ALMANACCO OPERISTICO - 1 febbraio 2021 - MANON LESCAUT di G. Puccini
MANON LESCAUT
Dramma lirico in
quattro atti di autore anonimo (cui collaborarono Giuseppe Giacosa, Luigi
Illica, Ruggero Leoncavallo, Domenico Oliva, Marco Praga, Giacomo Puccini,
Giulio Ricordi)
Musica di Giacomo
Puccini
Prima
rappresentazione: Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1893
Anno di grazia il 1893, e mese eletto il febbraio. A distanza di otto
giorni il melodramma ottocentesco di Verdi avrebbe passato le consegne
all’opera italiana e internazionale di Puccini. In cartellone alla Scala il Falstaff
per il 9, mentre il Regio di Torino aveva programmato per il 1º la Manon
Lescaut. Una pura coincidenza, ma di quelle che fanno la storia simbolica
dei grandi eventi artistici. Puccini era atteso con speranza e trepidazione
alla prova d’appello. Aveva conosciuto il pubblico delle prime assolute alla
Scala quattro anni prima, dove il suo Edgar era stato accolto nel 1889
in modo sostanzialmente neutro. Tratti di genialità convivevano con cedimenti
di gusto inopinati: non era il lavoro di quel successore di Verdi intravisto
nelle Villi (1884), che il grande editore Giulio Ricordi volle lanciare
investendo personalmente in termini di tempo, denaro, e passione.
Buon giudice di sé e degli altri, Puccini non aveva niente da temere a Torino; a partire da un soggetto che lo aveva attratto sin dal primo momento, condizione principale del suo agire artistico. Una storia d’amore disperata e struggente, già raccontata in musica prima da Auber poi da Jules Massenet con enorme successo nel 1884, che l’aveva resa nota al pubblico europeo. Il confronto avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque, ma non al lucchese. Sin dal primo istante sapeva che la sua Manon Lescaut avrebbe offuscato la fama della sorella: lo stile francese dell’opéra-comique soggiaceva a regole di gusto limitanti l’espressione universale, la sua arte invece aveva inglobato le istanze europee senza perdere la propria matrice nazionale.
Puccini seppe guidare un numeroso manipolo di collaboratori che si avvicendarono sul libretto, fra cui spicca il commediografo scapigliato Marco Praga, l’ultimo dei quali fu quel Luigi Illica che, insieme a Giacosa, gli avrebbe fornito i tre capolavori successivi. lllica fu decisivo per raddrizzare i punti della trama che Puccini sentiva deboli, senza intaccare l’equilibrio fra le parti dell’opera (primo, quarto atto e buona parte del terzo) che erano già composte nel momento in cui iniziò il suo lavoro. In particolare risolse il problema del concertato con l’appello delle prostitute dell’atto terzo, facendo declamare al sergente i nomi delle deportate, come un perno per la melodia lirica che il compositore destinò i due amanti.
La preparazione del nuovo lavoro fu accurata, e Puccini passò a Torino l’intero mese di gennaio 1893. Ricordi aveva ottime ragioni perché Manon debuttasse nel capoluogo piemontese: la Scala andava evitata in primo luogo per rispetto a Verdi, e poi per il cattivo ricordo che i milanesi conservavano di Edgar. Altrettanto ottime le ragioni perché Manon fosse data prima di Falstaff: solo così l’opera di Puccini sarebbe stata valutata con la giusta attenzione.
Cesira Ferrani, per cui il toscano nutriva una vera predilezione, fu la
protagonista sotto la direzione di Alessandro Pomè, assieme a Giuseppe
Cremonini (Des Grieux), Achille Moro (Lescaut), Alessandro Polonini (Geronte).
L’accoglienza trionfale del pubblico non sorprese né l’autore né l’editore,
certi della qualità del lavoro. Erano presenti tutti i migliori critici del
momento, che scrissero resoconti entusiastici: Puccini aveva vinto la sua
battaglia per la successione sul trono del melodramma, da lui avviato verso il
nuovo secolo.
