ALMANACCO OPERISTICO - 14 marzo 2021 - MACBETH di G. Verdi
MACBETH
Melodramma in
quattro parti di Francesco Maria Piave, da Shakespeare
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Firenze, Teatro della Pergola, 14 marzo 1847
Macbeth, Otello, Falstaff, ma anche Amleto, La
tempesta, progetti accarezzati e mai compiuti, e soprattutto Re Lear,
sogno di tutta una vita: il rapporto di Verdi con il teatro di Shakespeare non
fu certo incontro fortuito. L’interesse per il poeta inglese crebbe, diremmo,
con l’uomo, dalla prima gioventù fino alla maturità estrema; e che fosse
mediato dalla traduzione italiana di letterati come Carlo Rusconi e Andrea
Maffei, amico influente oltre che collaboratore nel caso dei Masnadieri e
di Macbeth, o dall’interpretazione decadentista di Arrigo Boito per Otello,
poco importa. Ciò che più interessa è il fatto che al suo mondo interiore
attenessero alcune fra le più grandi problematiche morali della tragedia
shakespeariana: il confronto dell’individuo con la propria coscienza e
identità, la presenza del male nella natura umana e la lotta con esso, il
rapporto con il potere.
Macbeth è la prima concretizzazione di questo duraturo confronto
di Verdi con il teatro del grande drammaturgo; nell’energia e nell’impegno
suscitati essa reca in sé il segno di quella straordinaria svolta stilistica
che porterà alla cosiddetta trilogia popolare: Rigoletto, Trovatore,
Traviata. L’offerta di scrivere una nuova opera da rappresentarsi nella
stagione di carnevale e quaresima del 1847 al Teatro della Pergola di Firenze
gli venne dall’impresario Alessandro Lanari. Verdi stette qualche tempo incerto
sulla scelta del soggetto tra Grillparzer, Schiller (I masnadieri) e
Shakespeare (Macbeth), poi restrinse il campo agli ultimi due drammi,
decidendosi infine definitivamente per Macbeth. Scelto l’argomento,
Verdi dimostrò di avere da subito le idee molto chiare riguardo alle linee su
cui l’opera avrebbe dovuto essere condotta: una tragedia che corre sul filo del
sublime, con tre personaggi, Macbeth, Lady Macbeth e le streghe, concisa e
veemente, dove la parabola dell’eroe, che intraprende la via dell’ambizione e
travolge tutto ciò che gli si oppone correndo verso la propria condanna,
venisse sviluppata con grande rapidità. Per quanto chiaro risultasse l’assunto
al compositore non altrettanto sembrava esserlo al librettista, Francesco Maria
Piave, con il quale Verdi ingaggiò infatti un inesausto conflitto epistolare
attraversato da un richiamo continuo e quasi ossessivo verso una prosa concisa,
forte e significante, unito all’invito all’uso di poche parole che fossero in
grado di rendere la situazione drammatica. Questo è un punto importante, in
quanto Verdi veniva qui definendo un concetto fondamentale per lo sviluppo del
proprio teatro, quello cioè di ‘parola scenica’, vale a dire una parola che
traducesse precisamente la situazione drammaturgica. L’incomprensione, o meglio
l’incapacità di Piave in tal senso fu tale che Verdi richiese addirittura
l’intervento di Andrea Maffei, come nel caso del coro delle streghe del terzo
atto e della scena del sonnambulismo. L’inevitabile processo di sfrondamento
nei confronti della fonte originale riguardò anche i personaggi, ridotti come
si è detto a tre, Macbeth, Lady Macbeth e il coro di streghe, più due piccole
parti, Banco e Macduff, che Verdi ampliò quando la struttura del dramma si era
fatta così scarna da richiedere l’aggiunta di un’aria di Banco (“Come dal ciel
precipita”), l’ampliamento di quella di Macduff (“Ah la paterna mano”) e di
quella finale di Macbeth.
