ALMANACCO OPERISTICO - 6 marzo 2021 - LA TRAVIATA di G. Verdi
LA TRAVIATA
Melodramma in tre
atti di Francesco Maria Piave, dal dramma La Dame aux camélias di
Alexandre Dumas figlio
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
Archiviato il lusinghiero debutto del Rigoletto, Verdi si trova
eccezionalmente ad attendere a due nuove opere, una per Roma (Il trovatore),
l’altra per Venezia. Se il completamento della prima viene ostacolato
dall’improvvisa morte del librettista Cammarano, la seconda si trova arenata
per mesi sulla scelta stessa del soggetto. L’idea definitiva verrà a Verdi,
come vera folgorazione, dalle prime recite parigine della Dame aux camélias
di Alexandre Dumas figlio, nel febbraio 1852, dramma che l’autore aveva tratto
da un proprio romanzo fortemente autobiografico del 1848, bestseller della
letteratura scandalistica. La scabrosità del soggetto – la parabola amorosa di
Alphonsine Duplessis, una delle più celebri cortigiane parigine, morta
ventitreenne appena un anno avanti l’uscita del romanzo – non sfuggiva certo a
Verdi: «Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi [l’epoca
contemporanea] e per altri mille goffi scrupoli. Io lo faccio con tutto il
piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena.
Ebbene: io ero felice di scrivere il Rigoletto». Solo la censura
veneziana, particolarmente tollerante con Verdi, avrebbe potuto accordare il
suo assenso alla nuova provocazione, dopo aver accettato le arditezze di Ernani
e Rigoletto, i cui stessi originali vittorughiani rimanevano banditi
dalle scene in terra di Francia. Rifiutò tuttavia il titolo Amore e morte
proposto da Verdi, appagandosi inspiegabilmente di quello ben più forte di Traviata;
ma soprattutto impose una retrodatazione della vicenda al XVIII secolo,
annullando così l’effetto prorompente addotto dalla contemporaneità del fatto,
quasi cronachistico, nel quale gli spettatori avrebbero dovuto riconoscere i
frac, le parures, le danze, i giochi, le tresche e i mal sottili propri
della società cui appartenevano: un prolungamento della realtà sull’assito
della finzione scenica. Verdi riuscì a malapena a impedire l’uso di parrucche ancien
régime, ma non poté evitare l’effetto di straniamento che veniva a crearsi
fra una musica tutta improntata alla danza del momento – il valzer voluttuoso e
peccaminoso che stava conquistando l’Europa – e la lontananza epocale
dell’immagine scenica. Annullato o almeno attutito, l’effetto della
provocazione, non perveniva al pubblico che il solito cliché melodrammatico
– come diceva Shaw – del «tenore che intende portarsi a letto il soprano, ma il
baritono non vuole», affidato per di più a una compagnia di canto in gran parte
inadatta alle ragioni del dramma (la protagonista Fanny Salvini Donatelli) o
della musica (il tenore Ludovico Graziani e il celebrato, ma ormai logoro
baritono Felice Varesi): «La traviata, ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei
cantanti? Il tempo giudicherà», commentava il compositore all’indomani del
debutto.
Con una precisa risposta in cuor suo, Verdi rifiutò ogni offerta di
appello provenientegli da questo o quel teatro, fino a quando non ravvisò una
compagnia vocale all’altezza. Nemesi della storia, la trovò proprio a Venezia,
nel secondario Teatro di San Benedetto: apportate alcune modifiche per adattare
la parte ai nuovi cantanti Maria Spezia, Francesco Landi e Filippo Coletti, con
un gesto carico di provocazione Verdi riaffrontò il medesimo pubblico il 6
maggio 1854: «Sappiate addunque che la Traviata che si eseguisce ora al
S. Benedetto è la stessa, stessissima che si eseguì l’anno passato alla Fenice,
ad eccezione di alcuni trasporti di tono, e di qualche puntatura che io stesso
ho fatto per adattarla meglio a questi cantanti: i quali trasporti e puntature resteranno
nello spartito perché io considero l’opera fatta per l’attuale compagnia. Del
resto non un pezzo è stato cambiato, non un pezzo è stato aggiunto o levato,
non un’idea musicale è stata mutata. Tutto quello che esisteva per la Fenice
esiste ora pel S. Benedetto. Allora fece fiasco; ora fa furore.