Atto primo. È sera. Sul piazzale antistante una locanda ad Amiens un gruppo di studenti, animato da Edmondo, si produce in lazzi e corteggiamenti, festeggiando la giovinezza (“Ave sera gentile”). Fra essi Des Grieux irride all’amore intonando un’ironica canzonetta (“Fra voi belle”), ma quando si ferma la diligenza per il cambio dei cavalli e ne discende Manon è vittima di un coup de foudre. La ragazza è accompagnata dal fratello Lescaut che la deve scortare sino al convento, ma la sua bellezza ha destato le voglie del vecchio Geronte de Ravoir, che viaggia con loro. Des Grieux avvicina subito Manon («Cortese damigella, il priego mio accettate»), ma il loro colloquio è interrotto dal fratello: rimasto solo Des Grieux palesa tutto il suo turbamento (“Donna non vidi mai”). Frattanto Geronte progetta di rapire la fanciulla e fa approntare una carrozza dall’oste, ma Edmondo ha carpito il colloquio di nascosto e rivela il piano a Des Grieux, promettendogli il suo aiuto. Manon, come promesso, ritorna dal giovane studente (“Vedete? io son fedele alla parola mia”), e Des Grieux, dopo averle rivelato i progetti di Geronte, le propone di scappare con lui. Mentre Lescaut è occupato al tavolo dove si gioca a carte, Edmondo ha fatto preparare la carrozza su cui i due giovani salgono, diretti a Parigi. Gli studenti osservano la scena, canzonando Geronte che vorrebbe inseguire i fuggitivi (“Venticelli ricciutelli”), ma Lescaut lo invita a non perdere la calma, poiché sa che Manon ama il lusso, e presto pianterà lo studente.
Atto secondo. Nel palazzo di Geronte. Manon sta facendo la sua
toilette: come prediceva il fratello si è stufata presto della miseria ed è
divenuta l’amante del facoltoso cassiere. Lescaut, passato a salutarla, nota
che non è felice: ella rimpiange l’amore sensuale del primo amante (“In quelle
trine morbide”), che ora sta tentando la sua sorte ai tavoli da gioco.
Frattanto entrano dei musici che intonano un madrigale (“Sulla vetta tu del
monte / erri, o Clori”), e Lescaut parte in cerca di Des Grieux, per condurlo
dalla sorella. Il salone si riempie di cortigiani, guidati da Geronte, che
assistono alla lezione di ballo impartita a Manon. Dopo aver danzato il
minuetto con Geronte, e aver intonato una canzone pastorale (“L’ora o Tirsi è
vaga e bella”), a dimostrazione delle sue buone maniere, Manon congeda gli
invitati e li prega di attenderli perché deve completare la sua toilette.
Compare Des Grieux e fra i due torna a scoppiare la passione (“Tu, amore? Tu?
sei tu”), un sentimento così forte che spinge il giovane a scordare il
tradimento fra le braccia dell’amante. Ma Geronte rientra all’improvviso e li
sorprende avvinti. Manon lo deride poi, quando il vecchio esce a chiamare le
guardie, si riempie le tasche di gioielli, causando la disperazione di Des
Grieux (“Ah, Manon, mi tradisce / il tuo folle pensiero”). Irrompe Lescaut trafelato,
avvertendoli del pericolo, ma è troppo tardi: Geronte rientra con la polizia e
fa arrestare la ragazza.
Atto terzo. Al porto di Le Havre. Manon sta per essere imbarcata
come prostituta in un bastimento in partenza per le Americhe; Lescaut svela a
Des Grieux, che ha seguito la fanciulla sin lì, di aver corrotto una guardia
per liberare la sorella. Ma il piano viene scoperto, la folla accorre e riempie
la piazza (“Udiste, che avvenne?”), indi un sergente inizia l’appello. La folla
irride alle prostitute, ma alla vista di Manon, stretta al suo uomo, viene
colta da pietà, anche perché Lescaut si aggira fra la gente, spiegando la
triste storia dei due ragazzi. Quando le deportate debbono salire, Des Grieux
sguaina la spada per difendere Manon, ma alla vista del capitano depone l’arma
e implora di potersi imbarcare insieme a lei («No! ... pazzo son! ...
Guardate»). Il comandante acconsente e la nave salpa.
Atto quarto. Manon e Des Grieux si trascinano, al limite delle
forze, in un deserto della Nuova Orléans. La bellezza di lei ha costretto Des
Grieux a sostenere un duello e successivamente alla fuga. Invano l’amante si
allontana per cercare soccorso: rimasta sola Manon si rivela conscia del
proprio destino di morte (“Sola... perduta... abbandonata”), ma non vuole
accettarlo. Des Grieux torna per raccogliere le sue ultime parole e i suoi
ultimi baci.
