ALMANACCO OPERISTICO - 5 settembre 2020 - UN GIORNO DI REGNO di G. Verdi
UN GIORNO DI REGNO ossia IL FINTO STANISLAO
Melodramma
giocoso in due atti di Felice Romani, dalla farsa Le faux Stanislas di
Alexandre-Vincent Pineux-Duval
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 5 settembre 1840
Verdi s’appresta per puro caso alla sua seconda opera, l’unico titolo
comico prima di Falstaff (1893), con cui darà l’addio alle scene: dopo
il lusinghiero debutto alla Scala con Oberto (1839), si trovò a dover
rimediare all’improvvisa defezione di un collega, incaricato di scrivere
un’opera comica per la stagione successiva. I tempi strettissimi non
consentivano l’approntamento di un nuovo libretto: venne così rispolverato un
vecchio testo di Felice Romani, Il finto Stanislao, a suo tempo già
messo in musica da Adalbert Gyrowetz (Milano 1818); rappezzato in fretta e
furia, solo tre mesi prima dell’andata in scena fu consegnato a un Verdi che
fece di tutto per liberarsi dall’impegno, adducendo fra l’altro la scarsa
propensione a scrivere un’opera comica a pochi giorni dalla morte della moglie.
A tali circostanze familiari i biografi hanno attribuito per più di un secolo
la causa del suo solenne ‘fiasco’ (l’opera venne ritirata dopo la prima sera),
mentre le cronache dell’epoca sono concordi nell’attribuire la responsabilità
dell’insuccesso agli esecutori, poco inclini al repertorio buffo. Quanto
all’opera, le manchevolezze vanno piuttosto ricercate nel libretto, un testo
obsoleto in un’epoca in cui l’opera comica segnava ormai gli ultimi passi, e
che di comico, a ben vedere, mostra ben poco, se si esclude la convenzionale
coppia di buffi (La Rocca e Kelbar) che intrallazzano ai danni dei due giovani
innamorati (Edoardo e Giulietta, rispettivamente nipote e figlia di quelli),
per combinare il solito matrimonio d’interesse fra il vecchio ricco (La Rocca)
e la bella giovane (Giulietta). A queste s’intrecciano senza motivo le vicende
ben più serie di una marchesa alla ricerca del suo amato cavaliere, un
aristocratico spensierato costretto dalla ragion di stato a farsi passare per
Stanislao, re di Polonia, così da permettere al sovrano di rientrare incolume a
Varsavia: a giustificare la loro presenza in scena è solo il compito di
convogliare l’azione matrimoniale verso il giusto fine.
A Verdi non rimaneva che dipingere la vicenda con una generica tinta
brillante, a cominciare dalla sinfonia comicamente goffa, pervadendo l’intera
partitura di temi frizzanti pseudo-rossiniani, con occasionali ripiegamenti
verso toni patetici di donizettiana memoria negli interventi degli amanti
contrastati (“Grave a core innamorato”, “Non san quant’io nel petto”, “Pietoso
al lungo pianto”, “Si mostri a chi l’adora”). Ma nulla poteva contro un’azione
che latita per quasi tutto il primo atto e che nel secondo si spegne senza mai
un colpo di scena a ravvivarla; nulla avrebbe potuto di fronte a recitativi
che, ridotti all’osso rispetto al libretto originale, non offrono particolari
espressioni o situazioni di comicità, e scorrono quindi noiosamente attraverso
le formule melodiche stereotipate del vieto recitativo secco. Tale esperienza
negativa ha probabilmente precluso altri e più efficaci approcci del giovane
Verdi al repertorio comico; la vena brillante del compositore, qui tutta già
presente, ha comunque continuato a manifestarsi irrefrenabile in tante scenette
sparse delle sue migliori opere successive, con esiti elevati in Rigoletto
e Un ballo in maschera.
