ALMANACCO OPERISTICO - 17 agosto 2020 - GOTTERDAMMERUNG di R. Wagner
GOTTERDÄMMERUNG
(Il crepuscolo
degli dei)
Terza giornata
della saga scenica Der Ring des Nibelungen, in un prologo e tre atti
Parole e musica
di Richard Wagner
Prima
rappresentazione: Bayreuth, Festspielhaus, 17 agosto 1876
Fiumi d’inchiostro si sono versati per commentare l’evoluzione della
prospettiva wagneriana nella parabola creativa del Ring, che durò quasi
un trentennio, e in particolare per chiarire il senso di quel discorso di
Brünnhilde innanzi alle fiamme purificatrici che arderanno, nel 1876, non solo
la valchiria e il corpo di Siegfried, ma anche il Walhall, poderoso ‘Olimpo’
degli dei guidati da Wotan. Di fronte a un ampio spettro di conclusioni
possibili, Wagner «lasciò parlare la musica, recuperando dalla Walküre
quel tema già cantato da Sieglinde quando apprende che, grazie al sacrificio di
Brünnhilde, sarà madre – un tema mai più utilizzato in seguito […]. Anche qui
Brünnhilde si sacrifica – e l’estatica melodia accenna ad una rinascita, ad un
impeto utopico che non si spegne. […] E così, come nel 1848, il Walhall in
fiamme lascia lo spiraglio per una rinascita, per un mondo migliore. Senza
astruserie concettuali: con una grande melodia lirica, di quelle di cui – da
sempre – l’opera possiede il segreto».
LA TRAMA
Prologo. Sulla rupe delle valchirie. È notte, le tre Norne tessono il filo del destino. La prima Norna narra del frassino del mondo, i cui rami abbracciano l’universo: quando Wotan ne tagliò un ramo per ricavarne la propria lancia, l’albero fu ferito a morte; la seconda ricorda che un giorno Wotan tornò al Walhall con la lancia spezzata e ordinò agli eroi di abbattere il frassino. La terza Norna vede i ceppi del frassino che incominciano a fiammeggiare e invadono con un mare di fuoco l’intera sala del Walhall, dove Wotan siede con gli eroi. Quando le tre sorelle evocano l’anello del Nibelungo, la fune, che si lanciano l’un l’altra, si spezza improvvisamente: la fine degli dei è imminente. Con alti lamenti le Norne raggiungono nell’abisso la loro madre, Erda.
All’alba Siegfried si congeda da Brünnhilde per recarsi nel mondo degli uomini a compiere nuove imprese, e come pegno d’amore le dona l’anello sottratto al drago Fafner che conferisce potere su tutto il mondo, di cui ignora la maledizione. In cambio Brünnhilde gli dona il fedele destriero Grane, che la accompagnava in battaglia quando era valchiria. I due innamorati si separano a fatica, e mentre Siegfried percorre il Reno, risuona il suono vivace del suo corno.
Atto primo. Atrio del palazzo dei Ghibicunghi lungo il Reno. Il
palazzo è abitato da due gemelli, Gunther e Gutrune, figli dei defunti Gibich e
Grimhild, e dal loro fratellastro Hagen, che il nibelungo Alberich aveva
generato violentando Grimhild. L’astuto Hagen suggerisce ai due fratelli di
pensare alle nozze, per la sopravvivenza della loro schiatta. Brünnhilde, la
splendida donna che giace su una rupe circondata di fuoco, sarebbe la sposa
ideale per Gunther; un filtro magico potrebbe far innamorare di Gutrune l’eroe
Siegfried, che in cambio della sua mano potrebbe conquistare Brünnhilde per
conto di Gunther. I due fratelli accettano la proposta.
Proprio in quel momento Siegfried giunge nel palazzo dei Ghibicunghi.
Accolto con cordialità, racconta del tesoro dei Nibelunghi da lui conquistato,
da cui ha tratto solo un anello e un gingillo per lui inutile, l’elmo magico.
Hagen gli spiega che l’elmo può far assumere qualsiasi aspetto a colui che lo
indossa e trasportarlo in ogni luogo con la velocità del pensiero. Gutrune giunge
con una bevanda di benvenuto, che è invece un filtro magico. Istantaneamente
Siegfried dimentica il passato e si accende d’amore per lei. Quando apprende
che la donna desiderata da Gunther sta su un monte circondato da fiamme, si
offre di andarla a conquistare, purché Gunther gli conceda in sposa Gutrune.
Per ingannare Brünnhilde Siegfried indosserà l’elmo, che gli darà le fattezze
di Gunther. Siegfried e Gunther stipulano un solenne patto di sangue e partono insieme
verso la rupe.
Sulla rupe delle valchirie. Brünnhilde contempla l’anello che Siegfried
le ha donato. Giunge Waltraute: dal momento della defezione di Brünnhilde,
Wotan non ha più inviato le altre valchirie sul campo di battaglia. Dopo una
lunga assenza il dio è ritornato nel Walhall con la lancia spezzata e ha fatto
abbattere il frassino del mondo, i cui rami sono ammassati tutt’intorno al
palazzo. Muto e pensoso, Wotan trascorre il tempo circondato dagli altri dei,
pallidi e sofferenti. Tuttavia un gesto generoso potrebbe sanare la
prostrazione estrema di Wotan: se Brünnhilde rendesse l’anello alle figlie del
Reno, il dio e il mondo scamperebbero alla maledizione. Brünnhilde, ancora
troppo felice, non vuole però rinunciare al pegno adorato dell’amore di
Siegfried. Desolata, Waltraute scompare, annunciando orribili sventure. Da
lontano si ode il corno di Siegfried. Brünnhilde esulta, ma grazie all’elmo
Siegfried ha assunto le sembianze di Gunther e la doma con la violenza, strappandole
l’anello e proclamandola sposa di Gunther.