Ogni grande artista prima o poi scrive un’opera in cui rivela se stesso con tutta la consapevolezza di essere uscito dalla fase dell’esperimento scrivendo il suo primo capolavoro – si pensi all’Idomeneo di Mozart. Con Manon Lescaut il genio di Puccini si mostra con forza dirompente: l’invenzione è profusa a getto continuo e l’ispirazione vi domina, tanto da occultare l’accurato travaglio formale che pure presiede alla struttura. Egli era del tutto conscio che il teatro musicale in Europa, dopo Wagner, non poteva più essere lo stesso. E fu il primo, e forse l’unico italiano a testimoniarlo con la musica, invece che con chiacchere da ciarlatano. Inalterato per lui restava il primato della melodia, e lo dimostrano i numerosi assoli che contribuiscono a tener alta la fama dell’opera, dall’aria di Des Grieux “Donna non vidi mai” a “In quelle trine morbide” di Manon, dominata da una sensualità sconosciuta prima di allora a un compositore italiano, fino al vortice del duetto d’amore che domina il secondo atto. Ma la scrittura armonica doveva interessare più del consueto, e l’orchestra prendere maggiormente parte al dramma. La percezione del pubblico si era molto affinata, le platee cui rivolgersi molto più vaste, il mercato stesso delle opere non era più fossilizzato su idiomi nazionali. Bisognava andare incontro all’Europa guidando il pubblico al di là delle rispettive lingue. Puccini seppe utilizzare temi e melodie per condurre l’ascoltatore, passo dopo passo, alla comprensione della vicenda, ed esprimere l’emozione più intensa al di là delle parole. L’espressione universale non era più miraggio ma realtà: in Manon Lescaut la struttura musicale (melodie, armonie, tratti sinfonici) narra insieme al canto, supplendo al messaggio verbale. Wagner aveva ideato il Leitmotiv, il motivo che orientava l’inconscio dello spettatore suggerendogli legami ideali fra la trama e la costellazione simbolica dei personaggi. Gli italiani usavano citare melodie e motivi in diversi contesti, a volte costruendo con ‘reminiscenze’ interi numeri. Puccini conciliò questi due mondi. Si pensi al momento in cui Manon giunge ad Amiens, accolta da frotte di studenti curiosi. “Vediam / Viaggiatori eleganti”: quel profilo melodico di accordi lo ritroveremo quando la protagonista incontrerà Des Grieux (“Manon Lescaut mi chiamo”), verrà richiamato nell’aria del tenore “Donna non vidi mai” e prima del duetto dell’atto secondo. Nell’episodio conclusivo la sua cellula costitutiva si trasformerà nella mimesi del vento caldo che spazza il deserto americano, fino a chiudere l’atto nel segno della desolazione. Tutta l’opera è intessuta di richiami come questo, in cui una melodia o un motivo potranno essere di volta in volta Leitmotive (dunque presentarsi variati a seconda delle situazioni, come in Wagner) oppure essere richiamati come reminiscenza.
Nel primo atto Puccini adattò con notevole abilità strutture di tipo
sinfonico alle esigenze dell’azione, tanto che l’intero scorcio è analizzabile
come una sinfonia in quattro movimenti. Strutture scopertamente apparentate a
quelle della musica strumentale diventeranno più frequenti nelle opere della
tarda maturità, ma la loro inequivocabile presenza anche in questo folgorante
inizio dimostra la tendenza dell’artista a trovare nuove impalcature formali,
in grado di garantire una diversa cadenza agli eventi drammatici rispetto alle
forme di tradizione.
