Vitellia, rincuorata, chiede a Sesto di sospendere il piano omicida
(“Deh, se piacer mi vuoi”). Sesto promette intanto all’amico Annio la mano di
sua sorella Servilia (“Deh, prendi un dolce amplesso”). Nel Foro romano si
raduna il popolo con il senato e i legati delle province dell’impero (marcia e
coro “Serbate, oh dèi custodi”). Tito, congedato il popolo, rivela a Sesto che
intende sposare Servilia, elevando così l’amico alla più alta dignità (“Del più
sublime soglio”). Ad Annio non resta che avvisare Servilia del triste destino
del loro amore (“Ah, perdona al primo affetto”). Nella dimora imperiale sul colle
Palatino, Tito riceve la visita di Servilia, che gli rivela il proprio legame
con Annio: senza esitazione, l’imperatore decide di non imporre la propria
volontà alla ragazza, e ne loda la sincerità (“Ah, se fosse intorno al trono”).
Vitellia, ignara dell’ultima decisione di Tito, convince Sesto a eseguire
finalmente la vendetta (“Parto: ma tu, ben mio”). Questi ha appena lasciato la
scena, quando Publio annuncia a Vitellia che Tito l’ha chiesta in sposa
(“Vengo... aspettate... Sesto”). Intanto, presso il Campidoglio, Sesto è
lacerato dal rimorso per l’azione intrapresa. Ma è troppo tardi ormai: il
Campidoglio è già avvolto dalle fiamme e infuria un tumulto armato, secondo gli
ordini da lui impartiti (“Oh dèi, che smania è questa”, “Deh conservate, oh dèi”).
Quando Vitellia, che lo cerca disperata, riuscirà a trovare Sesto, questi avrà
già accoltellato Tito.
Atto secondo. L’imperatore però non è morto. Sesto ha colpito un
altro al suo posto. Ad Annio, che gli porta questa notizia, Sesto rivela di
essere l’autore della congiura. L’amico lo esorta a non confessare, ma
piuttosto a espiare il delitto con «replicate prove di fedeltà» all’imperatore
(“Torna di Tito a lato”). Ma Sesto è stato ugualmente scoperto come autore
della congiura: Publio giunge con la scorta armata per arrestarlo e condurlo
davanti al senato. Nell’addio a Vitellia si agitano i presentimenti di morte di
lui e la paura di lei di venire coinvolta nel giudizio (“Se al volto mai ti
senti”). L’imperatore fa il suo ingresso nella sala delle pubbliche udienze,
attorniato dai patrizi, dai pretoriani e dal popolo (“Ah, grazie si rendano”).
A Tito, impaziente di sapere quale fato il senato abbia riservato a Sesto e
incredulo di fronte alle accuse mosse all’amico, Publio fa presente come
qualche dubbio sull’infedeltà umana possa essere ragionevole (“Tardi
s’avvede”). Il senato ha accertato la colpevolezza di Sesto e l’ha condannato
«alle fiere». Al decreto manca solo la firma dell’imperatore. Annio chiede
pietà per il futuro cognato (“Tu fosti tradito”), mentre Tito è dibattuto fra
atroci dubbi sul da farsi (“Che orror, che tradimento”). Decide allora di
convocare Sesto (“Quello di Tito è il volto”) e, con grande dolcezza amicale,
cerca di farsi rivelare i motivi del suo gesto. Non ne ottiene tuttavia che un
desolato silenzio cui Sesto è costretto suo malgrado per difendere Vitellia:
prima di avviarsi al supplizio manifesta a Tito tutta l’angoscia del rimorso
(“Deh, per questo istante solo”). L’imperatore, tuttavia, ha deciso di non
firmare la condanna, tenendo così fede al suo ideale di sempre, la clemenza
(“Se all’impero, amici dèi”). Publio crede che Sesto sia destinato alle fiere,
mentre Vitellia teme di essere stata scoperta. Nell’incertezza di questa
situazione giunge Servilia a chiedere a Vitellia di intercedere per il fratello
(“S’altro che lagrime”). Sconvolta dagli eventi, Vitellia prende una decisione
imprevista: confesserà la sua colpevolezza, tentando così di salvare Sesto,
benché il gesto le costi la rinuncia al trono imperiale (“Ecco il punto, o
Vitellia... Non più di fiori”). Mentre si sta preparando il supplizio, Tito
entra in scena accompagnato dal consueto corteo (“Che del Ciel, che degli
dèi”). Sta per rivelare il destino scelto per Sesto quando Vitellia
s’inginocchia ai suoi piedi confessando la propria colpa. Pur turbato dalla
continua scoperta di nuovi nemici della sua persona, ancora una volta Tito
decide di elargire a tutti il proprio generoso perdono (“Tu, è ver, m’assolvi
Augusto”).
