ALMANACCO OPERISTICO - 9 febbraio - FALSTAFF di G. Verdi
FALSTAFF
Commedia lirica in tre atti di Arrigo Boito, dalla
commedia The merry Wiwes of Windsor e dal dramma The History of Henry
the Fourth di Shakespeare
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
«Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme
de’ miei anni?». Cominciò così, nell’estate del 1889, un colloquio sempre più
affascinante, lettera dopo lettera, tra Verdi e Arrigo Boito, impegnati nella
temeraria impresa di un’altra opera tratta da Shakespeare. Anche in
quest’occasione, dopo il trionfo di Otello nel 1887, il loro rapporto fu
improntato al rispetto reciproco. Boito era sempre pronto a sciogliere
qualsiasi dubbio del suo interlocutore, ed ebbe il suo premio quando Verdi, il
17 marzo 1890, poté scrivergli: «il primo atto è finito senza nissun
cambiamento nella poesia». Era la prima volta che il compositore faceva una
simile dichiarazione a un suo librettista. E le ragioni non gli mancavano.
Aveva tra le mani un piccolo gioiello, intessuto di preziosismi linguistici
incastonati in una perfetta sagoma drammatica. Boito lo aveva ricavato dalla
commedia, la cui trama, fatti salvi i cambiamenti dovuti a necessità di sintesi
– sfoltimento dei personaggi e riduzione a due delle beffe, cambio di nomi e
prole fra le coppie – è l’asse del libretto. Consapevolmente o no, lo scrittore
ripercorse lo stesso cammino creativo di Shakespeare. Sir John Falstaff aveva
invaso la scena della History of Henry the Fourth (1596), imponendosi di
gran lunga come il più interessante fra le dramatis personae. Sicché la
regina Elisabetta volle assistere a una commedia tutta per lui, e lo scrittore
dovette interrompere la stesura della seconda parte del dramma. Il lavoro,
probabilmente un centone, fu fatto di malavoglia e in fretta: le Merry Wives
(1597) ci mostrano perciò un furfante beffato, facile preda per tutti i poveri
di spirito che lo circondano. Ma Boito riuscì a restituirgli tutta la sua
dignità, elevandolo a fenotipo dell’arguzia. Per realizzare ciò estrapolò dalle
due parti del dramma tutti quei passaggi brillanti che animano i grandi
monologhi del primo e terzo atto, e altri ancora li sparse qua e là in tutta
l’opera. Sir John ritornò così a essere quello scintillante incrocio tra il miles
gloriosus di Plauto e il Panurge di Rabelais in abiti inglesi. Questo non
rimase l’unico merito di Boito: fu lui che insistette, contro l’iniziale
diffidenza di Verdi, a inserire nella trama, come un ricamo, gli incontri fra
Fenton e Nannetta. Il loro amore doveva essere l’altro polo della vicenda, un
amore che costituisse una luce di speranza in un mondo fatto talora di atroci
amarezze.
Mancava a Verdi un grande successo nell’opera comica – dopo il mezzo
fiasco di Un giorno di regno nel 1840 – ed egli aveva già dato molte
prove della sua buona disposizione al buffo – si pensi alla ‘tinta’ brillante
del Ballo in maschera, e alle parti di contorno che affollano La
forza del destino. Sin da quando Boito propose a Verdi il nuovo soggetto shakespeariano,
Falstaff fu cosa fatta, senza fatiche né dolori, fino al successo che
accolse l’ultima, miracolosa opera del Maestro ottantenne alla Scala. Il 9
febbraio 1893, sotto la bacchetta di Edoardo Mascheroni, cantarono interpreti
d’eccezione: Victor Maurel, già primo Jago, sostenne il ruolo del protagonista,
Antonio Pini Corsi quello di Ford, Edoardo Garbin e Adelina Stehle
impersonarono i due innamorati, ben assecondati da Emma Zilli (Alice),
Giuseppina Pasqua (Quickly) e Virginia Guerrini (Meg). Da quel momento l’opera
occupa stabilmente i palcoscenici di tutto il mondo, ed è cavallo di battaglia
soprattutto di direttori virtuosi a partire da nomi come quelli di Mahler e
Toscanini, per giungere al passato prossimo, con Karajan e Bernstein in particolare
evidenza.
