ALMANACCO OPERISTICO - 26 settembre 2020 - LUCIA DI LAMMERMOOR di G. Donizetti
LUCIA DI LAMMERMOOR
Dramma tragico in
tre atti di Salvatore Cammarano, dal romanzo The Bride of Lammermoor di
Walter Scott
Musica di Gaetano
Donizetti
Prima
rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 26 settembre 1835
Prima che il 26 settembre 1835 andasse in scena al San Carlo di Napoli la
Lucia di Lammermoor, il trentottenne Gaetano Donizetti aveva composto,
in diciassette anni di attività, quarantatré opere. Aveva esordito al Teatro
San Luca di Venezia il 14 ottobre 1818 con Enrico di Borgogna, opera
‘semiseria’, secondo una minuziosa classificazione di allora, perché includeva
un personaggio comico. Anche Torquato Tasso (Roma 1833) fu per la stessa
ragione definito ‘semiserio’, malgrado la morte di Eleonora d’Este e i deliri
del protagonista. Opere ‘buffe’ furono invece l’Elisir d’amore (1832) e Don
Pasquale (1843); ma esistevano anche le ‘farse’, come Le convenienze e
inconvenienze teatrali (1827) o il Campanello (1836), nel repertorio
donizettiano.
Lucia di Lammermoor non fu il primo grande successo di Donizetti
nel genere ‘serio’: già Anna Bolena (1830) e Lucrezia Borgia
(1833) erano state opere vincenti. Quest’ultima, anzi, fu assiduamente
rappresentata fino all’inizio del nostro secolo. Ma Lucia di Lammermoor
rientra tuttora nel repertorio teatrale più consueto. Donizetti morì
cinquantunenne a Bergamo, sua città natale, in stato di demenza, dopo aver
composto settanta opere. Per un singolare destino aveva descritto la demenza in
varie opere, iniziando dalla protagonista di Emilia di Liverpool (1824)
e continuando con i deliri di Murena nell’Esule di Roma (1828) e di
Torquato Tasso nell’opera omonima, per giungere a quelli di Linda di
Chamounix (1842). D’altronde le scene di follia erano un antico retaggio
dell’opera italiana o italianizzante; comparvero già nell’Orfeo di Luigi
Rossi, per non parlare dell’Orlando furioso di Vivaldi e di Händel o
della Nina pazza per amore di Paisiello.
Il libretto di Salvatore Cammarano fu tratto da The Bride of
Lammermoor, romanzo di quel singolare depositario di soggetti operistici
che fu Walter Scott. A lui si ispirarono ben quattro compositori che prima di
Donizetti musicarono le vicende di Lucia ed Edgardo: Michele Carafa (Le
nozze di Lammermoor, Parigi 1829), Luigi Riesk (1831), Ivar Frederik Bredal
(La sposa di Lammermoor, Copenhagen 1832) e Alberto Mazzuccato (La
fidanzata di Lammermoor, Padova 1834). Donizetti, come di consueto, fu
rapidissimo: iniziò la composizione alla fine del maggio 1835, la terminò il 6
luglio. Scott, riferendosi alle lotte fra i seguaci di Guglielmo III d’Orange e
i fedeli del detronizzato Giacomo II, aveva collocato il suo romanzo nella
Scozia del 1689, mentre Cammarano retrodatò Lucia alla fine del
Cinquecento.
