ALMANACCO OPERISTICO - 17 febbraio - MADAMA BUTTERFLY di G. Puccini

MADAMA BUTTERFLY

Tragedia giapponese in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal dramma Madame Butterfly di David Belasco

Musica di Giacomo Puccini

 

Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904

 

Uscito dal trionfale successo di Tosca (Roma 1900), Puccini aveva preso in considerazione numerosi progetti, avanzati per lo più da quell’autentica miniera di idee e di stimoli che fu Luigi Illica: da Tartarino di Tarascona a Notre Dame de Paris, da Memorie di una casa di morti all’Adolphe di Benjamin Constant. Ma niente riuscì a cancellare l’impressione suscitata da Madame Butterfly vista dal musicista a teatro a Londra, anche se aveva capito ben poco del testo, recitato in inglese. Nel 1898 John Luther Long aveva pubblicato un racconto omonimo, poi ridotto ad atto unico da David Belasco, uno dei più abili uomini di teatro americani, a cui Puccini ricorrerà anche per La fanciulla del West, subito dopo aver scritto Butterfly. La lacrimevole storia della giapponesina sedotta, abbandonata e suicida era una vicenda umana che gli consentiva di esplicare tutta la sua capacità di commuovere, di esercitare quel ‘ricatto dei sentimenti’ al quale le platee di tutto il mondo, allora come oggi, difficilmente riescono a sottrarsi. La scelta del soggetto cadeva dunque su un’opera che aveva superato il fuoco del palcoscenico e che possedeva già una teatralità esplicita, di cui la musica sarebbe stata un ulteriore potenziamento. Certamente dovette molto stimolare la fantasia musicale di Puccini l’ambientazione esotica, quell’estremo Oriente che, allo scadere del secolo XIX, aveva sostituito – nella ‘moda’ letteraria e teatrale – le turcherie in voga nel Settecento e in età rossiniana. Il Giappone si stava affacciando sulla ribalta politica internazionale, e la guerra russo-giapponese del 1905 sancirà questa volontà di emergere del paese orientale; le suppellettili, i paraventi laccati, i delicati acquerelli, alcuni vocaboli (ikebana, harakiri, kimono, obi) cominciavano a entrare nelle case della borghesia europea e a suggestionare i pittori dell’Art Nouveau e della Sezession viennese. Gli scrittori avevano tratto sottili suggestioni da questa terra incantata e misteriosa, delicata e terribile; ed è d’obbligo citare il romanzo Madame Chrysanthème di Pierre Loti, che fornì numerosi elementi a tutto il primo atto di Butterfly, alla scena di nozze della quale non è traccia né nel racconto di Long né nell’adattamento teatrale. C’erano stati, ancora nel dominio del teatro leggero, Arthur Sullivan che nel 1885 aveva musicato The Mikado e Sidney Jones con The Geisha (1896); ma su Puccini maggiore suggestione esercitò l’Iris di Mascagni, anch’essa di ambiente giapponese, accolta con favore nel 1898. La cornice orientale, dunque, affascinò intensamente il compositore, tanto che volle documentarsi ampiamente sulle musiche, sugli strumenti giapponesi, giungendo addirittura a citare più di una decina di temi autentici nella nuova partitura; Mascagni, invece, si era limitato a pochi spunti e aveva lavorato tutto d’invenzione. Per la recitazione, Puccini seguì i consigli di una specie di Sarah Bernhardt nipponica, la celebre Sada Jacco; per le usanze e il décor ricorse alle indicazioni della moglie dell’ambasciatore giapponese. Una volontà di documentazione puntigliosa, di un «naturalismo disarmante», che stupisce e quasi indispone, solo se si pensi che, negli anni in cui Butterfly vedeva la luce, la grande stagione naturalistica si stava consumando: nella letteratura, nel teatro, nella musica.