Atto primo. Quadro primo. All’interno dell’osteria della
Giarrettiera il dottor Cajus si scaglia contro Falstaff e i suoi servitori,
Bardolfo e Pistola: con trucchi di bassa lega lo hanno fatto bere e lo hanno
derubato. Ma le sue lamentele non servono a nulla, poiché Falstaff è troppo
intento a contribuire al benessere della propria borsa e del proprio pancione.
Per questo motivo egli finge amore nei confronti di due ricche signore di
Windsor, Alice Ford e Meg Page. Ha già preparato due lettere d’amore, in tutto
e per tutto uguali salvo che nel nome della destinataria, ma quando ordina ai
due servi di recapitarle essi rifiutano, in nome dell’onore. Falstaff spiega a
loro in un monologo la sua concezione dell’onore (“L’onore! Ladri!”), al termine
del quale li licenzia in tronco. A recapitare le missive basterà un paggio. Quadro
secondo. Nel giardino davanti alla casa di Ford s’incontrano Alice, padrona
di casa, e la figlia Nannetta con Meg, moglie di Page, in compagnia di Quickly,
una signora più attempata delle altre ma altrettanto allegra e spiritosa. Dalle
chiacchiere si passa alla lettura di due lettere amorose, che Falstaff ha
inviato ad Alice e Meg, constatando che differiscono solo nei nomi delle
destinatarie. Mentre le donne s’allontanano indignate, meditando vendetta per
l’offesa ricevuta, fanno il loro ingresso il dottor Cajus e Fenton (il primo
pretendente ufficiale alla mano di Nannetta, il secondo amante corrisposto
della ragazza) assieme a Bardolfo e Pistola che intendono vendicarsi del
licenziamento svelando a Ford le intenzioni di Falstaff: sedurgli la moglie e
spillargli quattrini. Le donne tornano sullo sfondo, ma i due gruppi si evitano
deliberatamente; da essi si staccano Fenton e Nannetta per scambiarsi trepide
effusioni (“Labbra di foco, Labbra di fiore”). I due rimangono soli per pochi
istanti, ma la breve parentesi lirica viene interrotta dal rientro di Alice che
espone alle altre il suo piano: Quickly, in veste di ruffiana, inviterà
Falstaff a un incontro galante con lei per attirarlo in una trappola. Rientrano
gli uomini: a sua volta Ford si presenterà sotto mentite spoglie a Falstaff per
poterlo poi gabbare. Le donne chiudono l’atto dandosi appuntamento per
l’indomani, e ripetendo caricaturalmente un’ampollosa frase della lettera di
Falstaff.