Atto secondo. Tratto di riva davanti alla reggia dei Ghibicunghi.
È notte, Hagen giace semiaddormentato in attesa di Siegfried. Appare accanto a
lui Alberich, che gli ricorda il furto dell’anello compiuto da Wotan. Hagen gli
promette di vendicarlo: assassinerà Siegfried, s’impadronirà dell’anello e,
quando Wotan sarà vinto, i Nibelunghi erediteranno il potere degli dei.
All’alba giunge Siegfried, condotto a destinazione dall’elmo fatato con la
velocità del pensiero, mentre Gunther e Brünnhilde sono ancora in viaggio sul
Reno. Siegfried racconta a Hagen e Gutrune la buona riuscita dell’impresa: ora,
secondo gli accordi, potrà sposare Gutrune.
Arrivano Brünnhilde e Gunther, trasportati da un battello sul fiume.
Quando Brünnhilde vede l’anello al dito di Siegfried, capisce che è stato lui a
sottrarglielo, e lo accusa di averglielo strappato e di averla posseduta sulla
rupe. A questa affermazione, che in realtà si riferisce al tempo dell’idillio
con l’eroe, Gunther e i suoi si sentono traditi. Benché le loro versioni siano
opposte, sia Siegfried che Brünnhilde giurano sulla lancia di Hagen di aver
detto la verità. Incurante delle proteste e del dolore di Brünnhilde, Siegfried
entra nella reggia al braccio di Gutrune per procedere con la celebrazione
delle nozze. Istigati da Hagen, Gunther e Brünnhilde decidono di vendicarsi: sarà
Hagen ad uccidere Siegfried colpendolo alla schiena, l’unica parte del corpo
dell’eroe che Brünnhilde non ha reso invulnerabile, sapendo che mai Siegfried
avrebbe volto il dorso all’avversario. Per parte sua, Hagen conta di
impossessarsi così dell’anello.
Atto terzo. Una valle selvaggia e rocciosa sulla riva del Reno. Le
tre figlie del Reno giocano con le onde e attendono l’arrivo dell’eroe dal
quale sperano la restituzione dell’anello. Giunge Siegfried che, allontanatosi
da Gunther e dai suoi compagni di caccia, si è smarrito nella foresta: egli non
cede alle invocazioni delle ondine. Esse scompaiono annunziando sventura.
I cacciatori, tra cui Hagen e Gunther, raggiungono Siegfried. Prima di
andare a riposare Hagen chiede all’eroe di raccontare le sue gesta e Siegfried
narra la sua infanzia con Mime, la fusione della spada Notung, l’uccisione del
drago. Quando Hagen gli versa nella bevanda un filtro che gli risveglia la
memoria dei fatti più recenti, Siegfried descrive, tra il disappunto di
Gunther, la conquista dell’incantevole donna sulla rupe, Brünnhilde. Per un
istante Siegfried si gira per osservare i due corvi di Wotan comparsi sopra di
lui e viene colpito alle spalle da Hagen. L’eroe muore invocando Brünnhilde per
l’ultima volta. I guerrieri raccolgono il cadavere e gli rendono gli onori
funebri.
Atrio del palazzo dei Ghibicunghi. Gutrune attende Siegfried, ma è tormentata
da neri presentimenti. Giunge Hagen, diabolicamente esultante, che annuncia la
morte dell’eroe. Gutrune accusa Gunther, ma Hagen rivendica di averlo ucciso
lui. Nasce una disputa violenta tra Gunther e Hagen per impadronirsi
dell’anello: Hagen uccide il fratellastro, ma quando cerca di strappare
l’anello dal dito di Siegfried la mano dell’eroe si solleva minacciosa contro
di lui. Sopravviene infine Brünnhilde, che come sposa legittima di Siegfried
vuole morire assieme all’amato; ordina che si allestisca una pira funeraria e
attizza il fuoco. Ora che ha ripreso l’anello che dà il dominio sul mondo,
Brünnhilde vi rinuncia e lo rende alla natura offesa. Offre quindi se stessa
quale vittima sacrificale e si getta tra le fiamme assieme al cavallo Grane: il
fuoco si propaga nel palazzo dei Ghibicunghi, ma un’improvvisa piena del Reno
investe il luogo dell’incendio. Hagen si getta nelle acque per impadronirsi
dell’anello, ma le figlie del Reno, trionfanti, lo affogano. Sullo sfondo appare
il Walhall invaso anch’esso dalle fiamme: Wotan e tutti gli dei, adunati nella
gran sala, sono avvolti dal rogo.
Ci sono volute oltre dieci ore di musica e dramma e oltre dieci anni di
lavoro a Richard Wagner per mettere le sufficienti basi per cominciare quello
che era il suo progetto originario: La morte di Siegfried. Quella che nasceva
come un’opera romantica sulla scia di Der Fliegende Holländer, Tannhäuser
e Lohengrin si era infatti a poco a poco trasformata in una allegoria
dell’eterno conflitto fra le molteplici radici che formano l’animo umano. Il
cambio di titolo in Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei) è sintomatico
della portata allargata che il progetto ha assunto: la morte dell’eroe libero,
il suo cedere nonostante tutto alla maledizione che ha condannato tutti gli
altri, è divenuta qualcosa di più di un semplice evento tragico. Dopo tre
intere opere in cui la venuta di questo Messia è stata preparata e costruita,
il suo martirio è equiparabile alla morte di Gesù Cristo, del figlio di Dio
sulla croce, evento che lacera in due la storia dell’umanità. Quando perfino
Dio scende sulla terra per condividerne il destino mortale, nulla è più lo
stesso, come ben aveva intuito Dostoevskij (il cui “idiota” Myskin ha più che
qualche punto di contatto, se non con Siegfried, almeno col “puro folle”
Parsifal).
