ALMANACCO OPERISTICO - 6 marzo 2021 - LA SONNAMBULA di V. Bellini
LA SONNAMBULA
Melodramma in due
atti di Felice Romani, dal ballo pantomimo La somnambule, ou L’arrivée d’un nouveau
seigneur di Eugène Scribe e Jean-Pierre Aumer
Musica di Vincenzo
Bellini
Prima
rappresentazione: Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831
La stagione di carnevale 1830-31 al Teatro Carcano di Milano si
preannunciava eccezionale. Sino a quel momento, il Carcano non era che uno dei
teatri secondari della capitale lombarda; ma quell’anno, l’impresa che si era
assicurata l’appalto era intenzionata a fare direttamente concorrenza alla
Scala: il cartellone, perciò, sfoggiava una formidabile compagnia di canto,
nella quale primeggiavano il tenore Giovanni Battista Rubini e il soprano
Giuditta Pasta (la grandissima attrice tragica in grado di eccellere anche nel
genere buffo, capace di padroneggiare le massime difficoltà tecniche), e
annunciava nientemeno che due opere nuove dei compositori più in voga,
Donizetti e Bellini. Il 26 dicembre la stagione si aprì con Anna Bolena di
Donizetti; a Bellini toccava andare in scena con l’opera successiva.
Accordatosi con Romani, già dal luglio 1830 Bellini aveva iniziato a
comporre Ernani, basato sull’omonimo dramma di Victor Hugo, che a Parigi
aveva appena suscitato enorme scalpore; ma a un certo punto librettista e
compositore interruppero il lavoro: probabilmente per timore della censura, che
certamente non vedeva di buon occhio un soggetto così ‘scandaloso’. Può anche
darsi che Bellini, o la stessa Pasta, non volessero ripetersi andando in scena
con un dramma dello stesso genere di Anna Bolena, dando la preferenza a
un soggetto decisamente diverso, che offrisse un buon contrasto col melodramma
donizettiano a fosche tinte. In breve fu rinvenuto un nuovo soggetto, al quale
Bellini si applicò a partire dai primissimi giorni del 1831; il lavoro
procedette spedito, tanto che in meno di due mesi l’opera venne ultimata. La
partitura di Ernani non andò interamente perduta: nella nuova opera,
Bellini ne riutilizzò in parte la musica. Il nuovo soggetto individuato
proveniva da un ballo pantomimo di Scribe e Aumer dal titolo La somnambule,
ou L’arrivée d’un nouveau seigneur, rappresentato all’Opéra di Parigi tre
anni prima (all’epoca, lo scambio di soggetti tra opera e ballo era cosa
comune). Il tema era stato sfruttato anche in una comédie-vaudeville dello
stesso Scribe e di Delavigne, nel 1819. Già da alcuni anni il tema del
sonnambulismo era al centro dell’interesse generale: la letteratura romantica
se ne era appropriata, avida d’indagare ogni fenomeno riguardante il sogno e
l’inconscio; Paër, Carafa e altri avevano composto melodrammi sul medesimo
soggetto, e nel mondo dell’opera, in generale, erano piuttosto frequenti le
scene di pazzia o di anomalia psichica. Romani e Bellini trasferirono la storia
dalla Provenza alle montagne svizzere; eliminarono scene intere, come quella
della schermaglia amorosa tra Alessio e Lisa, e ne ridussero altre, come la
scena mordace all’osteria tra Lisa e il conte; soppressero anche l’agnizione
finale (nella vicenda originaria, il conte riconosce in Amina la figlia
illegittima). Rimossero, in altri termini, quei particolari comici, scabrosi o
semplicemente piccanti – di gusto parigino – che nella storia originale
abbondavano: tutta la vicenda assunse perciò un tono nuovo, idilliaco e
innocente. Amina, Elvino e gli abitanti del villaggio appartengono a un mondo
puro e incontaminato; rappresentano la semplicità, idealizzata, dello stato di
natura. In tutto ciò La sonnambula richiama modelli settecenteschi come
la Nina di Paisiello: l’analogia è tanto più appariscente, in quanto
entrambe le innocenti protagoniste soffrono di un disturbo psichico. Per le sue
caratteristiche, La sonnambula appartiene a un genere ibrido: è una
sorta di favola pastorale o idillio, ed è al tempo stesso un’opera semiseria
(ma con riserva: c’è il lieto fine, ma manca il tradizionale basso buffo).