Atto secondo. Quadro primo. All’interno dell’osteria della
Giarrettiera Bardolfo e Pistola tornano a rendere omaggio a Falstaff,
ostentando un sincero pentimento. Il loro scopo è quello di fare incontrare
Ford a Falstaff senza destare sospetti. In quel momento entra Mrs. Quickly:
reca al grasso cavaliere un messaggio di Alice, che si dichiara disposta a
incontrarlo nel pomeriggio stesso «dalle due alle tre» quando il marito sarà
fuori casa. Lo avverte però di fare molta attenzione, perché il geloso consorte
ha disposto una stretta sorveglianza intorno a lei. Rimasto solo Falstaff
inneggia alle sue doti di seduttore (“Va’! vecchio John”), sinché gli viene
annunciata la visita di un certo signor Fontana, un gentiluomo ricco e
generoso. Si tratta in realtà di Ford, che espone il suo caso al grasso
interlocutore (“C’è a Windsor una dama”): desidera possedere Alice che,
fedelissima, si rifiuta. Ma se, da vero «uomo di mondo», Falstaff riuscisse a
conquistare i favori della bella signora, allora la strada sarebbe spalancata
anche per lui. Perciò gli offre un sacco pieno di monete, di cui potrà disporre
a suo piacimento. Dapprima perplesso, Falstaff abbocca, confida a Ford di aver
già ottenuto un appuntamento, poi s’allontana per farsi bello. Allora Ford cade
in preda a una furiosa crisi di gelosia (“È sogno o realtà?”), interrotta dal
rientro di Falstaff, imbellettato. Entrambi escono verso la stessa meta. Quadro
secondo. Nella casa di Ford le comari stanno organizzando la burla ai danni
di Falstaff; tutte si danno da fare, a eccezione di Nannetta che, innamorata di
Fenton, ha appreso che il padre intende concederla in sposa al dottor Cajus. La
madre promette il suo appoggio, ma sta per giungere la vittima della beffa ed è
tempo di prepararsi (“Gaje Comari di Windsor! è l’ora”). Presentandosi
galantemente, Falstaff narra all’amata di un tempo in cui era stato magro
(“Quand’ero paggio/ del duca di Norfolk”), ma viene subito interrotto
dall’arrivo di Ford alla testa di un nutrito gruppo di uomini, che intende
vendicare il suo onore ferito. Falstaff fa appena in tempo a celarsi dietro un
paravento che il marito, adirato, irrompe in casa bloccando ogni uscita e dando
inizio a una capillare perquisizione. Nessun nascondiglio viene tralasciato,
neppure le ceste del bucato. Visti vani i loro sforzi, gli uomini passano ad
altre stanze: le donne allora riescono a far entrare a fatica Falstaff nella
cesta che è già stata esaminata. Il grassone mal si adatta all’angusto rifugio
e all’odore dei panni sporchi, ma fa di necessità virtù. Intanto dietro al
paravento ci vanno Nannetta e Fenton, pronti a cogliere anche quei pochi attimi
di felicità. Ford rientra e il paravento, da cui provengono sospiri, attira la
sua attenzione. Mentre tutti ribaltano il nascondiglio e scoprono la tresca dei
ragazzi, Alice e le altre donne fanno rovesciare la cesta, carica del cavaliere
e dei panni, nel fossato dietro la finestra. A questo punto per le comari è
facile spiegare la burla agli uomini, e a tutti non resta che godere il risultato
della loro arguzia.
Atto terzo. Quadro primo. Fuori della taverna il povero
Falstaff si sta rimettendo dal salto nel fossato e dall’acqua del Tamigi.
L’umore è pessimo (“Mondo ladro, mondo rubaldo/ Reo mondo”), ma quando l’oste
gli porta un bicchiere di vino il cavaliere si riprende a poco a poco. Lo
riscuote Quickly, nuovamente in veste di ambasciatrice, e riesce a convincerlo
a raggiungere Alice sotto la quercia di Herne, travestito da cacciatore nero.
La tradizione vuole che in quel luogo si diano appuntamento le fate e gli
spiriti della foresta. Ancora una volta Falstaff cade nella trappola e si
ritira nella taverna per prepararsi. Stavolta la burla, ordita da donne e
uomini insieme, prevede che tutti gli abitanti di Windsor si travestano da spiriti,
mentre Nannetta impersonerà la regina delle fate. Approfittando della
situazione Ford rammenta al dottor Cajus il travestimento della figlia, onde
questi possa riconoscerla alla fine della mascherata e offrirle il suo braccio.