L’esigenza di collegare dunque le vicende dei suoi due eroi alle radici
mitiche che li hanno generati e alle forze cosmiche di cui sono incarnazione è
ottemperata fin dal prologo delle Norne, ulteriore aggiunta al progetto
originario. Le tre figlie di Erda ci offrono l’ultimo scorcio sul mondo della
sapienza ctonia di cui Wotan ha proclamato la fine nel terz’atto di Siegfried.
Le troviamo infatti proprio mentre tessono per l’ultima volta, per l’ultima
notte, il filo del destino, narrando ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà,
almeno fin dove il loro sapere può spandersi. L’arrivo dell’alba segnerà la
loro estinzione, e perciò una di esse esordisce domandandosi “Già spunta il
giorno?” (“Dämmert der Tag schon auf?”) mentre in realtà sta soltanto
contemplando la luce del muro di fuoco che protegge i due amanti. Inizia così
l’ultimo racconto delle Norne, che riparte dal “peccato originario” del taglio
del Frassino per tracciare tutta la catena di conseguenze: l’inaridirsi della
natura, l’emergere del mondo dei patti (rune), l’eroe capace di spezzare la
lancia su cui erano iscritti e infine l’accatastamento dei resti del Frassino
per farne una pira per il Walhalla. Ritorna così l’ambiguità chiave e
intraducibile della parola “dämmert”, che è tanto l’albeggiare quanto
l’imbrunire, che è tanto la fiamma della rupe di Brünnhilde quanto la fiamma
che ingoierà gli dei nell’apocalisse finale. Questa è la sapienza ambigua,
sibillina ma eterna del ritmo della natura eternamente diveniente, il cui tempo
è il tempo Aἰών, il fanciullo di Eraclito (Frammento 52) che gioca a scacchi
sulla spiaggia, e che, secondo il poeta persiano Khayyām, ogni tanto tira fuori
nuove pedine e decide di riporre le vecchie nella scatola del nulla. Aἰών è
allora anche il tempo ciclico infinito degli stoici che, ogni 36.000 anni,
annienta e fa rinascere il mondo nella grande fiamma dell’ecpirosi. Aἰών è
infine anche il respiro dell’universo, ciclo di inspirazioni ed espirazioni, di
appropriazioni e di perdite: si veda l’uso che ne fa Omero, nel libro XVI v.453
dell’Iliade, per indicare lo spirare, l’emisit spiritum. Se dovessimo
rintracciare un equivalente musicale di tutto questo lo troveremmo certamente
nel tema del Fato (#87), che presentiamo qui col suo affine tema dell’annuncio
di morte della Valchiria (#88):
Questo tema di due accordi intervallati da una semiminima ci richiama
proprio il movimento di inspirazione ed espirazione, ed ovviamente, insieme al
#88, è uno dei temi ricorrenti della scena delle Norne. Esso ben rappresenta la
loro sapienza che viene dal nulla e ritorna alla nullificazione
nell’indifferenziato. Tutta questa scena, notevolmente, è impiantata in mi
bemolle minore, ovvero nel lato oscuro del mi bemolle maggiore con cui la
natura era sbocciata all’inizio di Das Rheingold. L’inizio ricalca
inoltre il momento del risveglio di Brünnhilde, ma in questo caso rispetto al
rapporto mi minore – do maggiore avremo mi bemolle minore – do bemolle
maggiore, ovvero una sorta di opacizzazione dovuta alla discesa di un semitono
e alla conseguente bemollizazione. Notiamo infine che proprio il tema del fato
(#87) si intromette nella terza sequenza di accordi del risveglio al posto del
maestoso arpeggio che trovavamo alla fine di Siegfried, e sempre questo tema
chiuderà la scena, dopo che le Norne, sui temi del sonno (#97) e del crepuscolo
(#54), si ritireranno nel ventre della terra: “Finito l'eterno sapere! Al mondo
non annunziano le sagge più nulla. Giù! Alla Madre! Giù!” (“Zu End' ewiges
Wissen! Der Welt melden Weise nichts mehr. Hinab! Zur Mutter! Hinab!”).
Scenicamente il termine della loro sapienza è rappresentato dal filo che si
spezza. E’ significativo che in quel momento l’orchestra ci presenti i motivi
associati alla spada (#57) e a Siegfried (#92), come se la nuova alba del
giorno maschile eclissasse il sapere primordiale femminile, ma anche il tema
della maledizione dell’anello (#51), che è praticamente l’antitesi della spada
avendo con essa in comune l’insistere sulle note dell’arpeggio di do maggiore
(do-mi-sol) e il salto d’ottava discendente (mi-mi):
La spada era d’altronde proprio l’idea redentrice che Wotan opponeva alla
maledizione scagliata da Alberich sull’anello. Sappiano dunque ora che quelle
stesse forze in gioco in Das Rheingold sono giunte attraverso gli eredi
dei due antagonisti fino al Götterdämmerung. L’opposizione fra dominio
del mondo attraverso il dogma religioso (Wotan) e il dominio del mondo
attraverso la verità oggettiva della ricerca tecnica (Alberich) si reincarna
ora nell’opposizione fra la “joie de vivre” di Siegfried (addirittura
eccessiva: “Du überfroher Held!” gli dirà Gunther) e il malinconico
risentimento di Hagen. L’ultimo accento della sapienza femminile, l’ultima
parola del fato, sembra dunque indicarci che è già scritto anche l’ultimo atto
di Siegfried e il suo perire a causa della maledizione dell’anello e per mano
di Hagen. Questa consapevolezza della mortalità perfino dell’eroe, lo sappiamo,
è nascosta all’eroe stesso in quanto v’è un principio femminile al suo fianco
che ne è custode, ma che ne diverrà poi attrice. L’intervento di Brünnhilde
sarà infatti decisivo per permettere ad Hagen di colpire là dove ella sa di non
aver protetto Siegfried, in quello che sempre più ci appare dunque come un
martirio necessario (e cristologico) per l’espiazione delle colpe dei padri.