Veniamo al trattamento dell’orchestra: densa nelle fasce armoniche e ricca di raddoppi – che ribadiscono il primato della melodia potenziata nel suo tratto più scoperto ed emotivo. Ma anche un timbro duttile, piegato a mille seduzioni, e perfezionato da un istinto raffinato. Verdi si era lamentato che nessuno gli avesse insegnato l’orchestrazione: non era dissimile la situazione di Puccini, ma erano più frequenti le occasioni di sentire le musiche orchestrali tedesche, più intenso il dibattito nei circoli colti. Tutta la tessitura timbrica di Manon Lescaut rivela un talento sconosciuto a un operista italiano di quel tempo. Verdi aveva criticato gli squarci sinfonici delle Villi, fatti «pel sol piacere di far ballare l’orchestra»: ma ora questi episodi prendono parte integrante al dramma. Si ripensi all’Intermezzo sinfonico di Manon – una musica a programma: la disperazione di Des Grieux e il suo battersi in favore dell’amata –, al sentimento d’angoscia mimato da violoncello e viola solisti che cantano nel registro acuto frasi cromatiche sopra armonie di settime, universo irrisolto che si spalanca improvvisamente con una grande melodia diatonica in si minore distesa su un immenso arco a piena orchestra, rafforzata in tutte le voci. In quel momento la disperazione di Des Grieux diventa quella di tutti noi, e quando la stessa frase riapparirà nell’ultimo atto mentre il giovane, affranto, singhiozza alla vista dello sfinimento della sua donna, l’effetto sarà potenziato dal riascolto.
Puccini ha dunque saputo fondere in un universo organico e personalissimo
gli elementi più disparati. Ancora un esempio: l’inizio del secondo atto,
trine, merletti, falsità da salotto che si aprono per un istante alla passione
sensuale col ricordo di “In quelle trine morbide”. Poi i musici, i minuetti e
la canzone in stile pastorale (“L’ora o Tirsi”). Ma prima l’accordo che apre il
Tristan und Isolde, simbolo riconosciuto e riconoscibile dell’amore sensuale,
fa capolino per un istante, facendo presagire l’esplosione romantica del duetto
dei due amanti. Puccini non si limitò a proporre simbolicamente la sensualità
come simbolo di colpa, e la trasferì nella musica, dando vita a quella passione
disperata che d’ora in poi dominerà l’opera. Altro che ‘Tristano dei poveri’,
come scrissero alcuni commentatori: soltanto i ricchi d’ispirazione possono
scrivere una musica così riuscita, complessa, varia, eccitante.
Logica conclusione di tutta l’opera è il quarto atto: Puccini realizzò in questo scorcio il suo primo esempio di ‘musica della memoria’, come avrebbe fatto in modo altrettanto indimenticabile in occasione delle morti di Mimì, Butterfly e Angelica. I temi già uditi si susseguono, facendo interagire il passato col presente, e quel poco d’invenzione realizza un’unità poetica saldissima col materiale di tutta l’opera. La musica non deve descrivere nulla, perché nulla accade che non sia il logico effetto di quello a cui abbiamo assistito. La fine di Manon è l’inevitabile conseguenza del suo modo di vivere, e assurge a evento metaforico perché non è soltanto un personaggio che muore, ma un imbarazzante simbolo d’amore, come la disperazione non è solo quella di Des Grieux, ma di tutto il pubblico che partecipa di quella morte.
Questo lungo duetto, interrotto soltanto dalla tragica parentesi
dell’aria conclusiva di lei, fa tornare in mente le conclusioni di Don Carlo
e Aida. E ci rende palese l’enorme distanza col melodramma seriore, là
dove la morte era l’unica possibilità per gli individui, oppressi dal potere,
di realizzare le loro legittime aspirazioni terrene. “Ma lassù ci vedremo in un
mondo migliore”, cantano Carlo ed Elisabetta, “O terra addio; addio, valle di
pianti ...” è l’ultima melodia di Aida e Radames, a cui «si schiude il cielo».
«Non voglio morir!» urla la solitaria Manon. Gli amanti pucciniani continuano
ad avanzare nella sabbia del deserto, fino all’ultimo cercando un’impossibile
salvezza, perché l’unica certezza è la vita. Sono questi i valori disperati e
sensuali dell’inquieta fin de siècle: la sensibilità moderna comincia qui dove
il cielo scompare, qui dove una donna esala l’ultimo respiro sussurrando: «Le
mie colpe ... travolgerà l’oblio, ma l’amor mio ... non muore ...».
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Non è, a mio parere, abbastanza corposo il catalogo delle registrazioni
ufficiali di questo capolavoro che io personalmente adoro moltissimo. Un
centinaio sono le edizioni e, credo, non si possa assolutamente prescindere da
queste:
- Edizione audio diretta da Francesco Molinari-Pradelli nel 1954 a Roma (R.