Concludete voi!!».
I cambiamenti furono, in realtà, più consistenti di quanto Verdi avesse
buon gioco di sbandierare, ma certo non tali da ribaltare il giudizio dello
stesso pubblico a distanza di soli quattordici mesi. In entrambi i casi,
l’azione segue il decorso e soprattutto lo spirito del dramma di Dumas (con
l’omissione del secondo atto), piuttosto che l’omonimo romanzo, le cui tinte a
volte sin troppo realistiche si erano stemperate sulla scena in un processo di
nobilitazione dei personaggi, condotto a compimento nell’opera verdiana. La
quale, dal canto suo, adotta una tecnica narrativa quanto mai insolita per il
melodramma dell’epoca, massime se applicata alla sola musica, senza l’ausilio
delle parole. In termini moderni parleremmo di flashback, o ancor meglio
di narrazione a ritroso, condotta attraverso le note del preludio che
apre l’opera: un ritratto musicale della protagonista, colta nello stadio del
declino fisico (i diafani violini del primo tema, che caratterizzerà poi l’atto
terzo), mentre la mente corre nostalgica ai tempi della tormentata relazione
amorosa (è il passionale «Amami, Alfredo» del secondo atto) e ai giorni
spensierati delle frivolezze parigine in cui la passione era divampata (ed ecco
i guizzi brillanti dei violini a corteggiare il tema amoroso ripetuto con
calore dagli archi gravi). L’ascoltatore viene così condotto per mano in questo
viaggio a ritroso nel tempo, sino a venire catapultato nel bel mezzo della
festa chiassosa che apre l’atto primo, con la consapevolezza che ciò cui
assisterà è già ‘passato’: una situazione di euforica allegria, che il tempo ha
in realtà ormai travolto e soffocato. «Dell’invito trascorsa è già l’ora»: sono
quasi profetiche le parole con cui esordisce la folla d’invitati nel salotto
parigino di Violetta.
Atto primo. Un’affiatata compagnia di gaudenti aristocratici e
compiacenti damigelle si è riunita per trascorrere l’ennesima notte di piaceri,
dove «L’amistà s’intreccia al diletto». Novizio, e un po’ disorientato fra
tanto vortice di parole e di musica, è Alfredo Germont, fattosi introdurre
dall’amico Gastone col deliberato proposito di conoscere personalmente la
padrona di casa, oggetto di segreta passione. Violetta si fa celia di tante
attenzioni, e per sdrammatizzare la scena propone un brindisi collettivo
(“Libiam ne’ lieti calici”). La festa prosegue: nel salone contiguo si aprono
le danze; gli invitati accorrono, ma un accesso di tosse frena l’uscita di
Violetta, che si trattiene assistita da Alfredo. L’eco dei valzer giunge sino
al proscenio, fungendo da sostegno sonoro alla conversazione appartata dei due:
alle profferte amorose dell’uno (“Un dì, felice, eterea, / mi balenaste
innante”) si mescolano le ricuse divertite dell’altra, che a un uomo non può
promettere altro che amicizia (“Ah, se ciò è ver, fuggitemi... / solo amistade
io v’offro”). Catturati nuovamente dal turbinio della festa, che sta per
volgere al termine, i due si danno appuntamento per il giorno seguente. È ormai
l’alba e Violetta, rimasta sola, medita turbata sull’effetto sortito in lei
dalle parole di Alfredo: che sia forse giunto il giorno del suo primo vero
amore, il momento di «essere amata amando»? (cantabile “Ah, fors’è lui che
l’anima”) No di certo (tempo di mezzo “Follie... follie... delirio vano è
questo”). Il destino di Violetta è ben altro: continuare nella sua condizione
di gaudente indipendenza sociale (cabaletta “Sempre libera degg’io /folleggiare
di gioia in gioia”).