Per ora tuttavia lo stato di grazia della coppia è ancora intatto, l’equilibrio
fra ispirazione inconscia e impresa conscia è ancora integro e l’auto-illusione
creatrice e catartica dell’opera d’arte è ancora possibile. Assistiamo così
nella seconda scena del prologo alla rappresentazione scenica dell’ispirazione
con cui la volontà manda la rappresentazione alla ricerca di un pubblico a cui
esprimersi. Con questo gioco di conoscenze latenti e inconsce dobbiamo leggere
ciò che ci viene detto nel libretto, ovvero che Brünnhilde ha insegnato a
Siegfried anche cose che lui non ha percezione di aver imparato (“Mehr gabst
du, Wunderfrau, als ich zu wahren weiss”). Sempre su questa linea possiamo
interpretare il suo gesto di lasciare a lei l’anello in custodia e pegno
d’amore. Finché l’anello rimarrà nelle mani della donna, infatti, ella sarà
come un surrogato del Reno a cui esso appartiene, e la maledizione non potrà
avere effetto poiché Siegfried non entrerà mai in contatto con la coscienza
terribile della sua destinazione di martire. Beato nella sua ingenuità di
creatore egli diviene invece il padrone della natura stessa, come ci dimostra
il suo viaggio sul Reno e l’utilizzo della tonalità d’impianto di mi bemolle
maggiore, che si oppone al mi bemolle minore delle Norne e rievoca la tonalità
d’apertura della Tetralogia. Nell’alba di Brünnhilde e Siegfried, degli eredi
del mondo, è come se l’arte avesse ripristinato lo stato di natura. Osserva
acutamente Carl Dalhaus che l’arte di Wagner mira ad una sorta di “immediatezza
di secondo grado”, un ritorno alla naturalezza che pure è (e si sa) totalmente
artificiale. Meistersinger e Parsifal sono esemplari in questo,
ma lo è anche il Götterdämmerung, col suo uso di forme ingenue prese a prestito
dal teatro d’opera italiano e francese ma inquadrate nel Musikdrama wagneriano
che le smaschera nella loro falsità. Il rapporto fra diatonismo e cromatismo
nell’ultimo Wagner ricalca proprio questo schema: anche quando troviamo le
melodie più diatoniche e regolari, esse emergono in realtà da un oceano di
cromatismi nell’orchestrazione sottostante che ci fa percepire la purezza del
diatonico solo per distacco ed opposizione, ovvero come una sorta di ritorno
all’ordine, all’armonia e alla spontaneità in secondo grado. Non a caso Dalhaus
chiama spesso Hegel in suo soccorso nella trattazione. Noi vorremmo piuttosto
citare Schopenhauer, poiché ci pare che la ri-presentazione dell’immediatezza
sia tranquillamente traducibile come un tentativo di rap-presentazione della
volontà, ovvero come Siegfried ispirato da Brünnhilde. L’altra metafora del
nostro arsenale che si presta enormemente per questo discorso è quella
testamentaria legata alla caduta dall’eden e alla redenzione in Cristo. La
perdita del paradiso originario viene dunque riconquistata in un nuovo regno
dei cieli che comprende la colpa nel suo ordinamento e la redime ad maiorem Dei
gloria. Prendiamo a prestito le parole di Wagner stesso riguardo al suo
progetto per uno Jesus von Nazareth:
“Lo stato di Innocenza non può venire alla coscienza dell’uomo se non
dopo che essi l’anno perso. Questo tendere al ritorno, questa lotta per la
riconquista, è l’anima dell’intero movimento della civiltà da quando abbiamo
imparato a conoscere gli uomini nelle leggende o nella Storia.”
L’arte è dunque ciò che abbiamo già visto: ricostruzione illusoria (ma
non ingannatrice, perché è autocosciente, possiede l’anello) di quanto l’uomo
sente e sa di non poter ottenere nella realtà oggettiva e verificabile. Ovvero:
rappresentazione della volontà. Ecco perché per Wagner l’arte avrà anche il
compito di ridare vitalità alla religione, liberata dall’ancoraggio al dogma
esteriore e rinnovata nella soggettività di un senso del divino interiorizzato,
umanizzato, quale ce lo propone il Cristo. Suggelliamo l’allegoria dei due
amanti come due facce del mondo schopenhaueriano che si uniscono nell’opera d’arte
attraverso un’ultima citazione da una lettera di Wagner, nientemeno che al
severo critico (e anti-wagneriano) Eduard Hanslick:
“Non sottovalutate il potere della riflessione; l’opera d’arte meramente
inconscia appartiene a periodi lontani dai nostri: l’opera d’arte del più
avanzato periodo culturale può essere prodotta solo da un processo di creazione
cosciente […] Solo la più fertile natura umana può riuscire nella mirabile
combinazione del potere dell’intelletto riflessivo, da una parte, e della fecondità
del più diretto potere creativo, dall’altra.”
Nella sua modestia con la “più fertile natura umana” Wagner intendeva
ovviamente se stesso. Per quanto strano possa sembrare a questo punto, urge
ricordare che il Götterdämmerung è tuttavia anche opera di enorme
disillusione riguardo al potere dell’arte. Essa, per Wagner come per
Schopenhauer, è capace di darci un sollievo temporaneo dall’incompatibilità fra
volontà e rappresentazione, ma l’equilibrio sottile a cui deve il suo effetto
non può resistere a lungo. Sappiamo in effetti che tipo di accoglienza riceve
l’opera d’arte vivente, Siegfried, appena lascia la rupe di Brünnhilde. Il
mondo dei Ghibicunghi che dovrebbe accoglierlo è infatti l’esempio stesso di
una società dove regna la mancanza d’amore e dove tutti i rapporti sono basati
unicamente sulle convenzioni e le apparenze, sulla posizione di potere e sul
riconoscimento sociale. In poche parole: tutto è rappresentazione e niente è
volontà, niente è sentimento e amore. Questo mondo è l’estrema conseguenza
della maledizione di Alberich, come ci viene confermato dal comparire, poco
prima che si apra la scena, del tema del potere dell’anello (#45), un diretto
derivato del semitono del lamento del nano respinto (#5):
Se il risentimento di Alberich è ovviamente incarnato da suo figlio
Hagen, i figli di Gibich sono avvicinabili piuttosto alla posizione di Mime.
