ALMANACCO OPERISTICO - 17 febbraio - UN BALLO IN MASCHERA di G. Verdi
UN BALLO IN MASCHERA
Melodramma in tre
atti di Antonio Somma, da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Roma, Teatro Apollo, 17 febbraio 1859
Il soggetto, scelto alla fine di un intenso lavoro di ricerca, era stato
scritto quindici anni prima da Scribe per le scene francesi e musicato fra gli
altri da Auber (Gustave III ou Le Bal masqué, Parigi 1833) e, più tardi,
tradotto e riadattato da Cammarano per Mercadante (Il reggente, Torino
1843). Somma era un letterato insigne, ma un librettista nel complesso
inesperto (aveva accettato la collaborazione a patto di essere coperto
dall’anonimato) e il ruolo di Verdi nella stesura del testo fu di conseguenza
attivo e determinante. A metà novembre, visto il libretto, la censura
napoletana richiese la modifica del luogo di azione (in origine la Svezia) e
dello status sociale del protagonista, che non doveva essere un monarca. Verdi
accondiscese, ma rifiutò la proposta di trasportare la vicenda nel XII secolo:
il Medioevo gli appariva di fatto inconciliabile con l’indole di personaggi
ironici e raffinati come il paggio Oscar e lo stesso protagonista. Purtroppo,
l’attentato a Napoleone III da parte di Felice Orsini inasprì ulteriormente
l’atteggiamento dei censori tanto che Verdi, messo di fronte a una versione
riveduta e corretta del soggetto, dal titolo Adelia degli Adimari,
ambientata nella Firenze del XIV secolo, rifiutò recisamente di musicarla,
dando seguito a una vera e propria battaglia legale. Sfumata la possibilità di
dare l’opera a Napoli, il musicista, desiderando rifarsi, si rivolse a Roma,
dove nello stesso periodo veniva rappresentata una commedia di Tommaso Gherardi
del Testa sul soggetto del Gustave III. Verdi confidava che, se la
censura aveva autorizzato una versione in prosa del soggetto, non poteva ora
avanzare troppe riserve nei confronti di una riduzione dello stesso a dramma
per musica. In effetti gli autori ebbero ragione della censura in cambio di
altre concessioni (l’azione fu ambientata nel XVII secolo in America
settentrionale, Riccardo perse anche il titolo di duca e si accontentò di
quello di conte, molti termini ed espressioni furono soppresse o modificate),
l’opera assunse la fisionomia che conserva tuttora e Verdi riuscì nell’intento
di ridicolizzare il comportamento delle rigide autorità napoletane. La prima
rappresentazione non venne favorita dalla prestazione dei cantanti, soprattutto
femminili, ma il successo di pubblico fu all’altezza della fama di Verdi.
Maggiori riserve furono manifestate dalla critica, in specie da quella più
sensibile alle esigenze di rinnovamento, che trovò l’opera troppo
convenzionale. Il libretto fu ritenuto ai limiti dell’assurdo per alcune
espressioni e situazioni, privo di energia e con personaggi dal carattere
scarsamente delineato. Più in generale, sconcertò quella commistione di ironia
e di tragedia che, da Rigoletto in poi, Verdi aveva spesso ricercato e
che, per usare una felice espressione di Julian Budden, fa di Un ballo in
maschera «una commedia con lati oscuri».
Atto primo. Riccardo ha organizzato per l’indomani una sontuosa
festa in maschera con un ballo. Solo nelle sue stanze, scorre con trepidazione
la lista degli invitati: Amelia, della quale è segretamente innamorato, non
mancherà (“La rivedrà nell’estasi”). Mentre medita, combattuto tra l’amore e il
timore di essere scoperto, sopraggiunge Renato. Riccardo trasale, ma l’amico
vuole solo informarlo di una congiura ordita da Samuel e Tom (“Alla vita che
t’arride”). Intanto, tra le sentenze da firmare, giunge un ordine di esilio per
Ulrica, della quale Oscar non esita a decantare i prodigiosi poteri (“Volta la
terrea fronte”). Riccardo, divertito ed eccitato, decide di recarsi con i suoi
più fidi cortigiani sotto mentite spoglie a visitare l’indovina (“Ogni cura si
doni al diletto”). Davanti all’antro di Ulrica la gente si raduna per udire le
sue profezie (“Re dell’abisso, affrettati”). Riccardo, travestito da pescatore,
si cela tra la folla. Silvano si lamenta con l’indovina di non avere mai
ricevuto dal conte una ricompensa per i suoi servigi. Ulrica gli rivela che
presto otterrà del denaro e un titolo: subito Riccardo, che vuole accreditare
l’indovina, infila di nascosto quanto richiesto nelle tasche del suddito
suscitando l’entusiasmo dei presenti. Giunge un uomo, che il conte riconosce
come un servo di Amelia: la donna chiede un colloquio privato a Ulrica. Tutti
si allontanano ma Riccardo, approfittando della confusione, si nasconde. Giunge
Amelia, inquieta; chiede un rimedio per liberarsi da una passione illecita che
la divora. Mentre Riccardo esulta, certo di essere amato, Ulrica consiglia ad
Amelia di recarsi nottetempo presso il campo ove si eseguono le sentenze
capitali: lì troverà un’erba che fa al caso suo (“Della città all’occaso”).