Iniziata nel 1901, la composizione procedette con numerose interruzioni; l’orchestrazione venne avviata nel novembre 1902 e portata a termine nel settembre dell’anno seguente, e soltanto nel dicembre del 1903 l’opera poté dirsi completata in ogni sua parte. La sera del 17 febbraio 1904, nonostante l’attesa e la grande fiducia dei suoi artefici, la Butterfly cadde clamorosamente alla Scala di Milano, inducendo autore ed editore a ritirare lo spartito e a sottoporre l’opera a un’accurata revisione che, attraverso l’eliminazione di alcuni dettagli e l’opportuna modifica di scene e situazioni, la rese più agile e proporzionata. Nella nuova veste Madama Butterfly venne accolta con entusiasmo al teatro Grande di Brescia appena tre mesi dopo, il 28 maggio. Tale versione tuttavia non è quella che si ascolta oggi sulle scene, poiché Puccini, nella sua connaturata incontentabilità, ritornò ancora sullo spartito, tanto che si conoscono addirittura quattro differenti edizioni a stampa. Ci furono alleggerimenti: la soppressione di parte delle battute ‘colonialiste’ di Pinkerton, che ironizza sulle abitudini giapponesi; minor rilievo per la figura dello zio ubriacone Yakusidé, che si avventa sul buffet preparato per le nozze; altri piccoli tagli nel primo atto. Più vistoso lo smembramento del lunghissimo secondo atto (soluzione proposta già da tempo dallo stesso Giacosa), mentre il nuovo terzo atto veniva arricchito dalla ‘romanza’ per il tenore “Addio, fiorito asil” e presentava varie modifiche nella scena fra il console, Butterfly e Kate. Inoltre venne modificata la melodia d’entrata di Butterfly (che ritorna nel duetto d’amore), vennero eseguiti tagli all’aria del secondo atto “Che tua madre” e aggiustamenti alla frase di Butterfly «O a me, sceso dal trono», nel suo canto finale “Tu, tu, piccolo Iddio”. Nella versione definitiva del 1906 Madama Butterlfy si stabiliva nel repertorio, diventando in breve volgere di anni una delle partiture più rappresentate di tutta la storia dell’opera, anche se riserve continuano a essere avanzate dagli studiosi, non esclusi i ‘pucciniani’ più convinti, come Claudio Casini, che insiste sul «manierismo» di Butterfly, o Leonardo Pinzauti, che riprende la formula dell’opera «peso piuma» (come la definì il vecchio Ricordi) negandole la qualifica di capolavoro: «un lavoro discontinuo, tenuto insieme soprattutto da un consumatissimo mestiere». Indubbiamente Madama Butterfly, con la sua vicenda sentimentale, con i suoi personaggi esemplati sul reale, poteva apparire forse un prodotto fuori stagione, diagnosi avanzata da Claudio Sartori per giustificare il fiasco della ‘prima’. Tuttavia la strepitosa rivincita che l’opera ottenne nella rappresentazione a Brescia significò che, pur con un apparente ‘vecchio gioco’, l’autore aveva fatto centro ancora una volta.

 

Atto primo. A Nagasaki, in epoca presente. In una casa in collina il tenente della marina americana, Pinkerton, attende il corteo nuziale della sua sposa, la geisha Cio-cio-san. Durante l’attesa Goro, sensale di matrimoni, gli mostra la casa, magnificandone gli accessori, poi gli presenta i servitori e Suzuki, cameriera di Cio-cio-san. Giunge il console americano Sharpless (duetto “Ah!... quei ciottoli m’hanno sfiaccato!”); Pinkerton gli rivela la sua morale libertina e cinica (“Dovunque al mondo lo Yankee vagabondo”) e infine non tralascia di descrivere i pregi della futura consorte (“Amore o grillo”), dichiarando di volerla sposare secondo la legge giapponese, con il diritto di ripudiarla anche dopo un mese. Intanto la giovane donna, ignara e innamorata, esprime la sua gioia alle amiche (voce di Butterfly: “Spira sul mar”) e, appena entrata in scena, presenta i parenti al futuro marito. Terminata la cerimonia nuziale, irrompe lo zio bonzo, maledicendo la nipote per aver rinnegato la religione degli avi (aria di Butterfly: “Ieri son salita tutta sola in secreto alla Missione”); Pinkerton lo scaccia e rimane finalmente solo con Butterfly (duetto “Viene la sera... Bimba dagli occhi pieni di malia”).


Atto secondo. In una stanza della casa Butterfly discorre con Suzuki: Pinkerton è partito, promettendo di tornare in primavera, ma da tre anni non dà notizie di sé. Nonostante i dubbi dell’ancella, Butterfly, forte di un amore ardente e tenace, è convinta di non essere stata abbandonata dal proprio marito e fiduciosa l’attende (“Un bel dì vedremo”). Sharpless giunge con Goro, con lo scopo di leggerle la lettera in cui si annuncia l’arrivo del tenente e il suo nuovo matrimonio con un’americana (duetto “Chiedo scusa...”), ma dopo inutili tentativi non osa riferire tale messaggio. Intanto Goro propone a Butterfly nuovi facoltosi pretendenti, dal momento che, per la legge giapponese, la donna abbandonata è considerata di nuovo libera, ma perfino il nobile e ricco Yamadori viene respinto: ella dichiara ostinatamente di ritenersi sempre maritata. Quando Sharpless tenta di prepararla alla notizia dell’abbandono, Butterfly gli mostra il figlio di cui Pinkerton ignora l’esistenza (“Che tua madre”). Intanto al porto sta approdando una nave americana, ed è proprio quella di Pinkerton; Butterfly la identifica col cannocchiale e, commossa, corre felice sul terrazzo seguita dalla sua ancella (“Scuoti quella fronda di ciliegio”), adorna la casa di fiori (valzer dei fiori: “Gettiamo a mani piene”), indossa per la particolare occasione le vesti nuziali e veglia tutta la notte in attesa dell’amato (coro a bocca chiusa).