Atto secondo. Fra tali propositi era calato il sipario dell’atto
primo; ma il riaprirsi della tela, su una casa di campagna presso Parigi, ci
rivela contro ogni aspettativa un Alfredo perfettamente inserito in un
tranquilloménagedi coppia con la donna (cantabile “De’ miei bollenti spiriti /
il giovanile ardore / ella temprò col placido / sorriso dell’amore”). La
serenità conquistata ha tuttavia vita breve. La servetta Annina, testé giunta
da Parigi, rivela di esservi stata inviata dalla padrona – privata ormai delle
munifiche elargizioni di tanti protettori – per alienare i beni restanti e
finanziare così la nuova esistenza. Alfredo non ci sta: aperti finalmente gli
occhi dopo tre mesi di estasi beata (“Dell’universo immemore / io vivo quasi in
ciel”) corre egli stesso a Parigi, per cercare una soluzione adeguata
(cabaletta “O mio rimorso, o infamia, / io vissi in tale errore”). Ignara di
tutto, rientra Violetta; sorride di un invito che le giunge dai vecchi amici
per la sera stessa: non è più vita per lei! Ed ecco piombare inatteso il padre
d’Alfredo che, in un memorabile duetto con Violetta, chiede alla donna una
netta recisione della convivenza peccaminosa: il futuro genero, già sul punto
di sposare la sorella di Alfredo, venuto a conoscenza dell’onta che grava sulla
famiglia Germont, minaccia l’abbandono della giovane (“Pura siccome un angelo /
Iddio mi die’ una figlia”). Violetta, in una disperata requisitoria, oppone
tutto il suo autentico e disinteressato amore per Alfredo a quello ipocrita dei
matrimoni combinati fra l’alta società, ma il vecchio Germont è irremovibile
nel suo cinismo: torni, finché è giovane, alla vita gaudente di prima; l’uomo è
volubile e, quando la bellezza sarà svanita, anche Alfredo si rivolgerà
altrove. Votata al martirio, la donna cede (“Dite alla giovine – sì bella e
pura / ch’avvi una vittima – della sventura”). L’accordo è presto fatto.
Inutile dire ad Alfredo che l’amore è finito: non lo crederà; sarà piuttosto
Violetta a concertare la cosa, dietro la promessa che, quando il dolore avrà
sopraffatto la sua ormai cagionevole salute, la verità venga rivelata all’amato
(cabaletta “Morrò!... la mia memoria non fia ch’ei maledica”). Rimasta sola,
Violetta si appresta a scrivere la lettera mendace per Alfredo; da questi
inopinatamente sorpresa, scoppia in un’eccitazione crescente, che culmina nella
più straziante richiesta d’amore della storia dell’opera (“Amami Alfredo, amami
quant’io t’amo”). Violetta fugge verso Parigi; la lettera viene recapitata
all’amato pochi minuti dopo: questi l’apre, la legge e cade disperato fra le
braccia del padre, rimasto opportunamente in agguato per cogliere l’attimo più
propizio alla riconquista del figlio. La paternale è immediata (“Di Provenza il
mar, il suol – chi dal cor ti cancellò?”); Alfredo si stacca adirato
dall’abbraccio paterno, tutto intento a scoprire chi possa essere la causa
dell’improvviso voltafaccia di Violetta (forse il barone Douphol?), mentre il
padre torna all’attacco sul suo fronte moralistico (cabaletta “No, non udrai
rimproveri”), senza riuscire più a catturare l’attenzione di Alfredo. È invece
un foglio abbandonato sul tavolo a colpirlo: l’invito per la sera stessa al
solito festino gaudente; è lì che l’offesa verrà vendicata. Repentino il cambio
di scena, ed eccoci al centro di un ballo mascherato: zingarelle e toreri
invadono il salone coi loro canti festosi (“Noi siamo zingarelle”; “Di Madrid
noi siam mattadori”). A poche ore dal fatto, la notizia della separazione fra i
due amanti circola già in società, e l’ingresso disinvolto di Alfredo alla
festa in cui la donna apparirà a braccetto del nuovo amante viene salutato con
approvazione. Ecco infatti giungere Violetta, accompagnata dal barone Douphol.
