FLAUTO COMICO... PIU' CHE MAGICO
Fiaba, commedia, fumetto… e anche qualche caduta di stile
contraddistinguono il “Flauto Magico” mozartiano andato in scena al Festival di
Glyndebourne.
Il team di designer/registi composto da Barbe & Doucet
ambientano l’opera in un hotel di fine ‘800, e le scene e i costumi sono
davvero belli (fondali magnifici, fuochi d’artificio, luci azzeccate). La
Regina della Notte è la proprietaria dell’hotel mentre Sarastro è lo chef, gestore
della sua cucina che allo stesso tempo è cantina e tempio. Tamino è un cliente
dell’hotel che all’inizio gira, durante il suo sonnambulismo, in pigiama e
sogna di essere attaccato da un serpente fatto di stoviglie. Papageno è un
venditore di cuscini, Monostatos non è moro per via del colore della sua pelle
ma è nero per via del carbone che lui utilizza per lavorare nella carbonaia che
fa andare avanti il riscaldamento e l’energia elettrica nell’hotel. I tre genietti
sono tre fattorini che fanno muovere su e giù l’ascensore.
Tutto sembra
ricalcare una certa iconografia… ad un certo punto pare di guardare “Il mago di
Oz” o in altri momenti (vedi le suffragette o certi atteggiamenti delle
cameriere) “Mary Poppins”. Il pubblico ride, anche troppo. Alcune scene sono
poco riuscite come per esempio il duetto del secondo atto con Pamina
addormentata e Monostatos che la guarda ammaliato e quasi sembra tirarsi giù i
pantaloni per fare cosa? Oppure il duetto Papageno-Papagena nel quale viene
esplicitato l’atto sessuale tra i due e poi Papagena partorisce cinque piccoli
neonati. Insomma, forse le buone intenzioni per uno spettacolo divertente ci
sono ma si fermano alla “macchietta”, nulla c’è della profondità del “Flauto
Magico”. Non parlo di massoneria o altro, ma l’intera partitura non può essere
presa come un’opera buffa e inevitabilmente ne risentono i momenti più lirici e
sentimentali che, alla fine, sono le vere perle di quest’opera.
Ryan Wigglesworth dirige l’Orchestra of the Age of
Enlightenment e sebbene sia molto bello il suono proposto dagli strumenti
antichi pare non ci sia una unità piena di intenti tra quello che il direttore
chiede e il risultato finale (inizio d’opera molto restio e prosecuzione che un
po’ alla volta cresce in amalgama).
Il cast a disposizione è sicuramente buono, con alcune punte
nei ruoli maschili. Personalmente mi è piaciuto molto il Papageno di Bjorn
Burger, vero mattatore sia dal punto di vista vocale che scenico. Prestazione
in crescendo, dopo una partenza con il freno a mano tirato, per David Portillo
che ha fatto emergere il lato regale ma nello stesso umano di Tamino. Ben
connotati anche il Sarastro di Brindley Sherratt e il Monostatos di Jorg
Schneider. Caroline Wettergreen mi ha lasciato perplesso nella prima aria,
conclusa con due note acutissime (non scritte da Mozart) che hanno rasentato l’urlo
assassino, mentre nel secondo atto ha cantato molto bene sia l’aria che il
finale. La Pamina di Sofia Fomina l’ho trovata anche troppo “energica” per il
ruolo e non mi ha convinto del tutto. Discreti i ruoli comprimari, con i tre
genietti bravi scenicamente ma vocalmente inascoltabili.
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