LA TRAMA
Atto primo. Nel castello del barone di Kelbar si festeggiano due
matrimoni: quello tra sua figlia Giulietta e il tesoriere La Rocca e quello fra
la marchesa del Poggio e il conte Ivrea, comandante di Brest. Ospite di Kelbar
è il re di Polonia, Stanislao ovvero il cavalier Belfiore, ex amante della
marchesa, che si è prestato alla finzione per consentire al vero monarca di
combattere i suoi nemici in incognito. Nel frattempo Edoardo di Sanval, nipote
del tesoriere e amante di Giulietta, è disperato e chiede a Stanislao di
poterlo accompagnare in Polonia. La marchesa del Poggio, giunta al castello,
vuole aiutare i due giovani al pari del finto re, che offre al tesoriere un
importante incarico se rinuncia alle nozze. La marchesa riconosce Belfiore ma,
vedendosi ingannata da lui, decide di mettere alla prova il suo amore fingendo
di volersi sposare con il Conte.
Quando il barone cerca La Rocca per siglare il contratto nuziale, questi
rifiuta e tra i due scoppia un litigio furibondo. Accorre la marchesa con
Edoardo e Giulietta, e compare anche il re, indignato per il troppo chiasso. Il
barone è costernato per la figuraccia fatta coll’illustre ospite. Soltanto
l’ingresso di quest’ultimo, lo fa recedere dal proposito di uccidere La Rocca.
Atto secondo. Edoardo confida ai servitori la sua tristezza. Il
finto Stanislao, venuto a conoscenza del fatto che l’ostacolo maggiore al matrimonio
fra Giulietta e Edoardo consiste nella povertà di quest’ultimo, decreta che il
tesoriere La Rocca ceda a suo nipote un castello e una rendita. In separata
sede, la marchesa del Poggio e il sedicente re si affrontano in una serie di
schermaglie. Delusa dall'apparente indifferenza di lui, la marchesa giunge
davvero a promettersi al Conte, con la sola riserva di potersi liberare dalla
promessa se il cavalier Belfiore si fosse presentato entro un'ora. Quest’ultimo
ha, però, già escogitato un’idea contro questa promessa: dichiara, infatti, di
dover partire immediatamente e di dover portare con sé, per segretissime
ragioni di stato, il conte Ivrea. Questo conduce Edoardo, ha giurato di seguire
il re in Polonia, nella disperazione più totale.
In extremis una lettera del vero Stanislao libera Belfiore dal suo
impegno: il re ha ottenuto l'appoggio della Dieta, e non avendo più bisogno dei
suoi servigi, nomina Belfiore maresciallo. Prima di leggerla però egli ordina
che sia celebrato immediatamente il matrimonio fra Giulietta ed Edoardo. Quindi
si dichiara fedele alla Marchesa. Vengono sì, celebrati due matrimoni, ma con
mariti diversi. Tripudio generale.
Fughe e travestimenti, caricature e duetti buffoneschi, lettere e
messaggi, nobili spiantati e giovincelli innamorati non stanno solo nel bel
libretto del secondo lavoro di Verdi, ma partecipano regolarmente alla comicità
del primo Ottocento che del resto perpetua quella del secolo precedente. Eccone
alcuni esempi, a ridosso di quel 1840 che vide nascere e subito scomparire Un
giorno di regno. Frequente dunque il ricorso all’espediente della lettera,
che però nella donizettiana Fille du régiment (1840) si limita a
rivelare l’antefatto e nell’ancora donizettiano Don Pasquale (1843) è
uno dei diversi momenti dello sviluppo della vicenda: nei Gemelli di Preston,
melodramma giocoso in due atti di Giorgio Giachetti per la musica di Luigi
Bordese (Torino 1842) succede che Daniele sostituisce il fratello ufficiale,
finito chissà dove, col pericolo di dover partire per la guerra e sposare la
sedotta sorella del suo superiore; ma nella scena ultima a questi giunge una
lettera che dice: “Dai ribelli assaltato / fui fatto prigioniero; / a voi,
signor, che spero / chiamare un dì cognato / questo mio foglio invio / perché al
sovrano mio / lo palesiate”; a firmare è il gemello Giorgio, tutto si risolve,
Daniele può riabbracciare la sua Claudia (immancabile soprano).