Alfredo sbanca tutti al tavolo da gioco: anche il rivale, in una sfida a carte
che assume inevitabilmente connotazioni ben più personali. La tensione viene
tempestivamente interrotta dall’invito alla cena: i convitati si allontanano,
tranne Violetta, che in un disperato quanto fallimentare tentativo di evitare
il peggio ha fatto chiamare a sé proprio Alfredo. Il dialogo è impossibile: lei
si vede costretta ad ammettere di amare Douphol, pur di non svelare il vero, e
lui, chiamati i presenti a raccolta, con ira crescente ne denuncia
pubblicamente la condotta, gettandole ai piedi una borsa di danaro in segno di
pagamento per il periodo trascorso insieme. La situazione precipita nel
concertato finale, aperto dall’ingresso inatteso di Germont padre che, invece
di giustificare il comportamento della donna svelando la verità, continua le
sue querimonie contro il comportamento indecoroso del figlio (Largo concertato
“Di sprezzo degno se stesso rende / chi pur nell’ira la donna offende”), cui si
accodano le espressioni di rimorso di Alfredo, le dolenti rimostranze di
Violetta, i moti compassionevoli di tutti gli astanti.
Atto terzo. Ed eccoci alla conclusione del flashback, come
ci ricorda il preludio che si apre con le identiche note dell’inizio, ma senza
più deviare verso i toni della passione e della frivolezza: il presente è solo
dolore – fisico, oltre che morale e affettivo, in quanto la tisi ha ormai
condotto l’eroina sul letto di morte. Al capezzale l’assistono ancora la fedele
Annina e le cure pietose del medico, già testimone di tutti i precedenti
eventi. La sofferenza e l’indigenza di Violetta contrastano con l’opulenza del
carnevale parigino, che fa giungere dalla strada i suoi canti festosi. Unica
consolazione in tanta solitudine è una lettera che la donna ha ricevuto da
Giorgio Germont: l’informa del duello, in cui il barone è rimasto ferito, e
della partenza di Alfredo dalla Francia; ragguagliato finalmente dal padre
sulla verità degli eventi, sta ora facendo rapido ritorno per farsi perdonare
dall’amata. Purtroppo è ormai tardi: Violetta rilegge lo scritto per l’ennesima
volta, e ancor non giunge alcuno, mentre le forze la abbandonano giorno dopo
giorno (romanza “Addio del passato bei sogni ridenti”). Ma ecco Annina entrare
tutta eccitata nella stanza: Alfredo è arrivato, e corre fra le braccia di
Violetta per l’immancabile duetto. Alla rappacificazione immediata (tempo
d’attacco “Colpevol sono...so tutto, o cara”), seguono i più ottimistici
progetti per il futuro (cantabile “Parigi, o cara, noi lasceremo”); Violetta
vorrebbe uscire (tempo di mezzo), correre in chiesa per ringraziare Iddio della
nuova gioia, ma le forze non la reggono più: si chiami pure il medico, ma se
non riesce a salvarla il tanto sospirato ritorno di Alfredo, nessun altro lo
potrà in terra (cabaletta “Gran Dio, morir sì giovane”). Anche Giorgio Germont
sopraggiunge per l’ultimo conforto: le voci si uniscono nel concertato finale
avviato dalla protagonista (Largo “Prendi; quest’è l’immagine / De’ miei
passati giorni”), cui seguono i soli pochi istanti di apparente vigore che
sogliono cogliere i malati di tisi, prima del crollo definitivo. Vana
illusione: Violetta cade esanime.
Sul piano musicale, La traviata è per molti aspetti l’ultima opera
prettamente belcantista di Verdi, spartiacque fra il modello primo-ottocento
ancora legato a una dimensione vocale ‘idealizzata’ dell’opera e la nuova via
‘realistica’, che Verdi stesso percorrerà nella seconda metà del secolo: la
parte della protagonista ne è l’immagine, con la sua parabola che,
dall’esuberante ornamentazione virtuosistica del primo atto, conduce alle
diafane emissioni del terzo, attraverso i momenti di intensa declamazione che
caratterizzano i momenti centrali dell’opera. Anche le strutture portanti, se
nominalmente sono le medesime sulle quali si era fondato il melodramma italiano
da Rossini in poi, mostrano tuttavia qui la loro inadeguatezza alle nuove
esigenze espressive, nella necessità continua di un ampliamento o un
annullamento. Si pensi alla tipica forma in quattro tempi che caratterizzava i
pezzi d’assieme (tempo d’attacco, cantabile o largo concertato, tempo di mezzo,