LA TRAMA
Malgrado l’odio atavico che separa le loro famiglie, Edgardo e Lucia si
amano e s’incontrano nascostamente. Ma Edgardo deve assentarsi, chiamato
altrove dalle vicende della lotta nella quale è impegnato. Prima di partire
rammenta a Lucia che Enrico Ashton gli ha ucciso il padre. Perdonerà, tuttavia,
se potrà sposarla. Lucia lo prega di tenere ancora segreto il loro amore, ma
gli giura eterna fedeltà. Nel secondo atto Enrico, prossimo alla rovina perché
la sua fazione è perdente, inganna Lucia facendole credere che Edgardo s’è
legato a un’altra donna e la costringe a sposare il potente Lord Arturo
Bucklaw. Durante la cerimonia di nozze Edgardo irrompe nel castello degli
Ashton, rimprovera a Lucia l’infedeltà di cui s’è macchiata e maledice lei e la
sua stirpe. La seconda parte del secondo atto vede Edgardo trascorrere la notte
nello spoglio salone della torre nella quale risiede. Sopraggiunge Enrico,
venuto a sfidare colui che ha osato turbare la cerimonia di nozze. Edgardo
accetta la sfida, che avverrà all’alba. Intanto (terza scena del secondo atto)
nel castello di Enrico gli invitati festeggiano ancora le nozze di Lucia con
Arturo, ma sopraggiunge Raimondo, sconvolto, e narra che Lucia ha ucciso il
marito traffigendolo con una spada. Il turbamento degli astanti è accentuato
dalla comparsa di Lucia che, ormai folle, immagina prima che si stiano
celebrando le sue nozze con Edgardo e poi, con una sorta di ritorno alla
realtà, di rivelare all’amato di essere stata costretta a sposare Arturo. A
questo punto cade svenuta. Nell’ultima scena, che si svolge all’esterno della
torre di Edgardo, questi, affranto per essere stato tradito da Lucia, immagina
di rivolgersi a lei e di annunciarle che tra poco egli morrà. Medita
evidentemente – anche se il libretto non lo precisa – di lasciarsi uccidere da
Enrico. Sopraggiungono Raimondo e gli invitati alle nozze: Edgardo apprende ciò
che è accaduto e che Lucia è agonizzante. Vorrebbe rivederla, ma quando i
rintocchi d’una campana annunciano che Lucia è morta, si trafigge con un
pugnale.
Il 20 luglio 1830, scrivendo a Francesco Florimo – storico della musica,
compositore e amico di Vincenzo Bellini – Saverio Mercadante parlava d’un
‘Dozinetti’, intendendo ‘dozzinale’. Era un nomignolo affibbiato a Donizetti
per certa sciattezza e faciloneria, riscontrabili in non poche opere fino allora
da lui composte. Donizetti, è risaputo, scriveva di getto, rapidissimo, senza
troppo soffermarsi su ciò che gli usciva dalla penna; né poteva ancora vantare
un’Anna Bolena, un Elisir d’amore, una Lucrezia Borgia,
rappresentate tra il 1830 e il ’33. Ma Lucia di Lammermoor fu la sua
risposta al Pirata di Bellini, espressione dell’allora nascente
melodramma romantico italiano. Anche nel Pirata Gualtiero (tenore) è
vittima delle trame di Ernesto (baritono), che gli ha sottratto Imogene
(soprano) costringendola a sposarlo. La vendetta di Gualtiero è la pirateria.
Ucciderà poi Ernesto in duello, ma questo renderà folle Imogene. In sostanza il
Pirata aveva coniato quattro personaggi fondamentali: il giovane eroe
oppresso dalla tristezza e dal rancore, perché ha subìto lutti e usurpazioni
(Gualtiero); l’antagonista usurpatore (Ernesto); la donna angelicata, alla
quale lo scontro fra Ernesto e Gualtiero toglierà il senno (Imogene) e
Goffredo, che tenterà invano, in nome della dignità sacerdotale, di evitare la
tragedia. Ma questa è anche la conformazione di Edgardo, Enrico, Lucia e
Raimondo. Il Pirata aveva fatto scalpore. Personaggi, linguaggio e
situazioni stimolavano nella società dell’epoca, fino ad allora amante del
lieto fine, il gusto dell’intenerimento, la voluttà della commozione. Ebbene, Lucia
fu una sorta di Pirata che, partendo da fatti meglio coordinati sotto il
profilo narrativo, esprimeva più compiutamente l’esperienza belliniana.