Sia Gunther che Gutrune sono infatti falsi eroi, che pretendono di sostituirsi
a Siegfried e Brünnhilde aspirando ciascuno a sposare uno dei due veri eredi
del mondo. Se Gunther vorrebbe diventare l’eroe impavido ma è in realtà un
inetto che sa solo piangersi addosso, Gutrune è la falsa musa che vorrebbe
sostituire l’autentica ispirazione (Brünnhilde, che affonda nella cosa in sé,
nella volontà) con la superficialità della seduzione melodica tipica dell’opera
italiana e francese. L’illudersi di Siegfried è innocente, onesto, giocoso e
gioioso, quello dei Ghibicunghi è invece interessato, calcolato e frutto di
acredine e livore come quello dei nani, degli anti-artisti. Anche musicalmente
esiste una affinità fra tutta la famiglia di temi dei Ghibicunghi (accomunati
da ampi salti dissonanti) e il modo in cui Mime tentava di circuire Siegfried
sostituendosi alla Madre-Natura. Si noti infine che come Alberich sfruttava
Mime per i suoi fini in Das Rheingold, così Hagen il nichilista userà i
due fratellastri per spezzare l’equilibrio della coppia eroica ed impossessarsi
dell’anello. Il piano di Hagen prevede dunque di usare un filtro che costringa
Siegfried, attraverso il fascino di Gutrune, a penetrare nel cerchio di fuoco
in cui solo lui è ammesso per portare la musa della vera ispirazione Brünnhilde
in mezzo ai Ghibicunghi. Fuor di metafora questo momento rappresenta il
traviamento dell’opera d’arte che si “vende” al mondo della mera
rappresentazione, seguendo la via del facile secondamento dei desideri del
pubblico e abbandonando la veritiera ispirazione in mano a qualunque scalzacane
desideri impadronirsene. E’ una lettera del 25 Novembre 1850 all’amico Franz
Liszt a metterci su questa pista:
“se voglio dimostrare che la musica (cioè la donna) deve necessariamente
essere impregnata da un poeta (cioè l’uomo), allora devo assicurarmi che questa
gloriosa donna non sia abbandonata al primo libertino che passa, che essa sia
ingravidata solo dall’uomo che tende al femmineo con vero, irresistibile
amore.”
Il risultato delle trame di Hagen sarà che in effetti Siegfried romperà
l’equilibrio legato allo stato di nascondimento inconscio della sua “musa”
Brünnhilde, consegnandola di fatto al più volgare dei palcoscenici e al più
indegno dei compagni, Gunther, che egli stesso si abbassa ad imitare usando il
Tarnhelm. Così facendo egli commette un doppio errore, in quanto ha portato
fuori dalla protezione del muro di fuoco (e di Brünnhilde) anche l’anello. A
questo punto è solo questione di tempo: non appena l’effetto di autocoscienza
dell’eredità dei Nibelunghi avrà effetto anche Siegfried sarà condannato come
tutti gli altri. Nel furto dell’anello dal dito di Brünnhilde Siegfried diventa
come Wotan e come Alberich, ed è paradossale vedere lui, l’uomo che ha infranto
il regime dei patti, chiudersi nella prigione del patto di sangue con Gunther e
del patto di fedeltà con cui si chiude il primo atto. Particolarmente
interessante quest’ultimo, nel quale la spada Nothung viene usata contro la sua
natura fallica per proclamare l’astensione, e la musica conferma lo
snaturamento del tema della spada del quale è rimasto qui soltanto il salto di
ottava discendente, di cui conosciamo oramai il significato. D’altronde i giuramenti,
che rimandano a tutte quelle scene di complotto dell’opera lirica italiana e
francese su cui Wagner ironizza nel Götterdämmerung, sono la prova
stessa che egli stesso è stato trascinato in un mondo senza amore e corrotto
dall’anello. A questo proposito è interessante analizzare anche un momento del
duetto appena precedente fra le due valchirie, quando Waltraute implora la
sorella Brünnhilde di restituire l’oro alle figlie del Reno ma lei rifiuta
dicendo che esso è il pegno d’amore del suo Siegfried. Con somma astuzia Wagner
fa cantare questa frase sul tema della rinuncia ad amare con cui Alberich si
impossessò dell’oro stesso, equiparando dunque anche Brünnhilde alla serie di
colpevoli che hanno sostituito il vero sentimento col surrogato fornito
dall’anello (autocoscienza egoistica):
“se fremi all’idea che questa donna [Brünnhilde] debba attaccarsi a
questo maledetto anello come pegno d’amore, proverai esattamente ciò che io
volevo farti provare, e riconoscerai il potere della maledizione del Nibelungo
elevato al suo più terribile e tragico livello: solo allora capirai la
necessità di tutto il finale de La Morte di Siegfried.” (dalla Lettera a Röckel
del 25 Gennaio 1854)
Chi meglio di Wagner stesso poteva darci così un’idea di quanto, già al
termine del primo atto, la situazione sia totalmente compromessa. Lo stesso
Wotan, che non attende altro che sua figlia riconsegni l’anello al Reno, si è
oramai disilluso della possibilità di successo della sua soluzione artistica
(che era rappresentata dal motivo #134). Il secondo atto è puro svolgimento
della trama: viene celebrato il doppio matrimonio, Brünnhilde scopre il
tradimento di Siegfried e decide quindi di vendicarsi partecipando al complotto
contro di lui. Ci soffermeremo solo su un aspetto di questo snodo: Brünnhilde
rivela ad Hagen che senza il suo consiglio egli non potrebbe niente contro
Siegfried. Lei è dunque la vera responsabile della morte dell’eroe senza paura
in quanto è lei che possiede ciò che soltanto può annientarlo: la consapevolezza
della sua origine peccaminosa da Wotan e la conseguenza fatale che lo attende.