Ford stesso benedirà le nozze. Ma Quickly, che ha orecchiato, informa le altre
della losca trama, affinché prendano le adeguate contromisure. Quadro
secondo. Nel parco di Windsor. Fenton giunge per primo: intona un sonetto
(“Dal labbro il canto estasiato vola”), e gli fa eco Nannetta che lo raggiunge
(“Bocca baciata non perde ventura”). Ma irrompe Alice, che modifica i
travestimenti per sventare i piani del marito. Allo scoccare della mezzanotte
compare Falstaff, travestito da cacciatore nero e con due corna enormi sulla
testa. Tenta più volte di abbracciare Alice, ma alcuni rumori lo mettono in
guardia, subito dopo Meg, trafelata, annuncia l’inizio della tregenda. Le fate
si muovono al suono della canzone di Nannetta (“Sul fil d’un soffio etesio”), e
al cavaliere non rimane che sdraiarsi per terra per non incrociare il loro
sguardo, pena la morte. I paesani fanno scempio del suo corpaccione: punture,
bastonate, frustate, insulti, coronati da un’ingiunzione a pentirsi. Ma
Bardolfo, nella foga, perde il cappuccio: Falstaff lo riconosce, comprende
l’inganno e riprende un po’ di coraggio, dopo aver ammesso le sue colpe. Nel
frattempo le donne mettono il velo da sposa a Bardolfo, che viene raggiunto da
Cajus e preso per mano, poi congiungono anche Fenton a Nannetta. Due coppie
vengono presentate innanzi a Ford, che benedice entrambe. Ma quando cadono i
veli il padre scopre con amarezza di aver unito la figlia al corteggiatore da
egli osteggiato. L’apoteosi finale è amara per lui, come per Falstaff e per
Cajus, mentre trionfano le donne e l’amore. Un coro, in guisa di licenza,
suggella la scena (“Tutto nel mondo è burla”).
Per ricreare uno degli aspetti più caratteristici del genere buffo, Verdi impresse alla sua ultima partitura un’andatura indiavolata dall’inizio alla fine. Partendo dalla parola egli scavalcò ogni forma tradizionale, e creò un’opera in cui veri e propri motti sorgono da un flessibile declamato vocale e vengono offerti all’orchestra. Si respira aria nuova nella forma sin dall’inizio: nella sfavillante cornice di do maggiore serpeggia un motivo discendente, mentre l’orchestra si muove con frenetica leggerezza. Su questo flusso s’innesta un tema contrastante in mi maggiore, poi le due sezioni si alternano come in un Allegro di sonata sino all’uscita di Cajus, sigillata dall’Amen dei due servi. La vitalistica esaltazione dell’addome del protagonista viene dopo che l’orchestra ha disegnato, mediante un vuoto nel registro centrale, la magrezza da lui aborrita, e sfocia nel monologo dell’onore, dove il declamato di Falstaff suggerisce agli strumenti un caleidoscopico giro d’immagini.
L’arguzia delle donne domina il secondo quadro, e trova la sua
celebrazione nella lettura delle lettere, conclusa da una frase appassionata, e
al tempo stesso ironica, di Alice («Ma il viso tuo su me risplenderà»), che
sigillerà poi l’atto. Apoteosi dello stile buffo è poi il concertato in versi
ottonari degli uomini, che si contrappone per il metro a quello in senari delle
donne. Verdi le allontana per far udire le ragioni dei maschi, ma fra i gruppi contrapposti
sbuca un delicato traît d’union: Nannetta e Fenton colgono la prima
occasione per isolarsi e intonare il loro motto «Bocca baciata non perde
ventura/ Anzi rinnova come fa la luna», celebre distico tratto dal Decameron.
Il loro amore sarà l’unica isola di vera felicità in un mondo che trama
seduzioni e beffe e, nella conclusiva ripresa del concertato, Verdi ribadisce
la forza di questo sentimento isolando l’ampia melodia lirica di Fenton.
