ALMANACCO OPERISTICO - 11 marzo - RIGOLETTO di G. Verdi
RIGOLETTO
Melodramma in tre
atti di Francesco Maria Piave, dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
Il soggetto di Rigoletto si ispirò a Le roi s’amuse, dramma
in cinque atti di Victor Hugo, andato in scena a Parigi nel novembre 1832.
L’opera, ambientata a Mantova e nei suoi dintorni nel secolo XVI, inizia con
una festa al palazzo ducale.
Atto primo. Il duca corteggia la contessa di Ceprano, ma l’attira
anche una fanciulla che vede ogni domenica quando si reca, in incognito, in
chiesa. Comunque le donne sono, per lui, tutte da conquistare, purché avvenenti
(ballata “Questa o quella”). Il gobbo Rigoletto, buffone di corte, provoca il
conte di Ceprano, e i cortigiani meditano di punire la sua insolenza.
Sopravviene il conte di Monterone, al quale il duca ha sedotto la figlia;
Rigoletto lo sberteggia e Monterone lo maledice. La successiva scena presenta
la casa, molto appartata, di Rigoletto. È notte e Rigoletto è avvicinato da
Sparafucile, un sicario disposto a servirlo in caso di bisogno. Rigoletto,
rimasto solo, confronta la propria arma (la lingua beffarda) con l’arma di
Sparafucile, che è la spada (“Pari siamo”), ma la maledizione di Monterone l’ha
turbato. Nella sua casa vive la figlia Gilda, custodita dalla domestica
Giovanna. L’incontro tra Gilda e Rigoletto è tenerissimo, ma la giovane
vorrebbe sapere chi è stata sua madre. Una donna simile a un angelo, risponde
Rigoletto, prematuramente morta (“Deh, non parlare al misero”, che diviene
duetto con la replica di Gilda “Oh, quanto dolor”). Rigoletto raccomanda poi a
Giovanna di vegliare su Gilda (“Ah, veglia o donna questo fior”), ma proprio
Giovanna, non appena Rigoletto s’allontana, consente al duca, che si è travestito,
di entrare in casa e di presentarsi a Gilda come Gualtier Maldé, il misero
studente che la segue in chiesa ogni domenica e di cui la fanciulla, pur senza
sapere chi sia, si è innamorata. Un duetto iniziato dal duca (“È il sol
dell’anima”) è interrotto dai passi di un gruppo di cortigiani, ma poi concluso
dal Vivacissimo “Addio, addio, speranza ed anima”. Rimasta sola, Gilda esprime
il proprio amore per colui che crede essere uno studente (“Caro nome”). Il
gruppo dei cortigiani, che si propongono di rapirla ritenendola amante di
Rigoletto, è sorpreso dall’arrivo del buffone, che rincasa senza egli stesso
sapere perché. Nel buio, Borsa fa credere a Rigoletto che egli e i suoi
compagni intendono rapire la moglie del conte di Ceprano, il cui palazzo si trova
nelle vicinanze. Rigoletto viene bendato giacché tutti – gli si dice – sono
mascherati, e i cortigiani rapiscono Gilda (“Zitti, zitti, moviamo a
vendetta”). Rigoletto, rimasto solo, si avvede della beffa: gli torna alla
mente la maledizione di Monterone e perde i sensi.
Atto secondo. In una sala del palazzo ducale. Il duca è turbato
perché, tornato di notte nella casa di Rigoletto, non ha più trovato Gilda
(“Ella mi fu rapita”); medita di vendicarsi, ma pensa soprattutto al dolore e
al terrore di Gilda (“Parmi veder le lacrime”). Entrano i cortigiani, e gli
annunciano d’aver rapito l’amante di Rigoletto (“Scorrendo uniti remota via”).
Appreso che Gilda è stata condotta nel suo palazzo, il duca corre esultante a
raggiungerla (“Possente amor mi chiama”). Sopravviene Rigoletto: simula
dapprima indifferenza, poi inveisce contro i cortigiani (“Cortigiani, vil razza
dannata”); invoca infine la loro pietà, e li scaccia quando è raggiunto da
Gilda, che gli narra come abbia conosciuto il duca (“Tutte le feste al tempio”)
e come da lui sia stata ingannata e ora oltraggiata. Rigoletto cerca di
confortarla ma, alla vista di Monterone che è condotto in carcere, decide di
vendicare il vecchio conte e se stesso (“Sì, vendetta, tremenda vendetta”),
mentre Gilda invoca pietà per colui che le ha fatto del male.
