IL SIMONE... DELL'ERA POPULISTA
Simon Boccanegra è senza dubbio uno dei capolavori di
Verdi, titolo tra i più complessi al quale il genio di Busseto ha dedicato
moltissimi anni della sua vita.
Il Festival di Salisburgo l’ha messo in scena durante questa
edizione con esiti direi molto buoni.
La regia di Andreas Kriegenburg, abbastanza innovativa ma
comunque coerente con la partitura, pone l’attenzione su quanto al giorno
d’oggi siano i social network il veicolo principale della politica e dei
politicanti, capaci di distruggere un avversario e di rendere “dio” anche chi
effettivamente non lo è. Gli smartphone sono l’emblema di questa visione e fin
dall’inizio vengono usati da una fazione politica genovese, particolarmente impegnata
per l’elezione del nuovo Doge, per twittare le indicazioni agli elettori che
nervosamente leggono e rispondono ai messaggi. Sembra una metafora della
situazione di oggi in cui il sovranismo la fa da padrone e Simone, inconsapevolmente
riprodotto da Paolo e Pietro come tale, viene acclamato dal popolo, non prima
di essersi confrontato con Fiesco e di aver appreso della morte dell’amata
Maria. Dopo il prologo ci troviamo di fronte ad Amelia, che appare quasi come
un ologramma, in mezzo a un gruppo di segretarie armate di tablet, poi Gabriele
Adorno entra in scena cantando la sua aria al pianoforte. E il pianoforte,
insieme ad altri pochissimi elementi, va a costituire l’intera scena che muterà
poco nel corso dell’opera, a parte la grande scatola circolare, posizionata
sulla destra del palco, che funge da sala del consiglio. Il Doge è sempre
attorniato da losche figure (guardie del corpo, manovratori politici, agenti
segreti?) e in mezzo a tutta questa gente a fatica riesce a sapere il segreto
di Amelia. Il secondo atto si apre poi con tanti cadaveri a terra mentre Paolo
prepara il veleno mentre l’atto conclusivo vede in scena tutto il coro sullo
sfondo con Simone che muore, sul proscenio, tra le braccia di Amelia e Adorno
che viene nominato nuovo Doge mostrando un’espressione tra lo sbalordimento e
il terrore. La regia comunque fila via liscia senza interrompere la narrazione
musicale anche se uno degli elementi caratterizzanti l’atmosfera dell’opera, e
cioè il mare, manca in maniera assoluta. Molto probabilmente il regista pensa
solo all’aspetto politico.
Il cast vede nel ruolo del protagonista Luca Salsi. La sua
interpretazione è molto approfondita e, grazie alla morbidezza della sua voce,
ci fa ascoltare un Simone poco autoritario ma anzi preoccupato di capire tutte
le ragioni per far sì che la pace tra le persone abbia la meglio, anche se le
stesse persone non è che ne vogliano tanto sapere. A me personalmente è piaciuto
soprattutto nelle scene intime, cesellate dalla sua sicura e duttile voce.
René Pape è Fiesco e mette in scena un personaggio direi
tutto d’un pezzo, dopo lo smarrimento e l’angoscia iniziale dovuta alla morte
di Maria. Il basso tedesco canta bene, scenicamente è impeccabile… la pronuncia
italiana un po’ meno.
Charles Castronovo è molto bravo nel ruolo di Gabriele Adorno,
anche grazie alla verve scenica e ad una voce un po’ brunita che però riesce a
cesellare in maniera perfetta.
Marina Rebeka, nel ruolo di Amelia, non mi ha convinto del
tutto. La cantante lettone sembra non essere musicalmente “dentro la parte”,
cantando sì bene ma non trovando a mio avviso i colori giusti per il
personaggio, mostrando inoltre alcune asprezze nel registro acuto.
Buono il Paolo di André Heyboer e molto bravo Antonio Di
Matteo nel ruolo Pietro.
Valery Gergiev dirige in maniera molto precisa, con tempi
che al momento giusto si allargano oppure stringono, gli straordinari Wiener
Philarmoniker. Il maestro russo ci dà una lettura veramente ricca di sfumature
di una partitura che, nel passato anche abbastanza recente, ha visto “cadere”
più di qualche “grande” del podio. Unico neo, che a mio avviso il maestro
doveva evitare imponendosi sul regista, l’attacco inziale dell’opera disturbato
volutamente dalle voci dei coristi che parlano al loro smartphone.
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