A quasi sessant’anni dalla sua nascita, il libretto di Metastasio non
venne assunto sic et simpliciter, ma fu affidato alle cura di Caterino
Mazzolà, poeta di corte dell’Elettore di Sassonia. Questi operò, senza dubbio
d’intesa con il compositore, in modo che il dramma venisse «ridotto a vera
opera», come recita l’annotazione che Mozart appose sul catalogo delle sue
opere in data 5 settembre 1791, alla vigilia dell’importante allestimento: sia
Mozart, sia il Gluck della riforma, professavano un classicismo in teatro e in
musica ben diverso da quello a suo tempo divulgato in tutta Europa da
Metastasio. I tempi gloriosi dell’opera seria erano inequivocabilmente
trascorsi, e un testo appartenente a quel genere, per quanto splendido,
necessitava di radicali ‘restauri’ per poter venire ancora presentato al pubblico.
Anche a costo di smarrire, nella riscrittura, l’efficacia di luoghi giustamente
famosi, come il recitativo di Tito (III,7) già elogiato da Voltaire, qui
ampiamente mutilato, oppure dell’aria “Se mai senti spirarti sul volto”, tanto
importante nella Clemenza di Tito di Gluck, ridotta a un terzetto che
assicura più fludità all’azione scenica, ma attenua il valore poetico e
drammatico dei versi e l’intensità della situazione. Buona parte del congegno
drammatico della Clemenza mozartiana si basa sugli ensembles,
assenti in Metastasio e introdotti da Mazzolà come un mezzo occorrente a farne
un testo per musica più confacente ai tempi. In particolare nel terzetto
“Vengo... aspettate... Sesto”, dal sofisticato effetto di ‘straniamento’
ottenuto facendo commentare lo smarrimento di Vitellia dagli altri due
personaggi, Publio e Annio, che si esprimono in perfetto linguaggio da opera
buffa, esaltando per contrasto l’angoscia della situazione, dipinta dagli
archi, lanciati in disegni e tremoli di grande concitazione (Vitellia ha appena
saputo di essere stata designata imperatrice, ma Sesto è già partito per
uccidere Tito). Estremamente efficace, nella presentazione di sentimenti
diversi in corrispondenza di una congiuntura eccezionale, è anche il finale
primo, significativamente denominato «quintetto con coro». Comprendendo le
ultime quattro scene del primo atto, il concertato viene costruito attraverso
il progressivo convenire di tutti i personaggi tranne Tito (del quale, proprio
a questo punto del dramma, viene annunziato l’assassinio). L’evento viene così
commentato da tutto il cast, da ciascuno secondo il proprio punto di
vista, mentre l’orchestra assicura il collegamento tra le diverse entrate dei
personaggi e, con un motivo in ‘ostinato’, sottolinea l’atmosfera di terrore in
cui si svolgono i drammatici eventi. La situazione si presenta distinta
musicalmente su due piani: da un lato i cinque solisti sul proscenio, in balìa
del disorientamento più totale, sullo sfondo invece il coro con le sue
inquietanti esclamazioni, ulteriore turbamento per i personaggi che le odono
indistintamente («Le grida, ahimè! ch’io sento / Mi fan gelar d’orror»), mentre
si scorge in lontananza il Campidoglio devastato dalle fiamme. La natura corale
di tutto il quintetto emerge soprattutto dopo l’unica reale cesura del brano,
all’altezza di quell’Andante in cui culmina tutto il pezzo, in corrispondenza
della notizia della morte dell’imperatore. Il ritmo drammatico rallenta
improvvisamente in contrasto con la concitazione dell’Allegro precedente, per
mantenersi sospeso sino al calare del sipario, quando l’atto si spegne in
un’aura di inquietante mistero.