D’altronde Bellini e Donizetti s’erano sovente mossi, fino ad allora e sia pure
con formule in parte diverse, nella stessa direzione. Benché alcune opere di
Rossini avvincessero ancora il pubblico, il romanticismo esigeva un linguaggio
meno stilizzato, meno fiorito e tale da raffigurare con maggiore immediatezza
le situazioni sceniche. Bellini e Donizetti presero ad accostarsi a un
linguaggio per l’epoca realistico, sopprimendo o riducendo le fioriture e
l’ornamentazione nel canto delle voci maschili e, a volte, anche in quello
delle voci femminili. Fu il primo passo verso la verosimiglianza del linguaggio
vocale – ‘verosimiglianza’ che poco ha a che vedere con quello che sarà più
tardi il verismo. Il secondo passo furono melodie che partivano
dall’accentazione delle parole per svilupparsi in un motivo semplice, tenero,
malinconico. Così nacquero le arie, definite ‘nenie’ o ‘cantilene’, che furono
la sigla e di Bellini e di Donizetti. Tuttavia in certe ‘cantilene’ di Parisina,
di Maria Stuarda o di Anna Bolena, l’abbandono e la malinconia
nascono dall’antico espediente di far muovere la voce per gradi contigui, senza
bruschi salti, o al massimo per piccoli intervalli. Ma proprio per questo
Donizetti sfiora la grande melodia senza realizzarla: mancano lo struggimento e
l’incisività, che egli raggiunge invece in Lucia. In una melodia come
“Verranno a te sull’aure” (il duetto di Lucia ed Edgardo) l’accentuazione della
parola è messa in rilievo dall’introduzione di ampi intervalli. Il languore
della voce, che sale o scende per gradi contigui, trova nel salto d’ottava
iniziale di «Verranno» un impulso che imprime sul periodo musicale ampiezza e
incisività. Lo stesso nell’avvio di “Tu che a Dio spiegasti l’ali” (l’aria
finale di Edgardo) e, in precedenza, in “Spargi d’amaro pianto” (la scena della
follia di Lucia nel terzo atto). Anche gli spunti veementi e iracondi nascono
dall’immediata trasfigurazione melodica della accentazione delle parole. Come
nel Larghetto “Cruda, funesta smania” di Enrico (I,2) e, subito dopo, nella
veemenza dell’Allegro moderato “La pietade in suo favore”, che funge da
cabaletta. Altrettanto aderente all’accentazione ‘parlata’ è il Larghetto di
Edgardo “Sulla tomba che rinserra”, che non per questo perde una felice
flessuosità melodica (scena e duetto del finale primo).
Per la protagonista, il discorso sul linguaggio vocale è diverso. Donizetti,
come Bellini in tutte le sue opere, applica soltanto saltuariamente al canto
del soprano il procedimento di renderlo realistico eliminando vocalizzi e
fiorettature; e questo proprio mentre il realismo drammatico guadagna spazio.
Ma esiste una ragione storico-psicologica. Già agli albori del melodramma il
canto fiorito e vocalizzato distingueva i personaggi mitologici o regali dai
comuni mortali. Nel melodramma romantico il canto fiorito risponde al concetto
della donna virtuosa, inaccessibile, portata a nascondere le proprie forme
dalla foggia della crinolina, che il moralismo del periodo 1830-60 contrappone
al ricordo d’un passato, ancor prossimo, ritenuto licenzioso. Si tratta,
insomma, d’un linguaggio allegorico che afferma l’avversione della donna alle
basse passioni. Lucia prova certamente slanci d’amore fervidi, appassionati, ma
Donizetti le inibisce il canto sillabico e ‘spianato’ perché non allegorico,
non idealizzato. Quando Lucia entra in scena e narra l’apparizione d’un
fantasma (“Regnava nel silenzio”, I,4) la vocalità è prevalentemente
‘spianata’, ma quando è descritto l’amore per Edgardo (“Quando rapita in
estasi”) diviene gradualmente virtuosistica. Così ancora Verdi nel primo atto
del Trovatore: canto semplice, quasi ‘spianato’ nella descrizione che
Leonora fa dell’incontro con Manrico (“Tacea la notte placida”), ma un
repentino getto di trilli e di agilità nel successivo “Di tale amor”.