Fintanto che Siegfried vive nell’ingenua e gioiosa auto-illusione della sua
vita creativa, fintanto che egli non si cura dell’anello che possiede, egli è
immune dall’arma di Hagen, ovvero dal nichilismo (ricordandoci del “Alles was
ist endet” di Erda) insito nella maledizione di cui il figlio di Alberich è
agente. Che Brünnhilde dica dunque di avere protetto l’eroe ovunque meno che
alle spalle, poiché sapeva che egli non sarebbe mai fuggito di fronte al
nemico, significa anche che ella rivela come il vero punto debole di Siegfried
sia la possibilità che il passato riemerga e lo porti a conoscere l’abisso
pauroso dell’esistenza. Si sovrappongono così una serie di metafore sceniche.
La prima è che Brünnhilde è stata la custode inconscia di questa consapevolezza
insostenibile e solo il suo rimanere celata nel cerchio di fuoco ha permesso a
Siegfried l’innocenza della sua creatività, ma ora che egli stesso l’ha
condotta all’esterno sarà solo questione di tempo prima che tutto sia rivelato.
Facciamo quindi un salto avanti per vedere il modo strabiliante in cui Wagner
intesse la seconda: durante la battuta di caccia, Hagen porta Siegfried ad
iniziare un racconto che è una vera e propria agnizione e che, guarda a caso,
culminerà proprio con il riaccendersi del ricordo di Brünnhilde. Si potrebbe
leggere in questa sua canzone l’effettiva messa in scena di un’opera
nell’opera, sul modello di Amleto e con conseguenze tragiche più o meno analoghe.
Secondo le nostre simbologie Siegfried sta ora inscenandosi come opera d’arte,
ma lo sta facendo col pubblico sbagliato, e il risultato non potrà che essere
di distruggere così il fragile equilibrio su cui l’arte si regge. Tanto per
cambiare il meccanismo scenico prevede una pozione, questa volta della memoria,
che porta il nostro artista a compiere l’errore. In orchestra sentiamo
innanzitutto un tema che richiama il dolore per il ricordo della madre, poi
sentiamo il tema di Brunnhilde (#149), prima avvisaglia di ciò che mai doveva
essere disseppellito, quindi ecco attaccare il canto che riprende i momenti
finali del secondo atto di Siegfried, quelli più sofferti: “In dolore verso la
vetta…” (“in Leid zu dem Wipfel…”). Così nel suo Drama (ri)messo in scena egli
di fatto porta alla luce ciò che doveva rimanere nell’oscurità (come accadeva
nel Tristan und Isolde), rivive il suo dolore da orfano e il languore e lo
spavento che lo ha attraversato alla visione della prima donna. Ora tuttavia
non ha più la protezione di Brünnhilde, dell’innocenza e ingenuità che gli
erano concesse dal celare l’insostenibile nell’inconscio, ora Brünnhilde è
fuori e alla mercé di tutti, e perciò egli è totalmente vulnerabile alla
maledizione, di cui infatti sentiamo il tema (#51), e che si sostanzia in un
colpo alle spalle di Hagen, emissario nichilistico della verità oggettiva che
lo costringe a far riemergere tutto il carico angoscioso del passato rimosso.
Non possiamo aspettarci altro che di sentire ancora il tema del Fato (#87): il
dominio radioso del principio maschile è terminato, e siamo calati di nuovo nel
mondo delle forze femminili. All’eroe morente compare per l’ultima volta
l’immagine della Valchiria, giustamente nelle vesti di emissaria di morte che
aveva prima di divenire custode dell’inconscio di Siegfried. La musica richiama
i temi del risveglio ed egli crede di vederla ancora addormentata. E’ come se
il racconto proseguisse da dove si era interrotto, ella si sveglia, ma ora i
suoi occhi sono aperti in eterno, niente è più celato e nulla può più frenare
il dissolvimento che egli aveva temuto appena l’aveva vista:
“ Ach! Dieses Auge,
ewig nun offen!
Ach, dieses Atems
wonniges Wehen!
Süsses Vergehen
seliges Grauen:
Brünnhild' bietet mir - Gruss!”
” Ah! quell'occhio
ora aperto in eterno!
Ah, di quel respiro
il gioioso alitare!
Dolce vanire
brivido beato:
Brünnhilde mi porge - saluto!”
Il saluto della Valchiria è la morte, come rimarca l’ennesimo, ma questa
volta estremo, respiro del tema del Fato (#87). L’intero proposito della
Tetralogia era proprio giungere qui, a mostrare come Siegfried dovesse
necessariamente perire, e con lui dovesse necessariamente scomparire anche
l’ultima illusione umana: la parentesi beata dell’arte apollinea che
trasfigurasse il dionisiaco rendendolo sostenibile. Tutto soccombe all’anello e
alla sua maledizione, cioè tutto soccombe al progredire dell’autocoscienza
nella storia del mondo (Hegel docet). Siegfried il senza paura ha infine
conosciuto la Ursorgee Urmütterfurcht che Wotan sperava di aver messo a tacere
nel finale dell’opera precedente. Ora al mondo, privo anche dell’ultima
speranza di redenzione che esso stesso ha rifiutato in nome dell’avida ricerca
del dominio tecnico e oggettivo (ogni riferimento a Gesù è puramente non
casuale), non resta che la via dell’annullamento. Brünnhilde entra in scena
mentre il tema discendente del Götterdämmerung (#54) ai violini si
inanella in serie col suo opposto ascendente, il tema di Erda (#53). Ella
stessa è infatti oramai l’erede del mondo e delle forze primigenie e femminee
(torna infatti il mi bemolle maggiore, in dialettica col do minore tragico e
col do maggiore del loro amore), ora ha gli occhi “eternamente aperti” come
diceva Siegfried morente, è doppiamente risvegliata e quindi disillusa dalla consapevolezza
che anche il progetto di redenzione di Wotan nella coppia di eroi è fallito.