Sopraggiungono gli amici del conte travestiti; tra loro sono anche Samuel e
Tom, i cospiratori. Riccardo porge subito la mano a Ulrica (“Di’ tu se fedele”)
ma l’indovina, dopo averla guardata, distoglie lo sguardo da lui, turbata. Il
conte insiste e alla fine Ulrica cede, ma le sue parole gelano il sangue ai
presenti: Riccardo morrà presto, non sul campo di battaglia ma per mano di un
amico, di colui che per primo gli stringerà la mano (“È scherzo od è follia”).
Il conte, per metà incredulo e per metà divertito, tra l’orrore dei presenti, sfida
la terribile profezia offrendo a ognuno la sua mano. Solo Renato, sopraggiunto
in quel momento, accetta di stringerla. A quel gesto tutti hanno un respiro di
sollievo, mentre Samuel e Tom restano delusi: Renato è il più caro e devoto
amico del conte, come credere a questo punto all’indovina? Riccardo si rivolge
trionfante a Ulrica, che ha ormai riconosciuto in lui il conte, e se ne prende
gioco: come credere a un’indovina che non ha riconosciuto subito il suo signore
e che nulla sembra sapere di un ordine scritto di esilio che pende sulla sua
testa? Mentre Riccardo, di ottimo umore, ricompensa ugualmente Ulrica, giunge
Silvano attorniato dal popolo; ha riconosciuto nel marinaio il conte e vuole
ringraziarlo dei doni ricevuti. Mentre tutti esultano solo l’indovina rimane
turbata nella sua terribile certezza (“O figlio d’Inghilterra”).
Atto secondo. È notte. In preda all’angoscia, Amelia si aggira nel
campo delle sentenze in cerca dell’erba di cui Ulrica le ha parlato (“Ma
dall’arido stelo divulsa”), ma non è sola: Riccardo è giunto, desideroso solo
di manifestarle il suo amore. La donna si schermisce e si tormenta: ama colui
per il quale suo marito darebbe la vita, ma Riccardo insiste (“Non sai tu che
se l’anima mia”) e alla fine Amelia cede ai sentimenti. Mentre gli amanti si
abbandonano l’uno nelle braccia dell’altro (“Oh, qual soave brivido”)
sopraggiunge Renato. Amelia, in preda all’agitazione più viva, si nasconde
sotto un velo. Renato è in allarme: Samuel e Tom stanno ordendo l’ennesima
congiura ai danni del conte; occorre partire. Riccardo non perde il suo sangue
freddo: ordina a Renato di scortare la donna velata alle porte della città
rispettando il suo anonimato e si allontana. Giungono i cospiratori. Irritati
dal fallimento vogliono almeno scoprire l’identità della misteriosa donna
velata. Inutilmente Renato ne difende a spada tratta l’anonimato: al culmine
della concitazione il velo cade dal volto di Amelia rivelando a tutti la realtà
(“Ve’, se di notte qui colla sposa”). Odio e vergogna opprimono l’animo di
Renato che, desideroso di vendicarsi, convoca per l’indomani Samuel e Tom. Poi,
con la morte nel cuore, l’uomo assolve l’ingrata richiesta dell’amico e si
allontana con la moglie.
Atto terzo. Dopo un drammatico confronto con Amelia, Renato la condanna
a morte ma le concede di rivedere per l’ultima volta il figlio (“Morrò, ma
prima in grazia”). Rimasto solo, fissa con crescente emozione il ritratto del
conte: no, non Amelia morrà ma Riccardo stesso (“Eri tu che macchiavi
quell’anima”). Giungono Samuel e Tom; Renato si dichiara disposto a unirsi alla
loro congiura. I due esitano, ma quando l’uomo offre la vita del figlio in
pegno si convincono della sua buona fede. Ma chi ucciderà Riccardo? Tutti e tre
hanno ottime ragioni per farlo. Quando Amelia rientra, Renato ha un’idea: sarà
lei a estrarre il nome dell’assassino. La sorte designa Renato, che esulta.