Atto terzo. È l’alba (preludio orchestrale, coro di marinai). Butterfly, dopo aver aspettato inutilmente, si allontana dalla stanza col bimbo addormentato e sale a riposare. Poco dopo Pinkerton, accompagnato da una giovane donna, Kate, da lui sposata negli Stati Uniti, giunge con l’intento di prendersi il bambino – della cui esistenza è stato messo al corrente dal console Sharpless –, portarlo in patria ed educarlo secondo gli usi occidentali. Egli contempla la casa con grande rimpianto (“Addio, fiorito asil”) e preso dal rimorso si allontana, proprio nel momento in cui Cio-cio-san fa il suo ingresso con il figlio. Sharpless le consiglia di affidare il bambino ai Pinkerton (“Io so che alle sue pene”) ed ella a malincuore acconsente; tuttavia, ormai privata di tutti gli affetti più cari, decide di togliersi la vita. In silenzio, senza clamori, dopo aver abbracciato disperatamente il figlio (“Tu, tu, piccolo Iddio”), si uccide con un pugnale; quando Pinkerton entrerà nella casa di Butterfly per chiedere il suo perdono, sarà ormai troppo tardi.

 

Nel primo atto Puccini compie il suo massimo sforzo di ricostruzione pittorica ambientale, specialmente quando l’orchestra, in cui predominano i procedimenti, i ritmi, i temi e le scale orientali, procede alla coloratissima presentazione del parentado di Butterfly; mentre, com’è naturale, Pinkerton e Sharpless cantano secondo i tradizionali moduli pucciniani. Nel secondo e terzo atto si fa meno invadente l’ambientazione orientaleggiante, cui era dedicata tanta parte del primo: è come se Cio-cio-san, in una «casa americana», come ella dice, faccia sempre più spesso ricorso a invenzioni melodiche d’impronta occidentale, mentre la scrittura orchestrale e il gusto timbrico restano costantemente informati a una ricercatezza estrema, a una sagacia di dosaggi, a una sensibilità per il particolare che molto debbono alla cultura musicale francese (Debussy, ma anche Ravel). La costruzione a tasselli, a brevi episodi, propria della prima parte dell’opera cede a più larghe campiture, a ‘quadri drammatici’ incentrati su situazioni emotive di ampio respiro, che inducono Puccini a strutturare l’atto secondo moduli, se vogliamo, più tradizionali. Pensiamo alla celebrazione della speranza nell’aria “Un bel dì vedremo”, allo scontro tra realtà e illusione nel duetto Butterfly-Sharpless, all’affetto materno e all’ipotesi del suicidio raffigurati nella tragica sarabanda di “Che tua madre”, come anche alla disposizione d’animo fiduciosa e disperata della protagonista espressa dal coro a bocca chiusa. Notevole anche l’ampia pagina sinfonica, la più ambiziosa di tutta l’opera, che apre il terzo atto, in cui Puccini dà fondo a tutte le sue risorse di sapiente orchestratore e di abile ‘costruttore a frammenti’. L’attesa di Cio-cio-san è descritta dall’orchestra attraverso un sagace impiego dei cosiddetti ‘ritorni logici’ dei temi degli atti precedenti, quasi un incomposto e intenso riaffiorare alla memoria e alla coscienza della donna di tutto un mondo di affetti, di momenti perduti, di sogni.