Qualche caso di travestimento, poi, come Belfiore si traveste da
Stanislao. Nei Due Figaro, melodramma di Felice Romani (ancora) per la
musica di Giovanni Speranza rappresentato a Torino nel 1839 e a Milano l’anno
dopo, chi è il secondo Figaro? È Cherubino, che ama e ottiene in sposa Ines,
figlia dei conti d’Almaviva, in dispetto a loro ma anche a quel trafficone del
primo Figaro, e adulto abbastanza qual è alla mozartiana voce di soprano
preferisce ormai la più verosimile voce di tenore. Anche il conte Sanviti di Chi
dura vince, due atti giocosi di Jacopo Ferretti musicati da Luigi Ricci e
rappresentati nel ’34, nel ’35, nel ’40, nel ’41 e poi ancora, è un personaggio
che ricorre al travestimento per motivi amorosi o quasi: deve fare accettare
alla sorella, capricciosa baronessa, la fresca mogliettina, plebea ma non meno
capricciosa, e così si presenta sotto il nome di Andrea, “finto lavorante” e
cioè operaio in un suo romito castello. Più malizioso e grottesco (fin nel
nome) è il Volpino che imperversa in Chi più guarda meno vede,
melodramma giocoso di Carlo Cambiaggio per la musica di Edoardo Bauer: nel
libretto edito a Torino nel 1843 il “servitore furbissimo” prima si veste da
turco e poi compare “in pomposa divisa militare sotto il finto nome di Duca del
Deserto”, per risolvere la vicenda e sentirsi poi cantar dal coro “Evviva il
gran Volpino, / che ingenio sopraffino!”. E come dimenticare allora uno dei più
classici travestimenti turcheschi della storia del melodramma come La pietra
del paragone? Dal lontano 1812 i due atti di Luigi Romanelli e Gioachino
Rossini erano avanzati parecchio, alla volta degli anni Trenta, anche sol
balordo, e turchesco soprannome di Sigillara. Là, nella smagliante
partitura rossiniana, il caricaturale andava di pari passo con il lirico; qua,
nella giovane e scontata routine verdiana, il caricaturale si riduce,
anche se non tralascia la folle occasione del duetto-duello tra buffi.
Altrettanto ridotto, forse, il caricaturale dell’opera comica limitrofa a Un
giorno di regno, ma presente quanto basta. Negli Avventurieri, opera
buffa di Felice Romani data a Venezia nel 1842 con la musica di Antonio
Buzzolla, tal Don Papero così precisa il suo pedegree: “Mio trisavolo fu
Duca / d’Altosasso e Nerabuca, mio bisnonno fu Marchese / d’Erbasecca e
Siepiaccese, / la mia nonna fu Contessa / di Belmonte e Selvaspessa; /ebbe un
zio possedimenti / lunghi e larghi ai quattro venti, / e mio padre fu Barone /
della prima qualità”. Basta, basta, risponde un interlocutore e risponderebbero
in coro le più romantiche tragedie belliniane e donizettiane composte negli
anni Trenta e ancora vitalissime negli anni Quaranta dell’Ottocento. Appunto
nella stagione di Carnevale del 1840 alla Scala si allestì un capolavoro di
Donizetti che su quel palcoscenico era nato sette anni prima, la Lucrezia
Borgia di Romani da Hugo con tutti i suoi veleni e avvelenamenti: il protagonista
di Don Desiderio, dramma giocoso di Cassiano Zaccagnini per la musica
del principe Giuseppe Poniatowski (Pisa 1841) cerca di avvelenarsi, nonostante
la buffissima voce di Gennaro Luzio; e un avvelenamento minaccia torvamente
d’aver provocato la primadonna di Le disgrazie d’un bel giovane,
libretto di Leopoldo Tarantini e musica di Giuseppe Lillo (Firenze 1840), salvo
il fatto che si trattava di un benefico elisir. “Siamo tutti avvelenati”, si
canta nell’ultima scena, ottonario simile a quello di Lucrezia Borgia
nell’ultima scena, “Sei di nuovo avvelenato”; ma la preghiera di Fortunato che
dice “Flora, Flora, ti placa, perdona” (all’avvelenatrice), non riecheggia il
decasillabo di Assur che verso la fine di Semiramide implora “Deh! Ti
ferma, ti placa, perdona”?