Atto terzo. In riva al Mincio, nottetempo, nella locanda di
Sparafucile, dove Maddalena, sorella del sicario, ha attirato il duca, che in
incognito la corteggia. Lì giunge anche Rigoletto con Gilda, che indossa abiti
maschili e che verrà fatta partire per Verona; prima dovrà però constatare come
il duca le sia infedele. Il duca, che si è travestito da ufficiale di
cavalleria, canta un’aria sulla volubilità delle donne (“La donna è mobile”);
quindi dà inizio a un quartetto con Gilda, Maddalena e Rigoletto, che culmina
nell’Andante “Bella figlia dell’amore”. Mentre Maddalena si beffa delle
profferte del suo corteggiatore, Gilda ricorda con amarezza le parole
lusingatrici che il duca le aveva rivolto; Rigoletto la esorta a dimenticare.
Gilda parte, e Rigoletto anticipa a Sparafucile dieci scudi, promettendone
altrettanti quando gli sarà consegnato, chiuso in un sacco, il cadavere del
corteggiatore di Maddalena. Maddalena, tuttavia (mentre inizia un uragano, alla
cui descrizione partecipano vocalizzando a bocca chiusa le voci maschili del
coro), chiede a Spararucile di non uccidere l’avvenente giovane (ossia il
duca), che nel frattempo si è disteso su un letto trovato nel granaio e che,
prima di addormentarsi, accenna qualche frase di “La donna è mobile”; nel
frattempo, Maddalena ha convinto il fratello a risparmiare il giovane
ufficiale. Sparafucile ucciderà, invece, il primo viandante che chiederà
ospitalità nella locanda e ne consegnerà il corpo, chiuso in un sacco, a
Rigoletto. Ma il primo viandante è Gilda che, spinta dall’amore per il duca, è
tornata alla locanda e decide di morire per lui, dopo aver ascoltato quanto
Sparafucile e Maddalena hanno convenuto. Viene infatti pugnalata, e quando
Rigoletto aprirà, fuori dell’osteria, il sacco consegnatogli da Sparafucile,
troverà il corpo dell’agonizzante figlia. Mentre il duca si allontana cantando
la beffarda melodia di “La donna è mobile”, Gilda muore, dopo aver chiesto al
disperato Rigoletto il perdono per sé e per il suo seduttore.
Nella storia dell’opera italiana Rigoletto ha curiosi precedenti, sicuramente ignoti a Verdi, dal momento che gli studi sul melodramma del XVII secolo sono recenti. Ad esempio la figura del buffone di corte compare in varie opere, a volte godendo una certa libertà di linguaggio in senso satirico, come il Momo (basso) del Pomo d’oro di Antonio Cesti (Vienna 1668). Più singolare è che nel Giasone di Francesco Cavalli (Venezia 1649) un personaggio, Oreste, canti una canzone sulla volubilità delle donne (“Fiero amor l’alma tormenta”) nella quale la seconda strofa inizia «È leggier la piuma al vento», anticipando così «La donna è mobile/ qual piuma al vento» del duca di Mantova.
Va ora ricordato che tra l’11 marzo 1851 e il 6 marzo 1853, cioè in due
anni, Verdi diede alle scene Rigoletto, Trovatore e Traviata,
che sono, con tutta probabilità, le sue opere più popolari. Ciò che colpisce
del Rigoletto, rispetto alle precedenti opere, è anzitutto la rapidità
con la quale gli eventi si succedono, senza però che questo pregiudichi la caratterizzazione
dell’ambiente e dei personaggi. Osserverà con amarezza Rigoletto nel secondo
atto, dopo aver confortato Gilda ‘disonorata’ dal duca: «E tutto un sol giorno
cangiare poté». Colpisce in particolare il ritmo del primo atto. Dopo il
preludio, si susseguono la ballata “Questa o quella” e il duettino con la
contessa di Ceprano, che sono già una compiuta raffigurazione scenico-musicale
del duca. Analogamente, la prima frase di Rigoletto, «In testa che avete,
signor di Ceprano», esprime i provocatori atteggiamenti che il buffone di corte
si consente a spese dei cortigiani. A loro volta, con l’arrivo di Marullo, i
cortigiani apprendono che in casa di Rigoletto vive una donna e, scambiandola
per la sua amante, preparano la vendetta. Tutto questo ha una incalzante
raffigurazione melodica, il cui ritmo è frenato soltanto dall’ingresso di
Monterone e dalla sua fatale maledizione.