Nel suo insieme, il linguaggio musicale di Butterfly non si allontana in modo clamoroso da quello di Bohème e Tosca: l’elemento di distinzione tra questa opera e le precedenti non è infatti da cercarsi nel melodismo puro e semplice, ma anzitutto nel cosiddetto ‘ aggiornamento’ armonico, che investe la scrittura orchestrale (solo in parte anche la condotta vocale) facendo tesoro delle esperienze dei musicisti francesi; tuttavia il tessuto sinfonico pucciniano, investito da una rigogliosa inventiva melodica, rivela l’autore italiano e si distacca nettamente dalla frantumazione cellulare di quello debussiano. E se non inedita era l’acclimatazione esotica, con l’uso di scale pentatoniche, esatonali, incomplete, ritmi di danza caratteristici, timbri strumentali ‘locali’, assolutamente nuovo è il modo con cui Puccini si pone di fronte all’elemento ambiente, diverso il ruolo che assegna allo ‘sfondo’ in questa rinnovata drammaturgia. Con Butterfly il musicista sente per la prima volta la necessità di una documentazione larga e minuziosa, e se inventa ex novo alcuni temi orientaleggianti, si cura che posseggano il particolare colorito di quelli originali, sì da costituire, musicalmente, un autentico polo d’attrazione – rispetto alle invenzioni melodiche ‘occidentali’. Inoltre la quantità degli episodi, lo spazio concesso a questo tipo di pittura ambientale è enorme, specialmente nella versione primitiva: i dettagli di scena assumono un valore ‘in sé’, sostituiscono l’azione che, difatti, ristagna, per lasciar posto a queste diffuse pennellate che sanciscono l’importanza dell’elemento decorativo, addirittura al di sopra della patetica vicenda umana. Il ritmo di Butterfly, fin dal primo atto, è la lentezza quasi esasperante, con cui ogni momento della giornata, ogni pensiero, ogni turbamento, è dilatato come attraverso una lente d’ingrandimento, diventando un evento di straordinario rilievo e importanza, come le cose, le piccole cose che accompagnano la quotidiana vicenda della donna: una cintura, un piccolo fermaglio, un ventaglio, la lama con cui il padre si è suicidato, l’obi che vestì da sposa. Questo tipo di frammentazione analitica dei vari momenti della storia va di pari passo a una sorta di diffusione capillare della presenza di Butterfly in tutta l’opera, anche quando materialmente ella non compare. Essa è l’unico centro d’interesse, il costante riferimento per tutti gli altri personaggi, che vivono solo in funzione di lei. Già il primitivo secondo atto si presentava come un lungo monologo interiore della protagonista femminile; le presenze del console e di Yamadori, gli interventi di Suzuki sono da leggersi come espedienti pratici, in omaggio a naturalistiche convenzioni teatrali: in effetti, Puccini ce li fa sentire niente più che come fantasmi della memoria di Butterfly, che si presentano a lei provocandone moti e passioni, ma non posseggono una loro autonomia, né una spiccata caratterizzazione musicale; essi sono pervasi dallo stesso slancio, dalla stessa tenerezza di Butterfly (il buon console come l’antipatico Pinkerton, Yamadori come Kate: «Sotto il gran ponte del cielo/ non c’è donna di voi più felice»), cantano con gli accenti con cui ella li ricorda, li contempla, li trasfigura nella sua tenera mente che si rifiuta alla realtà. Per questo ci è sembrato giusto definire quest’opera come uno stupendo ‘monodramma’, in cui la musica non si cura di altri personaggi, di un loro coerente svolgimento e verità psicologica, ma solo della storia interiore dell’unica protagonista; un monodramma in cui i parametri del teatro naturalista, adottati dal libretto, vengono fatti saltare attraverso il linguaggio musicale. Siamo di fronte a un dramma eminentemente psicologico, anzi psicoanalitico: fu questo davvero che sconvolse i frequentatori dei teatri d’opera del primo Novecento. E, ancor più che le precedenti opere pucciniane, Butterfly era l’apoteosi del mito femminile, così cara a tutta la cultura di fine Ottocento, realizzata con i moderni metodi dell’analisi. Strano che questa storia freudiana fosse a scriverla un italiano e non un musicista di estrazione mitteleuropea, come ad esempio Richard Strauss; ma i tempi per creare un teatro che non fosse di emblemi, ma di uomini e donne palpitanti, ‘veri’, non erano ancora venuti, nella soddisfatta Germania di Guglielmo II. Là, la borghesia si recava all’opera con l’idea di trovare raffigurato un mondo platonico, iperumano a cui astrattamente tendere. Da noi i musicisti cercavano la via dell’identificazione fra storie rappresentate e pubblico presente in sala; ma Puccini si spingeva con questa opera «subdolamente antica» ancora più in là: gli indicava i modi attraverso cui sarebbe giunto, assai più tardi, a comprendere il suo straniamento dalla realtà.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

LA MIA PROPOSTA

Capolavoro straordinario di Giacomo Puccini è, a mio parere, da ascoltare nelle versioni che qui di seguito elenco:

- Edizione audio diretta da Lorenzo Molajoli nel 1929 a Milano (R. Pampanini, A. Granda, G. Vanelli, C. Velazquez);

- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1955 a Milano (M. Callas, N. Gedda, M. Borriello, L. Danieli);

- Edizione audio diretta da John Barbirolli nel 1966 a Roma (R. Scotto, C. Bergonzi, R. Panerai, A. Di Stasio);

- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1974 a Vienna (M. Freni, L. Pavarotti, R. Kerns, C. Ludwig);

- Edizione audio diretta da Giuseppe Sinopoli nel 1987 a Londra (M. Freni, J. Carreras, J. Pons, T. Berganza);

- Edizione video diretta da Daniel Oren nel 2004 a Verona (F. Cedolins, M. Giordani, J. Pons, F. Franci);

- Edizione video diretta da Riccardo Chailly nel 2016 a Milano (M.J. Siri, B. Hymnel, C. Alvarez, A. Stroppa).


La vecchissima registrazione del 1929 è imperniata sulla classe di Rosetta Pampanini che sicuramente propone un canto molto agée rispetto alle orecchie odierne ma di tutto rispetto. Questa, insieme all’edizione che considero la migliore, è la prima mia Madama… acquistata in un mercatino tanti e tanti anni fa.


L’edizione scaligera del 1955 vede una direzione di primissimo ordine di Herbert von Karajan ed ha nei due protagonisti una coppia, forse agli antipodi, ma eccezionale. Maria Callas per voce, colore e impostazione non ha sulla carta le caratteristiche per impersonare la “bambina” Cio-cio-san eppure la sua è una interpretazione memorabile per come riesce a piegare la sua vocalità ad una parte che sicuramente la metteva non a proprio agio. Bellissimo il Pinkerton di Nicolai Gedda, anche lui in una veste poco usuale.


Karajan completa ed esalta ancora di più la sua visione di questo capolavoro pucciniano con l’edizione del 1974. Qui ha a disposizione altri due grandissimi artisti come Mirella Freni (una grandissima Cio-cio-san ma che però non eguaglia la sua Mimì) e Luciano Pavarotti (tra i migliori Pinkerton in quanto a voce e musicalità anche se, come da prassi, si prende le sue concessioni in termini di fiati e solfeggio).


L’edizione del 1987 vede una direzione molto particolare (come era suo uso) di Giuseppe Sinopoli: la sua è sicuramente una Butterfly alternativa rispetto alla “classica” di Karajan. Mirella Freni si conferma anche qui una grandissima artista così come Josè Carreras impersona un buonissimo Pinkerton.


L’edizione areniana del 2004 ci propone una delle migliori Cio-cio-san degli ultimi vent’anni: Fiorenza Cedolins. La sua interpretazione è molto classica e pregnante. Qui è attorniata da buoni comprimari e da un ottimo direttore d’orchestra come Daniel Oren che cerca di ottenere il massimo possibile dall’orchestra veronese. Classicissimo e visivamente bellissimo l’impianto scenico di Franco Zeffirelli.


L’edizione del 2016 diretta ottimamente da Riccardo Chailly, per l’apertura della stagione scaligera, ha come punto fondamentale proprio l’aspetto musicale riguardante la concertazione. Motivo di interesse è poi la scelta di eseguire l’edizione della prima del 1904, praticamente mai eseguita. Buoni i cantanti anche se non raggiungono le vette delle edizioni precedenti.


L’edizione che io però mi sento di consigliare è quella diretta da John Barbirolli alla guida dei complessi dell’Opera di Roma. La sua concertazione è, al pari di quella di Karajan, la migliore possibile: la scelta dei tempi, le atmosfere create sono in non plus ultra di questa registrazione. Renata Scotto per me è la Butterfly ideale: ogni nota da lei cantata ha un peso e una pregnanza impareggiabili. Straordinaria la sua maturazione dal primo atto fino alla fine. I momenti memorabili sono tantissimi ma voglio ricordare l’ingresso di Cio-cio-san nel primo atto, la splendida esecuzione di “un bel di vedremo”, la straziante “Che tua madre dovrà prenderti in braccio”… e potrei continuare. Carlo Bergonzi a mio parere qui fa un capolavoro: voce limpida, ben propensa agli acuti, dona nobiltà (ma il giusto) ad uno dei personaggi più odiosi della storia del melodramma e canta divinamente. Straordinario il suo duetto del primo atto con Cio-cio-san così come splendidamente eseguita anche “Addio fiorito asil”. Rolando Panerai è il miglior Sharpless di sempre (assieme a Gobbi): lui fa del suo personaggio un protagonista quasi al pari della Scotto e di Bergonzi.

 

Ecco il link dove potete ascoltare la registrazione di interpretata da Renata Scotto e Carlo Bergonzi:


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