Né si possono tacere due casi particolarmente significativi. Uno sta
nelle Nozze di Figaro, melodramma comico di Gaetano Rossi per la musica
di Luigi Ricci (Scala, Carnevale ’38): Cherubino, che nell’ineffabile piéce
mozartiana esprimeva i suoi palpiti d’adolescente con tutta la semplicità della
canzonetta “Voi che sapete”, qui canta una canzone che è una romanza, anzi una
ballata, il triste languir d’amore di Elvino sulle parole “Di sua ridente età”
(all’incirca come la ballata di Pierotto in quella Linda di Chamonix che
Donizetti rappresenterà a Vienna nel ’42). E un altro nel Postiglione di
Lonjumeau dato alla Scala l’autunno del ’38 con la musica di Pietro Antonio
Coppola (due anni dopo l’omonimo lavoro di Adolphe Adam): tal Marchese cerca
una nuova voce per il teatro reale e tal Bijou lo costringe a sentire la sua.
Così Bijou: “Perché mi guardi e palpiti / spietata Fille?... Oh Dio! / Ti
muovan le mie suppliche, / ti muova il pianto mio! / Il dolce ed il patetico /
è il meglio che mi va!”. Così il Marchese: “Con quel vocion da stentore / voi
fate al certo un sogno! / Non cerco un orso in collera, / d’un Càstore
abbigìsogno; / ma non mi fate ridere, / cessate per pietà”. Ma quando
sopraggiunge Chapelou, il postiglione che canticchia per gli affari suoi, il
Marchese trasecolato lo ingaggia su due piedi, fra l’altro dicendo “Hai
l’organo flessibile / hai bello il Sol di petto…”. Insomma può essere
un’illazione (anche perché chissà dov’è la musica, e qual è), ma un bandolo
nella matassa si trova: Bijou impersonerebbe il canto moderno, romantico,
veemente come un orso incollerito, e Chapelou il canto antico, classico e
raffinato, appunto flessibile ed esteso, di petto, solo fino al Sol acuto (il
Romanticismo, si sa, estende il registro di petto al Do): ma il tutto sarebbe
un’ubbia, una nostalgia, una scoperta del buffo Marchese ben condita col sale
dell’ironia. I tempi mutano, dunque, e gli stili si trasformano: il classico
scompare e l’opera comica boccheggia, sopraffatta dalla drammaticità dell’opera
romantica.
Nel 1840 Giuseppe Verdi replica Oberto, conte di S. Bonifacio,
Giovanni Pacini propone il suo capolavoro che s’intitola Saffo, Saverio
Mercadante produce la sua versione della Vestale, Otto Nicolai trionfa
con Il Templario, Gaetano Donizetti mette in scena Les Martyrs e La
favorite, né mancano dai cartelloni teatrali le opere dello scomparso
Bellini, il primo fiero nemico dell’opera comica. Che significano, al cospetto
di tanta musica, La dama e il zoccolaio di Vincenzo Fioravanti, Egli
è moda di Giovanni Speranza, Hans Sachs di Albert Lortzing?