cabaletta o stretta): le loro coordinate continuano a ritrovarsi nei vari
numeri dell’opera che si susseguono, come di volta in volta si è indicato; ma
quante deviazioni, ad esempio, quante sottodivisioni nel tempo d’attacco e nel
cantabile del lunghissimo duetto Violetta-Germont, per aderire musicalmente in
maniera sempre consona ai mutevoli passaggi del dramma. L’ultima sezione del
modello formale codificato – quella ‘stretta’ il cui compito era spesso non
altro che di chiudere con l’adeguato clamore musicale una scena di per sé
drammaticamente già esauritasi – diviene poi ingombrante anticaglia per il
Verdi della Traviata, che vi rinuncia volentieri nel finale del secondo
atto e procura così il dovuto effetto sul pubblico proprio eludendo
l’aspettativa del finale clamoroso, col far calare la tela sul bel mezzo del
numero musicale, giusto al termine del Largo concertato. Non stupisce dunque
che una consolidata tradizione interpretativa, tutta protesa verso i ritmi più
incalzanti dell’opera verista, sia andata persino oltre le intenzioni dello
stesso autore, abolendo anche le cabalette residue nelle arie dei Germont e
ogni altro genere di ripetizione, sentite vetusta all’interno di un dramma con
spiccate punte di realismo drammatico (ad esempio nelle seconde strofe dei due
momenti solistici di Violetta, per ironia dettate già esse stesse da un
desiderio innovativo: l’importazione della struttura a romanza bistrofica,
tipica della tradizione francese, per ritrarre personaggi femminili sopraffatti
o colti in momenti di malinconica solitudine). Persi così anche gli ultimi
tratti di certa estroversione pompieristica, che aveva segnato la prima
produzione verdiana – e che sono la tinta più genuina e affascinante ancora nel
coevo Trovatore – La traviata assume un carattere quasi di ‘opera
da camera’, nonostante le apparenze delle scene di festa che pur la
caratterizzano, e a dispetto di quel ritmo di valzer che tutta la pervade,
costituendone la cifra musicale più evidente.
Come prototipo di certa opera intimistica, destinata a trovare un suo
spazio in epoca successiva, La traviata propone anche efficaci modelli
per quella realizzazione musicale del ‘discorso interiore’ del personaggio che
troveranno adeguato sviluppo nei drammi musicali wagneriani. L’impiego
dell’orchestra quale mezzo di trasparenza interiore è tangibile, ad esempio,
già nell’oboe dolente che, in linea con un topos tradizionale, introduce
l’‘addio del passato’, come ‘doppio’ musicale del personaggio affranto. Ben più
innovative appaiono invece soluzioni come quella adottata mentre Violetta
scrive ad Alfredo la lettera decisiva della separazione, la cui straziante
pregnanza viene emotivamente comunicata dall’orchestra, nello stesso momento in
cui le parole si concretizzano nella mente del personaggio. E ancora più
clamoroso è l’espediente che conclude il primo atto, con l’intervento fuori campo
della voce tenorile a ripetere le frasi del duettino amoroso: il passo non
andrà già letto in senso realistico, come improbabile serenata di Alfredo sotto
il balcone di Violetta, quanto piuttosto – portando a estreme conseguenze il
comportamento dell’orchestra in passi analoghi – quale epifania del pensiero
interiore della protagonista.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Come si può non amare questo straordinario capolavoro di Giuseppe Verdi.
Normalmente questo titolo è in cima alle classifiche dei melodrammi più
rappresentati al mondo… e un motivo ci sarà! Io personalmente l’adoro (è stata
la mia prima opera in teatro e io avevo quasi 10 anni) e sono legato, a vario
modo a queste edizioni che vi elenco:
- Edizione audio diretta da Arturo Toscanini nel 1946 a New York (L.
Albanese, J. Peerce, R. Merrill);
- Edizione audio diretta da Franco Ghione nel 1958 a Lisbona (M. Callas,
A. Kraus, M. Sereni);
- Edizione audio diretta da Carlos Kleiber nel 1976/77 a Monaco (I.
Cotrubas, P. Domingo, S. Millnes);
- Edizione audio diretta da Riccardo Muti nel 1980 a Londra (R. Scotto,
A. Kraus, R. Bruson);
- Edizione video diretta da Carlo Rizzi nel 2005 a Salisburgo (A.
Netrebko, R. Villazon, T. Hampson);
- Edizione video diretta da Louis Langrée nel 2011 a Aix en Provence (N.
Dessay, C. Castronovo, L. Tezier).