Ma il canto ornato e fiorito di Lucia ha anche il compito di esprimere
orrore e terrore, come nella seconda parte della cavatina “Regnava nel
silenzio” e come nella celebre scena della pazzia (III,5). Qui il recitativo
arioso (quasi melodico, cioè) si alterna inizialmente ai melismi, per poi
cedere, nel Larghetto “Ardon gli incensi” e nel Moderato “Spargi d’amaro
pianto”, a una scrittura che evoca tutte le componenti del vocalismo d’agilità:
gorgheggi in alta tessitura, volate e volatine, trilli, note ribattute,
picchettati.
Notevoli in Lucia i recitativi, anche per la loro varietà. Se
Donizetti usa il recitativo ‘monofonico’ – articolato, imitando il ‘parlato’,
sulla ripetizione di una stessa nota – lo ravviva facendo gradualmente salire
di tono ogni frase (scena di Enrico e Lucia del secondo atto, “Appressati,
Lucia” e “M’odi, spento è Guglielmo”). Adotta il ‘parlante-misto’, dove il
recitativo è affine al canto, ma il motivo conduttore è in orchestra (nel
dialogo di Enrico e Arturo prima della scena delle nozze). Sono presenti anche
il ‘declamato’ (Edgardo, prima della ‘maledizione’) e il recitativo arioso che
sfiora il cantabile (Edgardo in “Tombe degli avi miei”). Questa complessità dei
recitativi rende più serrato il ritmo della narrazione.
Il momento magico vissuto da Donizetti durante la composizione investe
tutte le strutture dell’opera. Tra le pagine d’insieme emerge il sestetto del
finale secondo, dove tra l’altro si scorge in Donizetti l’allievo di Mayr, per
talune analogie con il sestetto del finale primo di La rosa bianca e la rosa
rossa (1813). La parte corale, vasta e accurata, s’inserisce felicemente
nell’azione a partire dalla prima scena dell’opera, ora bellicosa (“Percorriamo
le spiagge vicine”), ora festosa (“Per te d’immenso giubilo”, finale secondo),
ora partecipe del dolore di Edgardo e commossa dalla sua agonia nel finale. La
strumentazione è abilmente correlata al mutare degli eventi scenici, anche
attraverso interventi solistici. Nell’atmosfera notturna del parco, nel quale
Lucia compare per la prima volta, è l’arpa ad annunciarla, con suoni liliali e
sognanti; quando è convocata da Enrico, piagata dalla lunga assenza di Edgardo,
è il lamento dell’oboe che la introduce; mentre nella scena della pazzia
l’accompagna il suono ‘bianco’ e scarno del flauto (nella primissima versione
egli fa uso della glassarmonica al posto dello strumento a fiato).
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Foltissima la discografia di quest’opera che annovera (tra registrazioni
ufficiali e non, audio e video) i migliori cantanti del ‘900.
Io, senza pretendere di fare distinzioni particolari, voglio ricordare
queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1955 (M. Callas, G.
Di Stefano, R. Panerai, N. Zaccaria);
- Edizione audio/video diretta da Bruno Bartoletti nel 1967 (R. Scotto,
C. Bergonzi, M. Zanasi, P. Clabassi);
- Edizione audio diretta da Thomas Schippers nel 1970 (B. Sills, C. Bergonzi,
P. Cappuccilli, J. Diaz);
- Edizione audio diretta da Richard Bonynge nel 1971 (J. Sutherland, L.
Pavarotti, S. Millnes, N. Ghiaurov);
- Edizione video diretta da Stefano Ranzani nel 1992 (M. Devia, V. La Scola,
R. Bruson, C. Colombara);
- Edizione video diretta da Roberto Abbado nel 2015 (J. Pratt, S. Secco,
M. Caria, C. Cigni).
Ammetto che non è stato facile scegliere tra queste edizioni… e forse un’edizione
di riferimento non c’è in assoluto. Io comunque una scelta l’ho fatta e la
condivido con chi mi vorrà leggere.