Essi sono serviti solo ad espiare la sua colpa: “Me dovette quel purissimo
tradire, perché una donna diventasse sapiente!” (“mich musste der Reinste
verraten, dass wissend würde ein Weib!”). Tutto oramai è chiaro, non le resta
che prendere su di sé la sua eredità, l’anello della coscienza e della
consapevolezza, e riconsegnarlo insieme al proprio corpo e a tutto l’esistente
al fuoco e all’acqua, che lo purificheranno nel dissolvimento. Questo è pieno
Schopenhauer, mediato attraverso l’occhio dell’artista che vede nell’esperienza
estetica e amorosa, ovvero nella tragedia della Morte di Siegfried (che
ricordiamo era il titolo originale dell’opera da cui è uscito l’intero Ring),
il passaggio necessario per educarsi all’annullamento della volontà, cioè alla
nolontà. Che il finale del Ring sia affidato a Brünnhilde, cioè alla “volontà”
(come è sempre stata chiamata da Wotan) oramai totalmente priva del vincolo
alla rappresentazione che ancora costituiva la presenza di Siegfried, è già
indicativo. Wagner ha infatti apportato continui cambiamenti a questo finale
per adeguare il libretto al pieno chiarificarsi in lui del discorso
schopenhaueriano. Sappiamo infatti che esistono numerose versioni del monologo
dell’immolazione, di cui la prima del 1848 vedeva addirittura un finale in
stile Der Fliegende Holländer, in cui tutti gli eroi e gli dei venivano
in ultimo recuperati per un lieto fine postumo. Le letture dell’ateo Feuerbach nel
1852 convinsero poi Wagner a portare almeno gli dei a definitiva distruzione in
nome dell’utopico ideale di un nuovo ordine sociale della fratellanza umana
basata sull’amore, ma sarà la lettura di Schopenhauer nel 1856 a determinare il
cambiamento più evidente, con l’aggiunta di questi versi:
“Sapete dove mi dirigo? Lascio la patria del desiderio, abbandono per
sempre il regno dell’illusione; chiudo dietro di me le porte dell’eterno
divenire: verso la più santa ed eletta terra, libera dal desiderio e dall’illusione,
verso l’obiettivo del peregrinare del mondo, redenta dall’incarnazione, la
donna illuminata ora si dirige. La consacrata fine di tutte le cose eterne,
sapete come l’ho raggiunta? Il più profondo dolore, quello d’amore, mi ha
aperto gli occhi: ho visto il mondo finire!”.
Chi ha almeno un po’ di familiarità col Ring si sarà già accorto
che non c’è traccia di queste parole nel libretto che oggi ascoltiamo. Infatti
l’ultima decisione di Wagner, all’epoca della composizione della musica nel
1874, fu di non aggiungere queste righe se non in nota, in quanto la musica
stessa da sola sarebbe stata più adatta a veicolarne il contenuto. Non potrebbe
esistere decisione più schopenhaueriana, dato che è proprio la musica il
linguaggio della volontà e non può che essere essa stessa a dare voce
all’ultimo atto, all’atto supremo di Brünnhilde che è quella volontà.
Ascoltiamo allora queste ultime note, che sono di estremo interesse: il tema
fuoco avvolge e divora tutto dando il via ad una serie di scale discendenti del
tema del Götterdämmerung (#54), poi l’acqua
arriva a quietarne la furia e riportare tutta l’apocalisse alla regolarità
dell’ondeggiare (si inframmezza Hagen, annegato sulle note del tema della
maledizione #51) e ripristinando la tonalità dell’origine, il mi bemolle
maggiore. Ecco tuttavia il genio di Wagner con la sua immediatezza di secondo
grado: non si può tornare semplicemente dove si era partiti. Dai temi naturali
si sviluppa senza soluzione di continuità il tema del Walhalla (#20), e la tonalità
scorre verso il re bemolle maggiore che rappresentava l’ordine del mondo dopo
il furto dell’oro (si noti, di sfuggita, che nel circolo delle quinte la
tonalità intermedia fra mi bemolle e re bemolle è il fa minore, utilizzato
proprio per il lamento delle figlie del Reno, evento intermedio fra la prima
natura e la seconda natura). Proprio nella tonalità di re bemolle maggiore
comparirà il tema conclusivo (#178), che era stato anticipato da Sieglinde alla
fine di Die Walküre sulle parole “O augusta meraviglia! O vergine
sublime!” (“O hehrstes Wunder! Herrlichste Maid!”) ed esalta l’opera dell’unica
vera salvatrice, Brünnhilde, il cui tema (#149) è chiaramente parente di quello
conclusivo:
O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem! Proprio il
Walhalla, simbolo della tracotanza del peccato contro natura ha concepito in sé
colei che si è fatta anche redentrice di questa stessa colpa. Certamente si
tratta della redenzione nichilistica dell’annullamento, della purificazione
nella fiamma e del dissolvimento nell’acqua. Eppure forse la storia non è
finita qui. La sequenza di motivi conclusiva merita un’ultima e più accurata
narrazione poiché è quasi una sintesi dell’intero Ring ed ha ancora qualcosa da
svelare: abbiamo detto che dall’acqua sentiamo emergere il tema del Walhalla
(insieme a quello del potere degli dei) sempre più trionfante e invadente,
sotto di esso il fuoco lo lambisce, ma improvvisamente, come un lampo, compare