L’edizione del 1946 vede su tutto e tutti la direzione di Arturo
Toscanini. Lo ammetto, io personalmente ho dovuto ascoltarla più volte prima di
interiorizzare bene la concertazione del grande maestro. Alla fine la trovo una
delle massime espressioni interpretative di questo capolavoro verdiano. Lucia
Albanese non è sicuramente la Violetta ideale ma si fa ben valere, riuscendo a
portare una bella differenza vocale tra il primo e l’ultimo atto, la voce
matura maturando anche il personaggio che interpreta.
Altro direttore che concerta “a modo suo” e ascoltarlo fa benissimo alle
orecchie è Carlos Kleiber che, a mio parere, ha un unico neo: certe volte il
sostegno ai cantanti è così flebile che sembra li lascia a loro stessi. Ileana
Cotrubas non è la mia Violetta ideale ma qui canta bene. Domingo ci prova… ma
Alfredo è altra cosa. La classe di Sherill Millnes è risaputa… e qui si
dimostra ancora una volta un grandissimo interprete.
Riccardo Muti dirige complessivamente, a mio parere, una delle migliori
edizioni di Traviata (seconda solo a quella di cui riferirò tra poco) avendo a
disposizione Renata Scotto che, seppur non più all’apice della sua
straordinaria carriera, tratteggia una Violetta completamente in parte,
totalmente legata alla parola cantata, drammaturgicamente pregnante. Alfredo
Kraus (che non è più quello del ’58) ci lascia comunque un ottimo Alfredo
mentre non è al meglio Renato Bruson nel ruolo di Germont padre.
Il video della recita salisburghese del 2005 ha consacrato Anna Netrebko
come la grande “diva” degli ultimi vent’anni. La sua Violetta, pur essendo
vocalmente al di sotto abbondantemente di Callas e Scotto, è di una bellezza e
purezza vocale uniche. La affiancano un discreto Rolando Villazon e un buon
Thomas Hampson, con la direzione orchestrale priva di particolari guizzi di
Carlo Rizzi.
Il video registrato ad Aix en Provence è, secondo me, il testamento
vocale di Natalie Dessay: anche lei non può competere con le grandi del passato
ma la sua violetta è molto interessante. Discreto tutto il resto del cast così
come la direzione orchestrale.
L’edizione che ritengo come punta di diamante di una discografia quasi
sterminata (più di 250 solo le edizioni ufficiali) è senza dubbio quella che
vede protagonista nel 1958, a Lisbona, la grandissima Maria Callas. La cantante
greca non interpreta Violetta… è Violetta: in ogni frase, in ogni nota, in ogni
respiro. Commentare la sua interpretazione (a mio parere migliore rispetto a
quella registrata in studio alla Scala qualche anno prima) è praticamente
impossibile perché bisognerebbe fermarsi a citare quasi ogni singola battuta.
Un esempio su tutti è l’entrata del primo atto “Flora! Amici!” scandita con una
intensità che ci dice già tutto sulla sua Violetta. Qui la Callas è affiancata
da un giovane e spavaldo Alfredo Kraus che ci porta uno svettante e magnifico
Alfredo mentre Mario Sereni (baritono pochissimo considerato) dà voce ad un
ottimo Germont padre. La direzione di Franco Ghione è appena sufficiente, senza
però risultare “indigesta”, anche perché ha a disposizione un’orchestra e un
coro (soprattutto) molto approssimativi in quanto ad interpretazione.
Non ho preso in considerazione altre Violette come la Olivero, la Caballé,
la Tebaldi, la Sutherland e, più vicine a noi, la Gheorghiu oppure la Devia
perché, a mio modo di vedere, nulla aggiungono alle grandi cantanti che ho fin
qui citato.
Un ricordo a cui sono legato particolarmente è la mia prima Traviata in
teatro, quando non avevo ancora 10 anni, cantata dalla troppo presto scomparsa
Giusy Devinu in coppia con un giovanissimo Roberto Alagna al Teatro Comunale di
Adria nel lontano (per me) 1989… chissà se la mia passione per il melodramma e
per quest’opera in particolare sia dovuta proprio a quella sera…
Purtroppo non esiste in rete la
registrazione completa dell’edizione lisbonese cantata da Maria Callas. Io vi
posto qui il link con l’intero primo atto dove potete rendervi conto della
straordinaria interpretazione della “Divina”:
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