Segno evidente dell’evoluzione di Verdi rispetto alle precedenti opere,
in fatto di ambientazione e, insieme, di tratteggio dei personaggi, è
l’incontro Rigoletto-Sparafucile della scena successiva. La melodia d’un
violoncello e di un contrabbasso – sommessa, in sordina – emerge sugli
‘staccati’ dei fiati e sui ‘pizzicati’ degli archi; ed è cupa, sinistra, come
le frasi che i due personaggi si scambiano. Quanto al “Pari siamo” di
Rigoletto, che si sviluppa su continui mutamenti di tempo, è evidente il gioco
di un genere di declamazione melodica altrettanto cangiante. Qui subentra
tuttavia un contrasto tra ciò che per il pubblico era mitico e ciò che la
‘toscanizzazione’ dei direttori d’orchestra ha sancito. Fino a tempi recenti i
baritoni erano soliti emettere un sol acuto su «follia», invece del dimesso mi
naturale previsto da Verdi. L’effetto scenico era notevole, ma menomava un altro
particolare effetto previsto dal compositore, giacché gli applausi che
premiavano l’acuto del baritono si sovrapponevano allo spettacolare scoppio
dell’Allegro vivo a piena orchestra, che coincide proprio con la ‘a’ di
«follia» e con lo slancio con il quale Gilda, alla sua prima comparsa in scena,
si getta fra le braccia del padre. Il duetto che segue alterna momenti di
affannosa concitazione, come l’Allegro vivo iniziale introdotto dalla piena
orchestra (“Figlia!”, “Mio padre”), ad altri di canto disteso e affettuoso:
così l’Andante “Deh, non parlare al misero”, melodia nostalgica di Rigoletto
alla quale Gilda risponde con frasi trepidanti, all’unisono con il primo oboe e
il primo violino. Questo duetto procede con trapassi di tono, come il veemente
“Culto, famiglia, patria/ il mio universo è in te”, la cui iperbolica enfasi
faceva inorridire i cultori dell’aulica compostezza rossiniana. Ma Verdi mirava
all’eloquenza scenica, che d’altronde non precludeva melodie ampie e di calda
affettuosità come il “Veglia, o donna, questo fiore” rivolto a Giovanna, la
‘custode’ di Gilda. Ricompare a questo punto il duca, che capovolge il
principio romantico del tenore vittima del baritono (vale a dire del giovane
eroe, ricco di virtù, piegato dalla scaltra virulenza di un uomo maturo),
ergendosi per di più, data l’ampiezza della sua parte, quasi a coprotagonista.