Atto primo. In un villaggio tra le montagne svizzere. Contadini e
contadine festeggiano le nozze di Amina, un’orfanella adottata da Teresa,
padrona del mulino, con Elvino, un giovane possidente. Lisa, l’ostessa del
villaggio, è l’unica persona triste in mezzo a tanta gioia, poiché ama Elvino e
sa che sta per perderlo (“Tutto è gioia, tutto è festa”). Alessio, innamorato
di Lisa, le fa la corte inutilmente. Amina esce dal mulino, accompagnata da
Teresa, ringrazia gli abitanti del villaggio e manifesta la sua gioia (“Come
per me sereno”). Giungono il notaio ed Elvino, che si è recato a implorare la
benedizione sulla tomba della madre; offre l’anello nuziale ad Amina (“Prendi:
l’anel ti dono”), che non sa trovar parole per esprimere tutta la sua gioia. Si
ode il rumore di una carrozza: giunge il conte Rodolfo diretto al suo castello,
e accetta l’invito di Lisa a pernottare nel suo albergo prima di riprendere il
viaggio. Riconosce i particolari del villaggio, che non rivede dai tempi
dell’infanzia (“Vi ravviso, o luoghi ameni”). Al calar della notte Teresa
ammonisce il conte che un fantasma è solito mostrarsi nel villaggio, turbando
il sonno degli abitanti. Il conte è incredulo, ma tutti confermano il racconto
(“A fosco cielo, a notte bruna”). Si congeda galantemente da Amina, suscitando
la gelosia di Elvino (“Son geloso del zefiro errante”); subito, però, la
fanciulla tranquillizza l’innamorato. In una stanza dell’albergo Lisa informa
il conte Rodolfo che gli abitanti del villaggio l’hanno ormai riconosciuto e si
preparano a festeggiarlo. Un rumore proveniente dall’esterno li interrompe:
Lisa, che non vuol essere sorpresa in compagnia del conte, si allontana
perdendo il fazzoletto. Dalla finestra entra nella stanza Amina, che cammina
nel sonno: il conte comprende che è lei il fantasma di cui si parla nel
villaggio. Non vuole approfittare dell’innocente fanciulla e la lascia, perciò,
sola nella stanza, assopita su un sofà. Giungono intanto i contadini per
rendere omaggio al conte e si accorgono che Amina si trova nella sua stanza;
giunge anche Elvino, avvertito da Lisa. Amina si sveglia e resta confusa tra le
accuse generali; alle sue proteste d’innocenza (“D’un pensiero e d’un accento”)
crede solo Teresa, che nel frattempo ha trovato nella stanza il fazzoletto
perduto da Lisa. Elvino ricusa le nozze; Amina sviene tra le braccia di Teresa.
Atto secondo. Gli abitanti del villaggio (“Qui la selva è più
folta ed ombrosa”) si ripropongono di sottoporre il caso di Amina al conte
Rodolfo. La fanciulla tenta invano di convincere Elvino, che compiange la
propria sorte (“Tutto è sciolto”), della falsità delle accuse. Giungono i
villici e recano la notizia che il conte dichiara innocente Amina; ma Elvino
reagisce con dispetto, togliendo l’anello alla sposa e deplorando, al tempo
stesso, di non saperla cancellare dal proprio cuore. Nella piazza del
villaggio. Lisa gioisce, con disperazione di Alessio, per le sue nozze con
Elvino (“De’ lieti auguri a voi son grata”), che sta per condurla in chiesa.
Giunge al villaggio il conte Rodolfo e proclama l’innocenza di Amina, spiegando
che è entrata nella sua stanza camminando nel sonno. Elvino non gli crede; a
sedare il bisticcio giunge Teresa, pregando gli astanti di non far rumore:
Amina, per le emozioni, si è appena addormentata. Alla notizia che Elvino sta
per sposare Lisa, Teresa esibisce il fazzoletto perduto dall’ostessa nella
stanza del conte: Elvino comprende allora che Lisa mente. Compare Amina,
sonnambula; tra la costernazione generale cammina su una trave fradicia e si
avvicina pericolosamente alla ruota del mulino. Parla nel sonno, immaginando
d’avere riconquistato l’amore di Elvino e guardando il fiore donatole
dall’amato (“Ah, non credea mirarti”). Elvino le infila di nuovo l’anello, la
ridesta e, fra il tripudio di tutto il villaggio, si riconcilia con lei.