Tebaldi, M. Del Monaco, M. Borriello, F. Corena);
- Edizione audio diretta da Tullio Serafin nel 1957 a Milano (M. Callas,
G. di Stefano, G. Fioravanti, F. Calabrese);
- Edizione audio diretta da Bruno Bartoletti nel 1971 a Londra (M.
Caballé, P. Domingo, V. Sardinero, N. Mangin);
- Edizione audio diretta da James Levine nel 1992 a New York (M. Freni,
L. Pavarotti, D. Croft, G. Taddei).
A mio parere queste sono le quattro edizioni di cui non si può fare a
meno.
L’edizione registrata a Santa Cecilia nel 1954 vede una bellissima
direzione di Francesco Molinari-Pradelli che io ritengo un direttore pucciniano
tra i migliori (indimenticabile la sua Rondine) ed un cast stratosferico
per quegli anni. Renata Tebaldi è stata la Manon di riferimento a cavallo tra
gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso: musicalissima, dalla voce di una potenza
drammatica portata all’estremo, sicuramente un punto di riferimento
interpretativo. Non è da meno Mario Del Monaco che qui offre una straordinaria
prova nel ruolo di Des Grieux.
L’edizione scaligera del 1957 ci riporta l’interpretazione molto
particolare di Maria Callas. La sua Manon è, a mio parere, un po’ fuori dagli
schemi e risulta, alla fine, una delle sue interpretazioni meno riuscite. Certo
però che ascoltarla è sempre un gran piacere ma qui né lei né Giuseppe di
Stefano regalano emozioni “a go go” come invece capita spesso ascoltandoli.
Buona e classicissima, oltre che sempre molto salda, la direzione di Tullio
Serafin.
L’edizione newyorkese del 1992 vede la bellissima direzione di James
Levine che riesce ad ottenere ottime atmosfere dall’orchestra del Met. Mirella
Freni mette in disco (mai si è avventurata in scena) una Manon straordinaria ma
molto particolare. Sbaglierò ma a sentire il suo timbro mi viene subito alla
mente Mimì, che nulla a che fare con Manon… e qui finisce la storia purtroppo.
Musicalissimo è Des Grieux di Luciano Pavarotti, che non eguaglia certo il suo
Rodolfo, ma mette in disco una delle sue massime interpretazioni pucciniane. In
questa edizione da ricordare l’ottimo Lescaut di Dwayne Croft e una schiera di
comprimari di lusso, di cui voglio ricordare il Musico interpretato da Cecilia
Bartoli.
L’edizione che però mi sento di proporvi è quella diretta da Bruno
Bartoletti con gli ottimi complessi della New Philharmonia Orchestra e l’Ambrosian
Opera Chorus. Il direttore italiano ci propone la migliore concertazione in
assoluto di quest’opera, tutta ardore e fremiti: ogni nota, ogni passaggio,
ogni atmosfera… tutto trova il giusto colore, il giusto accento, la giusta
esecuzione. Solo un direttore, a mio parere, si avvicina a questa concertazione
straordinaria ed è Giuseppe Sinopoli (che però ha a disposizione un cast vocale
complessivamente molto al di sotto di tutti quelli che ho fin qui citato).
Montserrat Caballé è una Manon ideale: non ho sentito in nessuna altra cantante
una pregnanza e una corrispondenza tra testo e canto come in lei. Solo alcuni
piccoli esempi: l’incipit di “In quelle trine morbide” così come l’attacco di “Ed
io che m’ero avvezza” sono di una delicatezza che solo in lei ho sentito e fino
ad ora non ho più ritrovato. Merito suo e di una direzione da manuale. In tutto
questo ne giova anche Placido Domingo che ci propone una delle migliori
interpretazioni assolute del ruolo di Des Grieux, le note sono tutte controllate,
gli acuti ben saldi e una tenuta invidiabile dall’inizio alla fine. Molto buoni
anche tutti i ruoli comprimari. Per tutto questo io ritengo sia questa la mia
edizione di riferimento di Manon Lescaut.
In rete purtroppo non ho trovato l’edizione integrale ma vi metto qui quattro
estratti, sperando possiate ascoltarla tutta:
- Aria di Des Grieux "Donna non vidi mai"
- Aria di Manon "In quelle trine morbide"
- Intermezzo https://youtu.be/Een6tJS6NyY
- Aria di Manon "Sola, perduta, abbandonata"
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