Monterone prima, quindi Gilda e Rigoletto sono le sue vittime; consapevolmente,
va aggiunto. Quando il duca, introdottosi nella casa di Rigoletto con la complicità
di Giovanna, ascolta l’ultima parte del duetto baritono-soprano e apprende che
Gilda è figlia del suo buffone di corte, si limita a un solo laconico commento,
«Sua figlia!». Malgrado questo, il pubblico ha sempre prediletto il cinico
gallismo del duca di Mantova, che tra l’altro, a differenza del Don Giovanni
mozartiano, esce sempre appagato dalle sue avventure. Ma di Gilda il duca
sembra, inizialmente, sinceramente invaghito. Anzi lo è, tanto Gilda differisce
dalle sue abituali conquiste. Di qui l’appassionato “È il sol dell’anima, la
vita è amore” e la candida risposta di Gilda (“Ah de’ miei vergini sogni son
queste”). L’enfatica stretta finale (“Addio, addio, speranza ed anima”) pone il
problema che investe tanta parte dell’operismo verdiano. Apparente faciloneria
musicale, ma ciononostante aderenza all’effetto scenico; giacché il candore di
Gilda è come travolto dalla dialettica del duca. Segue il celebre “Caro nome”
di Gilda. Qui Verdi si rifà, concettualmente, ma con maggior sagacia, a un
altro Allegro moderato, quello dell’aria “Lo vidi e il primo palpito” della
protagonista di Luisa Miller (Napoli 1849). Anche qui le parole spezzate
da pause evocano il battito tumultuoso del cuore. Ma in “Caro nome”, a parte
l’invenzione melodica più attraente, intervengono anche trilli brevissimi,
gioiosa espressione del primo amore di un’adolescente. Nondimeno, i gorgheggi e
l’ornamentazione di “Caro nome” vanno verso i cosiddetti soprani leggeri o di
‘coloratura’, mentre altri momenti richiederebbero maggior espansione vocale. È
una questione da tempo dibattuta e che chiama in causa, tra l’altro, la più
metodica preparazione tecnica dei soprani della metà del secolo scorso, nei cui
ranghi, sul puro piano vocale, la versatilità era abituale. Verdi compose la
parte di Gilda per Teresina Brambilla, che alternava Sonnambula e Puritani
a Ernani, Nabucco, Attila, e che proprio nel 1851, alla
Fenice di Venezia, eseguì Lucia di Lammermoor e Luisa Miller prima
del Rigoletto.
Il Rigoletto vanta anche una parte corale di rilievo. Il “Zitti, zitti, moviamo a vendetta” dei cortigiani che rapiscono Gilda è un Allegro fortemente ritmato, mentre subito dopo, a conclusione del primo atto, è l’orchestra a delineare la disperazione di Rigoletto. La scena e aria del duca che apre il secondo atto si attiene, diversamente dagli altri ‘assoli’ di questo personaggio, alla struttura rituale: recitativo (“Ella mi fu rapita”), Adagio (“Parmi veder le lacrime”) e cabaletta (Allegro “Possente amor mi chiama”), dilazionata dal coro “Scorrendo uniti remota via” dei cortigiani. Anche se il recitativo e l’Adagio sono ragguardevoli e cari al pubblico (non così la cabaletta, che il più delle volte è soppressa nelle normali esecuzioni), è evidente che si tratta d’un omaggio al tenorismo, seguito tuttavia da scene fondamentali. L’iniziale, simulata veemenza di “Cortigiani, vil razza dannata”, che poi si muta in un’implorazione (“Miei signori, perdono, pietade”) iterata dal corno inglese accompagnato dai soli archi; l’entrata improvvisa di Gilda, mentre fiati e archi prorompono in un Allegro; il patetico racconto “Tutte le feste al tempio”; il concitato “Solo per me l’infamia” di Rigoletto, seguito dall’accorato “Piangi, piangi, fanciulla” si susseguono con straordinaria continuità di ispirazione, per poi prorompere nell’Allegro vivo “Sì, vendetta, tremenda vendetta”: clamoroso, plateale, primordiale sotto certi aspetti, ma teatralmente travolgente.
Il terzo atto è contrassegnato da un’inventiva melodica grazie alla quale
ambientazione e avvenimenti procedono simultaneamente, pur con marcati
contrasti di tono. Allo sconsolato colloquio iniziale fra Rigoletto e Gilda
segue l’elettrizzante cinismo della canzone “La donna è mobile” del duca, che
Verdi tenne segreta ancora a prove iniziate e che la sera della prima rappresentazione
fu ‘trissata’. Quindi un breve, tetro dialogo Rigoletto-Gilda, ma subito dopo
lo stupefacente quartetto Gilda-Maddalena-duca-Rigoletto, che armonizza e fonde
quattro diversi stati d’animo. Quindi la tempesta, con la singolare trovata del
vento mimato a bocca chiusa dalle voci maschili del coro, il dialogo
Sparafucile-Maddalena e l’estremo sacrificio, mentre la tempesta s’intensifica.