Sopraggiunge Oscar con l’invito al ballo in maschera, che Riccardo ha
organizzato per la sera stessa. Renato propone ai congiurati di approfittare dell’occasione:
la maschera renderà più facile la vendetta. Amelia, che ha ormai compreso,
medita sul modo per salvare il conte. Intanto, nel suo gabinetto privato,
Riccardo ha deciso: Renato ripartirà per l’Inghilterra ed egli non rivedrà mai
più Amelia. Presagi funesti si mescolano al desiderio di rivederla un’ultima
volta (“Ma se m’è forza perderti”). Giunge Oscar con una lettera di una donna
che avverte il conte del complotto, ma Riccardo ha un solo desiderio: rivedere
un’ultima volta Amelia (“Sì, rivederti Amelia”). Durante il ballo, Renato
apprende da Oscar sotto quale maschera si cela il conte (“Saper vorreste”).
Intanto Riccardo ha un colloquio con l’autrice della lettera, nella quale non
tarda a riconoscere Amelia. I due, pur decidendo di lasciarsi per sempre, si
dichiarano il loro amore (“T’amo, sì, t’amo, e in lagrime”) ma ormai è tardi:
Riccardo cade, colpito a morte da Renato. Tra l’orrore dei presenti l’omicida è
smascherato. Mentre Renato sente crescere dentro di sé la commozione e il
rimorso, Riccardo gli si rivolge: Amelia è pura ed egli intendeva rinunciare
per sempre a lei (“Ella è pura: in braccio a morte”); poi, perdonato l’amico di
un tempo, il conte spira.
Indubbie sono le influenze dell’opera francese, ravvisabili non solo
nella già ricordata combinazione di elementi ironici e drammatici, ma anche
nelle scene ambientate a corte (il tema della stretta – I,5 – e il ballo nel
terzo atto) e per la parte del paggio Oscar, dallo stile leggero ed elegante
(si pensi alle due arie e al quintetto con Amelia, Renato, Samuel e Tom –
III,4). Notevole è anche l’impiego di motivi conduttori: tra tutti, il tema ‘in
staccato’ di Samuel e Tom, che riprende un’idea già espressa nel settimino del
primo atto di Stiffelio, la preghiera di Amelia, enunciata nel terzetto
con Ulrica e Riccardo e riproposta nel preludio al secondo atto e naturalmente
il motivo dell’amore di Riccardo per Amelia. La maturazione del linguaggio
melodrammatico portò Verdi all’uso di armonie raffinate, orientate in senso
coloristico (si pensi alle pagine di Ulrica o allo splendido preludio al
secondo atto), all’aggiornamento di talune formule del repertorio tradizionale
(soprattutto nel duetto tra Riccardo e Amelia nel secondo atto) e
all’approfondimento drammatico del monologo (quello di Amelia al principio del
secondo atto e soprattutto quello di Renato all’inizio del successivo), che
perde rigidità formale e acquista una notevole flessibilità di scrittura: dal
declamato melodico all’arioso, all’aria, all’impiego in senso espressivo delle
pause e del fraseggio.
Nel corso dell’Ottocento l’opera divenne una delle più amate e
rappresentate di Verdi, nonostante due caratteristiche in genere inconciliabili
con le possibilità dei teatri minori: la presenza di ben cinque personaggi
importanti in scena e la necessità di reperire tre voci femminili (Amelia,
Oscar e Ulrica) tutte tecnicamente dotate e di diverso carattere. Al contrario,
dagli anni Venti del nostro secolo, si è giovata meno di altre della cosiddetta
‘Verdi Renaissance’ poiché lo stile eterogeneo di cui si è detto ha fatto
pensare, a torto, a superficialità e a scarso approfondimento psicologico. Più
di recente, si è riconosciuto a quest’opera il merito di avere espresso una
riuscita sintesi tra esigenze di equilibri formali e nuovi elementi stilistici,
e la si è giustamente collocata tra i capolavori della maturità di Verdi.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Melodicamente la ritengo una delle più belle opere di Verdi ed abbisogna
di tante voci che siano all’altezza delle parti cui sono chiamate ad
interpretare. È abbastanza numerosa la discografia (quasi 200 edizioni) e tra
le tante mi sento di suggerirvi queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Tullio Serafin nel 1943 a Roma (B. Gigli, G.
Bechi, M. Caniglia, F. Barbieri, E. Ribetti);
- Edizione audio diretta da Antonino Votto nel 1956 a Milano (G. di
Stefano, T. Gobbi, M. Callas, F. Barbieri, E. Ratti);
- Edizione audio diretta da Erich Leinsdorf nel 1966 a Roma (C. Bergonzi,
R. Merrill, L. Price, S. Verrett, R. Grist);
- Edizione audio diretta da Riccardo Muti nel 1975 a Londra (P. Domingo,
P. Cappuccilli, M. Arroyo, F. Cossotto, R. Grist);
- Edizione audio diretta da Claudio Abbado nel 1979/80 a Milano (P.