Concluso dunque con questo taglio moderno il primo atto, l’opera riprende
con un recitativo secco, che già dal secondo verso rivela come Tito sia ancora
in vita. Scelta drammatica di indubbia efficacia per chi, come i personaggi e
gli spettatori con loro, aveva terminato l’atto precedente con la convinzione
di una tragedia già consumata. Tito è ancora una volta assente e appare solo
alla quarta scena, che lo presenta attorniato da patrizi, pretoriani e popolo
nella sala delle udienze. L’ingresso dell’imperatore è salutato da un singolare
coro, la cui dolcezza pare intrisa di semplicità popolaresca e come di intenso
sentimento religioso. Il secondo atto riserva al personaggio di Sesto molte
occasioni di splendore drammatico/musicale. In particolare in due numeri
successivi: il terzetto “Quello di Tito è il volto” e l’aria-rondò “Deh, per
questo istante solo”. In essi rifulge al meglio l’inventiva melodica di Mozart:
così avviene nella seconda sezione (Allegro) del terzetto, nonché per tutta la
durata dell’aria. In entrambi i testi viene trattato un unico tema, quello di
un’angoscia profonda come la morte: il desiderio di Sesto di morire piuttosto
di continuare a dibattersi in tanto turbamento morale. Se però la frase del
terzetto «chi more / Non può di più penar» ottiene una prevedibile, intensa
intonazione del tutto consona al suo significato, un’affermazione analoga
nell’aria, «Tanto affanno soffre un core, / Né si more di dolor?» riceve una
veste musicale sconcertante. La melodia da rondò di Sesto fa la sua comparsa da
un ‘altrove’ di siderale lontananza, come una voce di quasi metafisica
gratuità, estranea a ogni dolore, che pare risolto in un gioco di innocenza
primigenia. Un ritorno alle origini vicinissimo a certe atmosfere del Flauto
magico e ad altre melodie del Mozart estremo. La cifra dell’ultimo Mozart
si insinua anche nel fascino di altre melodie: come quelle del duetto “Ah,
perdona al primo affetto”, che paiono concepite per il timbro vellutato del
clarinetto, rappresentazioni evanescenti eppure così intense della nostalgia di
un tempo dell’innocenza, fantasma edenico di una felicità umana carissimo alla
poetica del compositore. Si noti en passant come i ruoli di Annio e
Servilia siano certamente secondari nell’economia del dramma: nella musica di
Mozart assurgono invece a una dignità inedita a causa della sincerità dei loro
affetti. Annio in particolare vive un momento di gloria anche nel duettino con
Sesto “Deh, prendi un dolce amplesso” analogo nel carattere al duetto con
Servilia. Una peculiarità del Mozart dell’ultima maniera è rintracciabile pure
nella predilezione per alcuni strumenti in auge da un capo all’altro della
partitura, ed emergenti soprattutto in taluni momenti-chiave. Il clarinetto
solista compare nel momento in cui il piano per uccidere Tito entra in azione,
cioè nell’addio di Sesto a Vitellia, l’aria “Parto: ma tu, ben mio”. Qui
rappresenta la voce più profonda dell’io del personaggio, totalmente dominato
dal fascino fatale della bellezza, il suo desiderio inappagato e illusorio
dell’amore di Vitellia. Il corno di bassetto, questo ‘fratello’ inquietante del
clarinetto, si afferma invece al termine della vicenda, quando Vitellia prende
la decisione suprema di sacrificare la sua ambizione: nel rondò “Non più di
fiori” lo strumento è immagine dirompente e ossessiva della morte che la
protagonista considera ormai il suo destino imminente. In queste pagine, come
ha scritto Giovanni Carli Ballola, il corno di bassetto muggisce cupo come il
Minotauro del labirinto di Borges, facendo eco, con la sua voce sinistra,
all’indugiare continuo della voce nel registro basso (utilizzando tra l’altro
una melodia del tutto analoga a quella segnalata dell’aria-rondò di Sesto, spia
del pensiero fisso della morte, destino ultimo). Il pezzo si era aperto ben
diversamente, in un idillico fa maggiore chiamato a rappresentare la visione
beata delle catene di fiori intrecciate da Imene disceso dal cielo. Ma
l’Allegro successivo disperde in un baleno ogni traccia della serenità del
Larghetto, per lasciar spazio a un’estrema e tremenda icona del clima di
tragedia incombente, che ha gravato sull’azione dall’inizio dell’opera.
Emergendo da questi abissi, la marcia e coro “Che del Ciel, che degli dèi”
(II,24), collegate senza soluzione di continuità con il rondò di Vitellia, si
rivelano come una folgorazione. L’incubo della morte, la solitudine e
l’angoscia della protagonista, il tetro lamento del corno di bassetto si
infrangono contro lo splendore sonoro di un’orchestra addobbata a festa. Lo
sfarzo e la grandiosità di quei ritmi puntati, in un’atmosfera da trionfo
händeliano, costituiscono la cornice finalmente solenne – ma non vacua – della
celebrazione del potere sovrano. Le lodi di Tito, ora intonate dal coro sugli
splendidi, raffinati versi metastasiani, occupano questo ultimo squarcio
dell’opera, ambientato non a caso in un «luogo magnifico», manifestazione anche
spaziale dello splendore imperiale. Il trionfo che ci si appresta a celebrare
non è tanto quello di un uomo, ma della sua clemenza, che tutti i complotti del
dramma non sono bastati a piegare e che giunge ‘costante’ e vittoriosa
all’ultimo traguardo.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
La discografia ufficiale dell’ultima opera scritta dal genio di
Salisburgo è abbastanza numerosa anche se, a mio avviso, potrebbe essere più
corposa visto il capolavoro che è la Clemenza.