Poi, mentre l’uragano si smorza, l’orgoglioso soliloquio di Rigoletto, che
crede d’aver annientato un uomo potente, ma è richiamato alla realtà dal canto
del duca, che ancora una volta intona “La donna è mobile”. Infine, l’ultima
melodia dell’agonizzante Gilda (“Lassù in cielo, vicino alla madre”) e
l’estremo grido di Rigoletto, evocante la maledizione di Monterone.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il Rigoletto verdiano è un universo sterminato per me che però ha
alcune “grandissime” edizioni coronate da interpreti e direttori d’orchestra di
primissimo piano. Queste le mie proposte:
- Edizione audio diretta da Tullio Serafin nel 1955 a Milano (T. Gobbi,
M. Callas, G. di Stefano);
- Edizione audio diretta da Gianandrea Gavazzeni nel 1960 a Firenze (E.
Bastianini, R. Scotto, A. Kraus);
- Edizione audio diretta da Rafael Kubelik nel 1964 a Milano (D.
Fischer-Dieskau, R. Scotto, C. Bergonzi);
- Edizione audio diretta da Richard Bonynge nel 1971 a Londra (S. Milnes,
J. Sutherland, L. Pavarotti);
- Edizione audio/video diretta da Riccardo Muti nel 1994 a Milano (R.
Bruson, A. Rost, R. Alagna);
- Edizione video diretta da Marcello Viotti nel 2001 a Verona (L. Nucci,
I. Mula, A. Machado).
L’edizione milanese del 1955 è diretta molto bene da Tullio Serafin che
dimostra, se non ce ne fosse bisogno, di quale grandissimo accompagnatore di voci
lui sia stato: l’orchestra supporta, aiuta, canta assieme alle voci. Tito Gobbi
è un grandissimo Rigoletto (anche se a me piace ma non emoziona) mentre Maria
Callas e Giuseppe di Stefano sono un’ottima coppia. Certo questo non è il ruolo
migliore della Callas… ma avercene al giorno d’oggi di Gilde così.
L’edizione fiorentina del capolavoro verdiano vede una buona direzione
(ma per me un po’ troppo pesante) di Gianandrea Gavazzeni che si trova a capitanare
una buonissima compagnia di canto in cui spiccano la Scotto e uno dei migliori
Duca di sempre: Alfredo Kraus. Ettore Bastianini canta bene ma risulta, a mio
avviso, troppo rozzo nell’interpretazione.
L’edizione del ’71 vede una discreta direzione di Richard Bonynge con l’interessante
Rigoletto di Sherill Milnes e l’azzeccatissimo Duca di Luciano Pavarotti.
Particolarissima la Gilda della Sutherland che in alcuni momenti è eccezionale mentre
in altri la si sente freddina e lascia, in termini esecutivi, un po’ a
desiderare.
Riccardo Muti dirige in maniera sontuosa questa partitura e nelle recite
scaligere del 1994 arriva ad altissimi livelli di concertazione. Dalla sua ha
un buonissimo Rigoletto in Bruson (anche se forse in alcuni momenti debole
rispetto ai colleghi che lo hanno preceduto) e due buoni cantanti nei ruoli di
Gilda e del Duca (Andrea Rost e Roberto Alagna).
Marcello Viotti è un direttore che purtroppo ci ha lasciato troppo
presto. Ottima la sua direzione nel 2001 all’Arena di Verona dove ha a
disposizione il Rigoletto per antonomasia degli ultimi 30 anni: Leo Nucci. Il
baritono è esecutivamente e interpretativamente roboante e in questa occasione
è accompagnato da un’ottima Inva Mula come Gilda e un buon Aquiles Machado come
Duca.
L’edizione che però in assoluto preferisco è quella registrata alla Scala
nel 1964 con la stupenda concertazione di Rafael Kubelik: il suo è un Rigoletto
di una potenza e di una musicalità uniche… mai sentite. Fischer-Dieskau è un
grande Rigoletto, molto diverso dai Gobbi/Bastianini/Nucci ma musicalissimo,
appropriato, supportato da una direzione che riesce a farlo esprimere al
meglio. Ottima in tutti i sensi la Gilda di Renata Scotto qui in una delle sue
migliori interpretazioni in assoluto. Può piacere o non piacere… ma a me
Bergonzi qui come Duca piace un sacco.
Ecco qui di seguito il link dell’opera diretta da Kubelik:
Commenti
Posta un commento