Le lusinghe che Quickly, all’inizio dell’atto seguente, offre al grasso cavaliere mettono a nudo la sua sensibilità all’adulazione: «Dalle due alle tre», ennesimo motto che ritroveremo disseminato qua e là, è un invito alla risata costruito su una semplice cadenza perfetta. Credendosi desiderato Falstaff intona il brevissimo arioso, “Va’, vecchio John”, un inno materialistico alla sua carne che è l’unica certezza. In fugaci istanti come questo si condensa una complessa vicenda umana, ma l’arrivo di Ford nei panni di un improbabile signor Fontana dà vita a una scena all’insegna del puro paradosso, in cui questi chiede al rivale di sedurre la propria moglie perché «da fallo nasce fallo», ed è difficile persino per Falstaff comprendere il senso di questa «strana ingiunzion». Ma intanto abbiamo udito un nostalgico ‘madrigale’ a due, e il tintinnio di tutta l’orchestra che dipinge il sacco di monete offerto da Ford, cui seguono le corna su cui sparare una «girandola di botte», disegnate dalle aggrovigliate terzine della linea vocale, fino al provocatorio motivetto «Te lo cornifico, netto, netto!». Il successivo monologo di Ford inizia nel segno dell’allucinazione (“È sogno o realtà?”), prosegue nell’ira, evolve nel disincanto, involve nell’insulto alle mogli: pochi minuti di tensione, che contengono una varietà impressionante di atteggiamenti, rotta dal leggiadro tema di danza che accompagna il rientro in scena del Pancione.
La gioia innocente con cui le donne si dispongono all’impresa, nel quadro
successivo, fa quasi dimenticare i guai che incombono sul cavaliere,
soprattutto quando Alice intona “Gaje comari di Windsor”, lucente inno al
sorriso. Accordi di chitarra accolgono il seduttore che narra senza rimpianto,
nell’unico ‘pezzo chiuso’ (“Quand’ero paggio”) dei tempi in cui era magro. Ma
quando irrompe la masnada di Ford, un traffico pesante inizia intorno al
paravento e alla cesta del bucato posti al centro della scena, e in quella
«casa di pazzi» soltanto i due giovani mostrano saggezza, acquattandosi dietro
al paravento che li separa dal mondo. Il putiferio intorno a loro si blocca e
lo schiocco del loro bacio nel silenzio generale innesta un complesso
concertato, che Verdi conduce con mano fermissima fino al clamoroso tuffo nel
fossato. Nel ritrarre l’enorme disillusione di Falstaff, infradiciato, all’inizio
del terzo atto, Boito si supera, offrendo a Verdi una lingua preziosa che
stimolò al compositore una fra le più memorabili invenzioni di tutto il teatro
in musica. Il lungo monologo è un brano di carattere, che dalla situazione
prosaica dell’umiliazione subita solleva il protagonista in un’epicurea
esaltazione dei conforti della vita, primo fra tutti il prediletto «vin caldo».
Il benefico influsso della bevanda sullo spirito e sulla carne maltrattata
ispira al protagonista un eccentrico ‘ditirambo’ accompagnato da un
virtuosistico trillo a piena orchestra che è uno scorcio da manuale. Falstaff,
rigenerato, è pronto a cascare in nuove trappole e neanche la macabra storia
del cacciatore nero riuscirà a fermarlo.
Quale finale migliore per un’opera ‘magica’ e shakespeariana, che un bosco fatato e una classica mascherata? Risuonano i richiami del corno, e Fenton si affaccia al contatto della natura. Intonerà uno splendido sonetto che è un canto d’amore appassionato verso l’altro da sé. Istanti d’infinita tenerezza, conclusione formalmente perfetta, in cui l’ultima terzina riprende il motto «bocca baciata» e chiama la risposta dell’innamorata. Ma l’azione incalza e tronca l’estasi sul nascere: le botte dell’orologio che batte dodici rintocchi, una vertiginosa girandola armonica di accordi tra loro differenti che ruotano sul perno del fa diesis, colgono il pancione travestito, due corna in testa, sotto la quercia, e precedono l’arrivo delle due donne. Ma Nannetta guida gli abitanti di Windsor, travestiti da personaggi silvani, intonando la Canzone delle fate “Sul fil d’un soffio etesio”, accompagnata da un’orchestra leggera e delicata come una tela di ragno. Falstaff ci ricasca, sta fermo immobile per terra mentre tutti lo pungono, lo pizzicano. Ma ha ancora lo spirito per inserirsi in un gioco antifonale (“Domine fallo casto!”; “Ma salvagli l’addomine”) che è l’ultima garbata satira anticlericale di Verdi. Infine trova le forze per reagire, incalzando i suoi derisori: “Un poco di pausa. Sono stanco”, reclama, ed è la rottura dell’illusione scenica che gli restituisce dignità.