Domingo, R. Bruson, K. Ricciarelli, E. Obraztsova, E. Gruberova);
- Edizione audio diretta da Georg Solti nel 1982/83 a Londra (L.
Pavarotti, R. Bruson, M. Price, C. Ludwig, K. Battle);
- Edizione audio diretta da Antonio Pappano nel 2013 a Roma (F. Meli, D.
Hvorostovsky, L. Monastyrska, D. Zajick, L. Giordano).
La registrazione del 1943 è imperniata quasi esclusivamente sulla
straordinaria classe di Beniamino Gigli che ci lascia un Riccardo dalla
straordinaria musicalità. Lo affiancano una Maria Caniglia alquanto acerba e un
buon Gino Bechi come Renato. Interessante l’Ulrica di Fedora Barbieri (anche se
sarà di un livello molto superiore la sua interpretazione dello stesso ruolo
alla Scala nel 1956). Interessante la direzione, sempre attenta al dettame verdiano,
di Tullio Serafin.
L’edizione diretta magistralmente da Erich Leinsdorf vede uno
straordinario Carlo Bergonzi nel ruolo di Riccardo accompagnato da un ottimo
Robert Merrill come Renato e da una bravissima Leontyne Price come Amelia (bravissima
ma questo, a mio parere, non è il suo miglior ruolo verdiano). Interessante ma
non imponente come dovrebbe essere l’Ulrica della Verrett. Da menzionare qui il
miglior Oscar di sempre: Reri Grist.
L’edizione diretta da Riccardo
Muti è soprattutto legata alla sua concertazione, tra le migliori in assoluto.
Il cast è interessante con un Domingo in parte, uno straordinario Cappuccilli,
una buona Cossotto e un’ottima Grist. Interpretazione normale per la Arroyo che
ci lascia una Amelia musicale ma alquanto innocua dal punto di vista
interpretativo.
Claudio Abbado diresse alla
Scala, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, questo grande capolavoro e la sua
interpretazione è sicuramente tra le massime espressioni delle concertazioni a
nostra disposizione. Ottimo il cast con Domingo che rimane in linea con la
prestazione dell’edizione del ’75 e una interessantissima Katia Ricciarelli nel
ruolo di Amelia: io personalmente la trovo un pelino al di sotto della Callas
ma qui è bravissima. Ottimo il Renato di Bruson, che dona forse anche troppa nobiltà
a questo personaggio.
Il baritono veneto è
protagonista anche dell’edizione diretta con vigore, a poco calore, da Georg
Solti. Qui il protagonista è l’ottimo Luciano Pavarotti, che in quanto a timbro
e musicalità, compete senza dubbio per essere il miglior Riccardo della seconda
metà del ‘900. L’Amelia di Margareth Price è tra le migliori che io abbia
ascoltato (trovo che sia poco valorizzata la carriera di questo straordinario
soprano) mentre l’Ulrica della Ludwig, anche se cantata bene, non è sicuramente
un punto di riferimento.
L’edizione in forma di concerto
registrata nel 2013 a Santa Cecilia vede l’ottima direzione orchestrale di
Antonio Pappano oltre la buonissima prestazione del Riccardo degli ultimi anni:
Francesco Meli. Interessanti i ruoli comprimari dove però non brillano come
dovrebbero né la Monastyrska né Hvorostovsky. Brava la Zajick e bravissima
Laura Giordano come Oscar.
L’edizione che io ritengo di riferimento per quest’opera è quella milanese con la direzione orchestrale di Antonino Votto e una straordinaria Maria Callas nel ruolo di Amelia (anche se non è il suo miglior personaggio di sempre la cantante greca incassa una prestazione al “top”). Ottimo è anche Giuseppe di Stefano così come si fa apprezzare il Renato di Tito Gobbi. Ottima anche l’Ulrica di Fedora Barbieri.
Purtroppo sul web non ho trovato l’edizione Votto/di Stefano/Callas per cui vi posto qui di seguito una bella alternativa, registrata l’anno successivo, sempre alla Scala ma dal vivo dove oltre ai protagonisti appena citati troviamo Ettore Bastianini come Renato e la direzione orchestrale di Gianandrea Gavazzeni. A mio parere Gavazzeni qui è al di sotto di Votto, così come Bastianini è al di sotto di Gobbi. Callas – di Stefano – Barbieri sono invece straordinari.
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