Io mi sento comunque di ricordare queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Karl Bohm nel 1978 (Dresda – P. Schreirer, T.
Berganza, E. Mathis, J. Varady);
- Edizione audio diretta da Peter Hogwood nel 1992 (Academy of Ancient
Music – U. Heilmann, C. Bartoli, B. Bonney, D. Jones);
- Edizione audio diretta da Nikolaus Harnoncourt nel 1993 (Zurigo – P.
Langridge, A. Murray, R. Ziesak, L. Popp);
- Edizione audio diretta da René Jacobs nel 2005 (Freiburger
Barockorchester – M. Padmore, B. Fink, S. Im, A. Pendachanska);
- Edizione audio diretta Sir Charles Mackerras nel 2005 (Scottish Chamber
Orchestra – R. Trost, M. Kozema, L. Milne, H. Martinpelto).
L’edizione diretta da Bohm è pregevole sotto l’aspetto proprio della
concezione musicale che il direttore riesce a dare, avendo a disposizione gli
ottimi musicisti della Staatskapelle di Dresda. Gli interpreti sono abbastanza
buoni ed hanno in Schreirer un buon Tito (ma forse troppo morbido) e nella
Berganza un buon Sesto. Gli altri, a mio parere, molto al di sotto.
Harnancourt a mio parere deve piacere… perché in ogni sua interpretazione
schiera due opposte fazioni: coloro che lo adorano e coloro invece che non
riesce a convincere. In questa registrazione io sono dalla parte dei secondi.
Non mi entusiasma la sua direzione, sia per scelta di tempi oltre che per i
colori di fondo che permeano tutta l’interpretazione. Il cast è di ottimo
livello (fra tutti Langridge – Murray – Popp) ma complessivamente mi resta,
nelle occasione in cui mi sono cimentato all’ascolto, un po’ di amaro in bocca.
René Jacobs secondo il mio modesto parere dirige in maniera strepitosa i
complessi di Friburgo (e forse nel complesso è la direzione che più mi piace)
ma poi il cast non è abbastanza omogeneo da far sì che questa sia la mia
edizione preferita (il personaggio più in palla è il Sesto di Bernarda Fink).
Anche Mackerras dirige molto bene, con una scelta di tempi teatralissima
(pur essendo una edizione audio) ma anche in questo caso, a parte il buon Sesto
di Magdalena Kozema, i cantanti lasciano molto a desiderare (Trost lo trovo uno
dei peggiori Tito in assoluto).
Facendo quindi un po’ di comparazioni, pur non essendo ad una edizione stratosferica, l’edizione diretta di Hogwood la ritengo la più completa. Il direttore inglese dirige con tempi accettabili e molto a disposizione dei cantanti (uno scalino al di sotto di Jacobs e Mackerras) però il cast, a mio avviso, è molto più omogeneo rispetto agli altri analizzati. Heilmann è un buon Tito (non splendido… ma buono), la Bartoli a mio parere tratteggia un ottimo Sesto così come mi piace molto la Servilia di Barbara Bonney (soprano a mio avviso poco valorizzato) e buona anche la Vitellia di Della Jones (pur avendo una voce bruttina). La mia proposta è dunque su questa edizione.
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Hogwood:
https://www.youtube.com/watch?v=fJ6RR5PjToI
(Atto I)
https://www.youtube.com/watch?v=rvSG8DUjMdY
(Atto II)
Particolarità!!!
Se volete ascoltare un’edizione molto particolare de La clemenza di
Tito vi consiglio di ascoltare quella che trovate nel link successivo e
diretta da Theodor Currentzis, un direttore che sto scoprendo e che ha dato al
pubblico negli ultimi anni delle ottime interpretazioni mozartiane. Quella che
vi propongo è una registrazione del 2017 con una edizione della Clemenza
un po’ bistrattata, perché vede degli inserti mozartiani che esulano dalla
composizione originale e, in questo caso, non mi vedono d’accordo con la
scelta. Ma la direzione è elettrizzante e interessantissima.
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