Dopo tanta amarezza e struggente disincanto, manca solo l’obbligato lieto fine. Credendo di maritare Nannetta a Cajus al suono di un ironico minuetto, Ford congiunge la figlia, salvata dall’astuzia femminile, a Fenton. Il padre, come in ogni opera buffa che si rispetti, è costretto a fare buon viso a cattivo gioco, mentre le «ansie leggiadre» dei due ragazzi sono la tangibile consolazione di ognuno. Che rimaneva ancora da dire? Che tutti quelli che avevano supposto troppo, e a torto, erano stati puniti: da Falstaff a Ford, al dottor Cajus. Mancava solo la licenza finale. Era stato il primo brano che Verdi aveva composto, e l’aveva scritto a Boito nell’agosto del 1889:
«Mi diverto a fare delle fughe!... Sì signore: una fuga... e una fuga
buffa... che potrebbe stare bene in Falstaff!... Ma come una fuga buffa?
perché buffa? direte Voi?... Non so come, né perché, ma è una fuga buffa!».
Di tutte le forme musicali Verdi scelse la più severa – e dunque sulla
carta una delle meno adatte a terminare un’opera comica. Ma egli volle scrivere
così la licenza della sua vita, e insieme il suo più bel testamento di artista
per celebrare con vitalità la fine di una stagione indimenticabile del
melodramma. Ai tempi della commedia dell’arte, qui rivissuta con intenso
affetto, si chiedeva al pubblico se si fosse divertito o avesse ben compreso il
significato dell’opera mediante la licenza; così fece Verdi, trascinando con
lui gli interpreti per cantare un coro finale insieme a Falstaff. “Tutto nel
mondo è burla”: l’arte si è miracolosamente congiunta alla vita. Dopo
cinquantaquattro anni di presenza ininterrotta sui palcoscenici del mondo, per
Verdi era davvero impossibile chiudere meglio di così.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Testamento musicale di Giuseppe Verdi, Falstaff non è di facile
comprensione se ascoltato in maniera superficiale. La partitura è straordinaria
e, assieme al precedente Otello, ci mostra la maestria di Verdi che si
avvale di una orchestrazione che non ha nulla da invidiare ai grandi
compositori europei. Di quest’opera io ritengo siano indispensabili queste
edizioni:
- Edizione audio diretta da Arturo Toscanini nel 1950 a New York (G.
Valdengo, F. Guarrera, H. Nelli);
- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1956 a Londra (T.
Gobbi, R. Panerai, E. Schwarzkopf);
- Edizione audio diretta da Leonard Bernstein nel 1966 a Vienna (D.
Fischer-Dieskau, R. Panerai, I. Ligabue);
- Edizione video diretta da Carlo Maria Giulini nel 1982 a Londra (R.
Bruson, L. Nucci, K. Ricciarelli);
- Edizione video diretta da Riccardo Muti nel 2001 a Busseto (A. Maestri,
R. Frontali, B. Frittoli);
- Edizione audio diretta da Colin Davis nel 2004 a Londra (M. Pertusi, C.
Alvarez, A. Ibarra).
L’edizione del 1950 diretta da Arturo Toscanini è senza dubbio un punto
di riferimento per la storia interpretativa di quest’opera. L’anziano direttore
ci porta una concertazione vibrante, secca (come piaceva a lui), dal ritmo
serrato ma di una pura bellezza. Giuseppe Valdengo è completamente allineato
con la visione di Toscanini e lascia in disco un Falstaff di prim’ordine. Anche
il resto del cast è ben assortito senza particolari punte né in alto che in
basso.