L’edizione giapponese diretta da Bartoletti è stata per me, quasi trent’anni
fa (e io avevo 13 anni), una folgorazione. Pur falcidiata dai tagli di tradizione
(va bene i tagli delle riprese delle cabalette ma non ho mai capito il perché
del taglio della prima scena del terzo atto) ci porta una Scotto e un Bergonzi
in formissima, lei a mio avviso più sanguigna lui più melodico. Zanasi è un
ottimo Enrico, anche se forse troppo rude. La direzione di Bartoletti è una
garanzia. Io ogni tanto la ascolto… perché mi riporta agli anni della gioventù.
L’edizione diretta da Schippers vede una straordinaria Sills (che
iperbolica la sua scena della pazzia!!!) e un ottimo Bergonzi. Grande pecca a
mio avviso è l’Enrico di Cappuccilli, in una delle pochissime note stonate
della sua immensa carriera (fatica nelle note basse e medie, che sono senza
corpo, mentre il registro acuto è luminoso e squillante). Schippers è un
direttore che forse si sta riscoprendo negli ultimi anni: la sua direzione è
accuratissima, l’orchestra sotto la sua guida suona divinamente e non è mai troppo
“ingombrante”. Questa edizione ha un altro pregio: è una delle prime edizioni
integrali, cosa non da poco ad inizio anni ’70.
L’edizione diretta da Bonynge si avvale di tre fuoriclasse come Jane
Sutherland (che compete con la Callas come mia Lucia preferita in assoluto),
Luciano Pavarotti (a mio avviso con Di Stefano il miglior Edgardo… anche se
Kraus mi potrebbe tirare per la giacca) e un ottimo Sherrill Millnes (anche se
io lo preferisco nei ruoli verdiani). Bonynge dirige l’edizione priva dei tagli
di tradizione ma forse è un po’ troppo metronomico.
L’edizione scaligera del 1992 vede una bravissima Mariella Devia nel
ruolo di Lucia. Personalmente io adoro la Devia soprattutto nei ruoli
donizettiani (Anna Bolena, Elisabetta nel Roberto Devereux e Lucrezia
Borgia su tutti) ed in questa edizione si conferma come la miglior Lucia
italiana a cavallo tra il XX e il XXI secolo. È affiancata da un giovane e
spavaldo Vincenzo La Scola (artista che ci ha lasciato troppo presto) e da un
discreto Renato Bruson (non nella sua migliore interpretazione di Enrico).
Brutto lo spettacolo così come pesante e brutta la direzione di Stefano
Ranzani.
La recente edizione registrata all’Opera di Roma l’ho inserita perché
annovera una delle migliori Lucie di questi anni e cioè Jessica Pratt, che ha
dalla sua una linea di canto molto bella unita alla straordinaria facilità nelle
colorature. È attorniata da un cast discreto ma nulla più. Buona la direzione
di Roberto Abbado e bruttino lo spettacolo (l’ultimo progettato, prima della
sua scomparsa, da Luca Ronconi). Una chicca di questa edizione è l’accompagnamento
della scena della pazzia con la glassarmonica.
Pur non essendo l’edizione di riferimento in assoluto io propendo per la
registrazione dal vivo diretta da Herbert von Karajan con una Maria Callas qui
stratosferica, che dona al personaggio di Lucia una nobiltà ma al tempo stesso
una forza che non sempre si riesce a sentire nelle colleghe che hanno
affrontato questo ruolo. Insieme a lui abbiamo un Giuseppe Di Stefano in stato
di grazia così come un Rolando Panerai eccezionale (riesce a dare un po’ di
nobiltà al personaggio a me “indigesto” di Enrico). Anche questa edizione è
falcidiata dai tagli di tradizione… ma io la adoro. E spero piaccia tanto anche
a voi!!!
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Karajan con la Lucia
di Maria Callas:
https://www.youtube.com/watch?v=EW-v_ZYxlWE
Se volete ascoltare la scena della pazzia accompagnata dalla glassarmonica
vi consiglio questa, tratta dallo spettacolo andato in scena alla Fenice di
Venezia qualche anno fa con una stupenda Nadine Sierra:
https://www.youtube.com/watch?v=6I0-jnOufdA
Ho apprezzato tutto quello che ha scritto,però non mi risulta che Donizetti ha composto quarantatré opere,ma ventitré.No?
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