un tema inatteso, quello di Siegfried (#92), che agli ottoni compie la sua
ultima salita lungo l’arpeggio dell’accordo maggiore prima di esplodere in un
fortissimo generalizzato dell’orchestra. C’è tutto il suo gesto tanto eroico e
quanto profondamente inutile, come sanno esserlo solo le opere d’arte,
destinate a valere solo nell’immaginazione per poi sparire nella quotidianità
materialistica. Oppure no. Forse l’arte, lo spirito agiscono nel mondo: dal
fortissimo scendiamo, di tono e di volume, lungo le note del tema del
Crepuscolo (#54), arriviamo ad un istante di silenzio in cui potrebbe anche
essersi annullato tutto, come vorrebbe Schopenhauer, e invece sentiamo risalire
il tema conclusivo (#178) che è promessa di qualcosa che trascende la
comprensione e il pessimismo della ragione umana, qualcosa che spalanca la
possibilità di un inizio realmente nuovo, che non è ritorno all’origine da cui
sarebbe inevitabile cadere nuovamente ma è superamento del dualismo stesso fra
origine e caduta. Che questa possibilità esista davvero oppure se sia solo
l’ennesimo frutto dell’immaginazione umana a questo punto non ha davvero alcuna
importanza, siamo ben oltre le soglie della disillusione più totale, abbiamo
chiuso dietro di noi “le porte dell’eterno divenire”, citando il monologo
tagliato di Brünnhilde. La perorazione isolata e vana del corno di Siegfried,
il tema conclusivo di redenzione di Brünnhilde che si propone a sigillo sono
oramai qualcosa di più, sono immagini vive e icastiche del miracolo transitorio
dell’esistenza umana, simboli intensivi e concentrati dei suoi progetti, delle
sue speranze, delle sue paure, delle sue estasi, e tutto può ora essere
affermato in quanto valore e senso in sé, per il suo stesso esistere ed
estinguersi, in somma dignità. Forse solo ora si è sconfitta davvero la paura
esistenziale, poiché la si è vissuta fino in fondo senza lasciare da parte
nemmeno una goccia dell’amaro calice, ed albeggia l’autenticità dell’agire.
Fonte: Operaclick.it
LA MIA PROPOSTA
La discografia ufficiale dell’ultima giornata del Ring wagneriano
è immensa (se ne contano oltre 150) ed, in gran parte, si poggia sulle
registrazioni effettuate al Festival di Bayreuth. Io credo però che le
considerazioni su quale sia, a mio avviso, l’edizione da consigliare di ascoltare,
devono partire dalla concezione completa dell’intero ciclo dell’Anello perché
solo così, iniziando col Rheingold e terminando proprio col Götterdämmerung,
se ne possono comprendere appieno le caratteristiche.
Io comunque mi sento di ricordare innanzitutto queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Wilhelm Furtwängler nel 1950 (Scala – K.
Flagstag, M. Lorenz, L. Weber);
- Edizione audio diretta da Joseph Keilberth nel 1953 (Bayreuth – M.
Modl, W. Windgassen, J. Greindl);
- Edizione audio diretta da Clemens Krauss nel 1953 (Bayreuth – A. Varnay,
W. Windgassen, J. Greindl);
- Edizione audio diretta da Herberth von Karajan nel 1970 (Berlino – H.
Dernesch, J. Thomas, K. Ridderbusch);
- Edizione video diretta da Pierre Boulez nel 1979 (Bayreuth – G. Jones,
M. Jung, F. Hubner);
- Edizione audio diretta da George Solti nel 1983 (Bayreuth – H. Behrens,
J. Cox, A. Haugland);
- Edizione video diretta da James Levine nel 1990 (New York – H. Behrens,
S. Jerusalem, M. Salminen);
- Edizione video diretta da Daniel Barenboim nel 1991 (Bayreuth – A.
Evans, S. Jerusalem, P. Kang);
- Edizione video diretta da Michael Schønwandt nel 2006 (Copenhagen – I.
Theorin, S. Andersen, P. Klaveness);
- Edizione video diretta da Zubin Mehta nel 2008 (Valencia – J. Wilson,
L. Ryan, M. Salminen).
Tante altre sono poi le edizioni che si potrebbero ricordare tra le quali
citerei quella diretta da Sinopoli a Bayreuth nel 2000 oltre a quella di
Thielemann del 2009 sempre nel tempio wagneriano.
Io personalmente tra tutte quelle citate ne scelgo una, credo,
controcorrente: io opto per l’edizione del 1953 diretta da quel grande
direttore che è stato Joseph Keilberth. I cantanti principali del cast a mio
avviso sono strepitosi e la concertazione del direttore tedesco va, in parte,
controcorrente rispetto alla tradizione interpretativa di area germanica ma è
di una pregnanza e asciuttezza spettacolari. L’orchestra suona in maniera
strepitosa. Alla fine io credo che non abbia niente in meno rispetto alle declamate
edizioni di Karajan e Solti, solo per citare due ottime registrazioni.
Una chicca è l’edizione registrata a Copenhagen… che ci dimostra come con
forze locali (a parte qualche nome importante come la Theorin) si possano allestire
degli ottimi spettacoli.
Di seguito il link per ascoltare l’opera:
https://www.youtube.com/watch?v=Z6CTlVX3KRw
(PROLOGO e ATTO I)
https://www.youtube.com/watch?v=JPo-hw1JqiM
(ATTO II)
https://www.youtube.com/watch?v=vU3Hl-2CnLM
(ATTO III)
Questo invece il video dell’edizione di Copenhagen:
https://www.youtube.com/watch?v=hPUp9bPos1o
(PROLOGO e ATTO I)
https://www.youtube.com/watch?v=RtOgxTY42Cg
(ATTO II e III)
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