L’edizione del 1966 vede la direzione strepitosa (credo la migliore in
assoluto di quest’opera insieme a quella di Karajan) di Leonard Bernstein che
si approccia al capolavoro verdiano mettendoci brio, ritmo, spassosità. Ad
ascoltare questa edizione ci si diverte e la concertazione sovrasta tutti.
Interessantissimo è l’approccio di Dietrich Fischer-Dieskau al personaggio di
Falstaff, tutto giocato sulla voce dal colore molto particolare. Molto in parte
tutto il cast tra cui voglio ricordare Rolando Panerai (a mio parere il miglior
Ford in assoluto, anche se qui meno incisivo che nell’edizione diretta da
Karajan), Ilva Ligabue (Alice), Juan Oncina (Fenton) e Graziella Sciutti
(Nannetta).
Il video dell’edizione registrato al Covent Garden di Londra nel 1982
vede la direzione particolarissima (corposa, melodiosa, dai ritmi blandi ma
dall’aiuto e supporto quasi “amorevole” dei cantanti) di Carlo Maria Giulini:
la sua concertazione, sono sincero, al primo ascolto non mi ha entusiasmato ma
poi ascoltandola più volte mi è rimasta (e continua a rimanermi) impressa come
una delle più belle. Nobilissimo il Falstaff di Renato Bruson così come è
esuberante il Ford di Leo Nucci. Buona l’Alice di Katia Ricciarelli così come
la Quickly di Lucia Valentini Terrani.
Altro video impresso nella mia mente è quello registrato nel “gioiellino”
che è il Teatro Verdi di Busseto con la direzione (all’inizio forse un po’
troppo arrembante ma che poi si dispiega in leggerezza, con un terzo atto
splendido) di Riccardo Muti. Ambrogio Maestri è il Falstaff degli ultimi
vent’anni e qui si dimostra uno straordinario artista, sia dal punto di vista
vocale che attoriale. A mio parere solo lui compete con Tito Gobbi per la palma
di “miglior Falstaff” in assoluto. Molto buono tutto il cast che vede l’ottimo
Ford di Roberto Frontali, la musicalissima Alice di Barbara Frittoli, la
dolcissima Nannetta di Inva Mula e l’ottimo Fenton di Juan Diego Florez.
Nel 2004 dirige quest’opera un altro grande “vecchio” della direzione
d’orchestra: Colin Davis. La sua direzione è di una musicalità assoluta
(aiutato in questo dall’ottima London Symphony Orchestra) e riesce ad donare quest’aura
anche ai cantanti. Veramente interessante il Falstaff di Michele Pertusi così
come il Ford di Carlos Alvarez. Buono, ma non entusiasmante, il resto del cast
vocale.
L’edizione che però mi sento di considerare la migliore e più completa in
ogni sua parte è quella del 1956 diretta da Herbert von Karajan. La sua
direzione è corposa ma mai pesante, dai tempi giusti e mai troppo veloci o
troppo lenti, salda ma nello stesso tempo coscienziosa nell’accompagnamento dei
cantanti. Insomma per me (assieme a Bernstein) la migliore. Tito Gobbi è
Falstaff in tutto e per tutto (a lui solo Maestri si avvicina), il suo
personaggio lo si vede anche solo ascoltandolo. Una lezione di canto ed
interpretazione la sua. Il livello di straordinarietà del cast vocale è ineguagliabile:
mai sentita una Alice come quella della Schwarzkopf mentre Rolando Panerai
incide qui il miglior Ford di sempre. Luigi Alva è un Fenton cristallino che si
incastra in maniera ottimale con la Nannetta di Anna Moffo. Impressionante la
Quickly di Fedora Barbieri così come bravissimi i restanti interpreti.
Qui di seguito il link per ascoltare il capolavoro verdiano diretto da
Karajan con protagonista Tito Gobbi:
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