La sonnambula divenne, nel corso dell’Ottocento, l’opera
paradigmatica del genere idillico-pastorale, volto a celebrare il mito di
un’umanità innocente, dai sentimenti puri e incorrotti. Ma se l’opera sfugge
all’oleografia, lo deve precisamente alla musica, che si mantiene altamente
espressiva senza indulgere alla raffigurazione di maniera e senza cadere nel
sentimentalismo. Opera estremamente omogenea, La sonnambula ricava la
propria unità dallo stile, dal tono generale, più che da un principio
drammaturgico; l’invenzione musicale si mantiene felicissima dall’inizio alla
fine, senza conoscere momenti di debolezza. Lo stile belliniano – sintesi di
effusione lirica e declamazione espressiva – vi appare perfettamente maturo e
definito. La presenza di due cantanti come la Pasta (nel ruolo di Amina) e
Rubini (in quello di Elvino) è tradita dalla tessitura originale altissima e
dalla grande estensione, oltre che dalle copiose fioriture (la cabaletta “Sovra
il sen la man mi posa” nella cavatina di Amina, ad esempio, rivela – con la sua
inusuale lunghezza e l’abbondante coloratura – l’intento di valorizzare al
massimo le doti della Pasta). La coloratura, tuttavia, non è di stampo
rossiniano: è proprio qui che Bellini mostra di avere definitivamente preso le
distanze dal pesarese. La sonnambula non fa sfoggio di fioriture
acrobatiche ed edonistiche; la coloratura è improntata a un carattere di
morbida eleganza e leggerezza, e non disturba mai la naturalezza dell’effusione
canora. L’invenzione melodica, del pari, è tutt’altro che incanalata in forme
schematiche; Bellini segue lo stimolo della poesia e compone brani che si
sottraggono allo schematismo fraseologico e formale consueto nell’opera
italiana dell’epoca. L’aria finale di Amina, “Ah, non credea mirarti”, è
caratterizzata da una melodia lunghissima e altamente espressiva, nella quale
l’arcata melodica pare dilatarsi all’infinito, insofferente di cesure e di
articolazioni troppo nette. Regno assoluto della vocalità, La sonnambula
fornisce al canto un sostegno orchestrale leggero e discreto. La strumentazione
è essenziale a un punto tale che il compositore si attirò all’epoca alcune
critiche, soprattutto fuori d’Italia, dov’era in uso un’orchestrazione più
nutrita; in realtà, la presunta ‘povertà’ dell’orchestra belliniana è studiata
per dare il massimo risalto alla voce. Gli effetti strumentali sofisticati non
mancano, ma sono accenni poco esibiti, sottili e sfumati. Anche l’armonia si
avvale di allusioni delicate: quali la modulazione inattesa che all’apparire
del fantasma (Amina che cammina nel sonno) produce un senso di sospensione e
sgomento. Alle scene del Teatro Carcano, La sonnambula approdò la sera
del 6 marzo 1831, suscitando l’entusiasmo generale; l’opera fu subito portata a
Londra, nel luglio dello stesso anno, e a Parigi in ottobre. Predilessero il
ruolo di Amina grandi interpreti vocali dell’epoca, quali Maria Malibran,
Giuseppina Strepponi e, più tardi, Adelina Patti. Nel nostro secolo si sono
cimentate con successo, nel medesimo ruolo, Luisa Tetrazzini, Toti dal Monte,
Maria Callas e Renata Scotto.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
La sonnambula, assieme a Norma, è stata la prima opera
belliniana che ho ascoltato ed ho avuto modo di vedere anche a teatro. L’ho
ascoltata tante volte ma credo di poter affermare, senza essere smentito, che
due sole sono le edizioni di riferimento di questo capolavoro:
- Edizione audio diretta da Leonard Bernstein nel 1955 a Milano (M.
Callas, C. Valletti, G. Modesti);
- Edizione audio diretta da Richard Bonynge nel 1980 a Londra (J.
Sutherland, L. Pavarotti, N. Ghiaurov).
L’edizione milanese è diretta con piglio e estro da Leonard Bernstein e
si avvale di due autentici fuoriclasse. Maria Callas in linea teorica non
avrebbe la voce per cantare Amina ma, se l’avete ascoltata o avrete modo di
ascoltarla nella registrazione più avanti postata, lei è una delizia, uno spettacolo
assoluto. E quando si è di fronte a simili “mostri” a poco contano le edizioni
filologiche… qui è tutta una meraviglia. Mettiamoci poi un Elvino splendido
come Cesare Valletti e il gioco è fatto.
L’atra edizione simbolo di quest’opera è senza dubbio quella con la
coppia Sutherland/Pavarotti. Qui la direzione orchestrale è affidata alla buona
mano di Richard Bonynge che, a mio parere, sfoggia una delle sue migliori
concertazioni. Joan Sutherland in quanto a straordinarietà di coloratura del
suo timbro non è seconda a nessuno anche se a volte sembra sempre un po’
freddina. La sua dizione ogni tanto lascia un po’ a desiderare ma le sue
colorature, il suo timbro la rendono una Amina da antologia. Luciano Pavarotti
mette su disco una delle sue migliori interpretazioni in assoluto: voce limpida
e morbida, dotata di un timbro spettacolare, è il giusto contraltare della
Sutherland.
Ho tralasciato nella mia disamina tante grandi interpreti di questo ruolo
sia italiane che straniere ma sono dell’avviso che le due edizioni appena
citate siano la summa interpretativa di questo capolavoro di Bellini.
Per me le due edizioni sono
complementari ma ho scelto di postare qui di seguito l’edizione scaligera con
la mitica Callas:
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