Donizetti non ha ancora schizzato il sommo Don Pasquale, è vero, ma
ormai da tempo la sua carriera, prossima alla fine, ha dimostrato di preferire
il genere serio; anche Pacini dirada il comico, al comico ha rinunciato Vaccai,
Morlacchi muore nel ’41 e da anni Pavesi ha smesso di comporre, Mercadante
avanza sempre più seriamente e la rivincita verdiana è fulminea con il
possente, sacrale, catartico Nabucco. Quanto al nume di Rossini, tace il
nuovo e parla il vecchio, con la voce del repertorio (Guglielmo Tell a
Torino nello stesso ’40). Anzi, quando vede la luce l’effimero Giorno di
regno, sono appena due anni che al Teatro Re di Milano il maestro e tenore
Luigi Antonio Ronzi ha rappresentato I rossiniani a Parigi,
“trattenimento musicale” fiorito di popolari arie di Rossini. Dal Barbiere
di Siviglia, dalla Gazza ladra, dalla Cenerentola e basta,
quasi a immortalare, a imbalsamare il meglio d’un sorprendente itinerario
artistico. Ma quando si immortala o si imbalsama, la vita non è più, e la
resistente fortuna del Rossini buffo, ancorché circoscritta a pochi lavori,
sarà lo specchio più fedele della scarsa vitalità dell’opera comica
ottocentesca nella seconda, abbondante metà del secolo. Falstaff?
Un’altra, certo inconsapevole rivincita per l’autore dello sfortunato e
decorosissimo Giorno di regno.
Fonte: Piero Mioli, “Il povero Stanislao”, in MUSICA E DOSSIER
LA MIA PROPOSTA
La discografia ufficiale della seconda opera scritta da Giuseppe Verdi è
ridottissima, arriviamo a mala pena alla decina di incisioni.
Io mi sento di ricordare queste:
- Edizione audio diretta da Alfredo Simonetto nel 1951 (RAI MIlano – L.
Pagliughi, L. Cozzi, J. Oncina, R. Capecchi, S. Bruscantini);
- Edizione audio diretta da Lamberto Gardelli nel 1973 (Londra – F.
Cossotto, J. Norman, J. Carreras, I. Wixell, W. Ganzarolli);
- Edizione video diretta da Donato Renzetti nel 2010 (Parma – A. C.
Antonacci, A. Marianelli, I. Magrì, A. Porta, P. Bordogna).
L’edizione diretta da Gardelli è buona ma la sua direzione, rispetto alle
tante opere verdiane da lui affrontate, è sicuramente tra le meno riuscite e
coinvolgenti, forse anche per la tipologia di opera. Sono da apprezzare le voci
fresche della Norman e di un giovane Carreras. Brava la Cossotto così come
Ganzarolli. Il protagonista (Wixell) è totalmente fuori ruolo.
L’edizione video registrata a Parma la consiglio principalmente per la
prestazione superlativa di Anna Caterina Antonacci che impersona una Marchesa
strabordante (in tutti i sensi!). Il resto è un corollario e niente più.
A mio avviso, pur essendo un po’ tagliata, la migliore edizione è quella
del ’51 con una bellissima direzione di Alfredo Simonetto, una brava Lina
Pagliughi (anche se in là con l’età), un dolce e amoroso Juan Oncina, un Renato
Capecchi dalla voce timbrata e brillante. Su tutti poi un Sesto Bruscantini
efficace e teatralissimo. Dunque… edizione “vecchia” da ascoltare e
riascoltare.
Di seguito i link per ascoltare l’opera diretta da Simonetto:
https://www.youtube.com/watch?v=u68bPz2mKZw
(Atto I parte prima)
https://www.youtube.com/watch?v=TgfajR3LU84
(Atto I parte seconda)
https://www.youtube.com/watch?v=77fwLyLu71U
(Atto I parte terza)
https://www.youtube.com/watch?v=6iyFatdKCGs
(Atto II parte prima)
https://www.youtube.com/watch?v=laVNmMnPYQ0
(Atto II parte seconda)
Se volete guardare lo spettacolo parmigiano con la splendida Antonacci
ecco qui il link:
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