Atto primo. In Scozia, in gran parte al castello di Macbeth. Dopo
un preludio costruito sulla ripresa di materiale tematico relativo alle streghe
e impostato essenzialmente su progressioni di accordi dissonanti che creano un
accumulo di tensione che si risolve sul tema del sonnambulismo, l’atto si apre
in un bosco percorso da lampi e tuoni, dove alcune streghe riunite in tre
crocchi commentano i sortilegi compiuti (coro “Che faceste? Dite su”). Il rullo
di un tamburo annuncia l’arrivo di Macbeth e Banco, generali dell’esercito del
re Duncano. Le streghe profetizzando salutano Macbeth sire di Glamis, sire di
Cawdor e re di Scozia. Macbeth trema e Banco, stupito dalla reazione
dell’amico, chiede anch’egli un presagio: sarà meno di Macbeth ma di lui
maggiore, più felice e genitore di un re. Arrivano i messaggeri del re, che
annunciano a Macbeth di essere stato eletto sire di Cawdor. Banco inorridisce
al pensiero che le streghe abbiano detto il vero e Macbeth dà voce ai suoi
pensieri di ambizione e morte (duetto “Due vaticini compiuti or sono”).
Nell’atrio del castello di Macbeth, Lady Macbeth legge una lettera del marito
ove egli racconta il vaticinio delle streghe. Lady Macbeth riconosce
l’ambizione del marito ma ne paventa la titubanza nel portare a termine
l’impresa audace: sarà dunque lei ad accendere il cuore di Macbeth e a
istigarlo all’assassinio del re Duncano (“Vieni, t’affretta”) favorito dal
fatto che il re intende trascorrere al castello di Macbeth la notte. In una
furibonda cabaletta Lady Macbeth chiama le furie infernali a spingere il marito
all’atto sanguinoso (“Or tutte sorgete o furie infernali”). Nonostante le istigazioni
della moglie, la coscienza di Macbeth vacilla: inizia ad avere la prima delle
visioni che lo segneranno per il corso di tutta l’opera: gli si presenta un
pugnale, la lama irrorata di sangue; Macbeth deve agire ed entrato nella stanza
del re, lo uccide. Lady Macbeth rientra nella stanza di Duncano per
insanguinare le guardie e porre vicino a loro il pugnale che le accusi: Macbeth
non può resistere all’orribile spettacolo del proprio misfatto (“Fatal mia
donna, un murmure”). È ormai mattina presto, Macduff va per svegliare il re
mentre Banco dice di aver sentito lamenti e voci di morte nella notte (“Oh qual
orrenda notte”). Alle grida di orrore di Macduff che esce dalla stanza di
Duncano accorrono tutti, Macbeth, Lady Macbeth, Malcolm, i servi: il re Duncano
è stato tradito e ucciso.
Atto secondo. Nella sua stanza, Macbeth teme il vaticinio fatto a
Banco: «non re ma di monarchi genitore», per cui decide di uccidere Banco e il
figlio Fleanzio. Lady Macbeth ancora una volta invita il marito a essere fermo
(“Trionfai, securi alfine”). Nel parco vicino al castello di Macbeth un gruppo
di sicari si riunisce per attaccare Banco e suo figlio, che camminano
preoccupati da oscuri presentimenti (“Come dal ciel precipita”). Banco viene
ucciso mentre Fleanzio fa in tempo a fuggire. Nel frattempo nel castello di
Macbeth, davanti a una mensa imbandita, dame e cavalieri salutano Macbeth, che
propone un brindisi in onore della moglie (“Si colmi il calice”); ma il clima
di festa è interrotto dall’arrivo di un sicario dal viso sporco di sangue.
Macbeth è turbato e inizia a delirare: vede l’ombra dell’amico che gli scuote
innanzi i capelli insanguinati, mentre Lady Macbeth sottovoce invita il marito
a risvegliarsi. Quando Macbeth ritorna in sé, il banchetto riprende, ma di
nuovo appare l’ombra di Banco scacciata violentemente da Macbeth. Lady Macbeth
accusa il marito di pavidità e lo invita alla ragione: chi è morto non può più
tornare.
Atto terzo. In un’oscura caverna, intorno a un calderone che
bolle, le streghe preparano una poltiglia infernale (coro “Tre volte miagola”).
Macbeth viene a interrogarle e le streghe evocano le apparizioni. La prima, una
testa coperta d’elmo, dice a Macbeth di guardarsi da Macduff; la seconda, un
fanciullo insanguinato, gli dice che nessun nato di donna gli potrà nuocere; la
terza apparizione, un fanciullo coronato che porta un ramoscello, dichiara
Macbeth invincibile fino a quando non vedrà la foresta di Birnam muoversi.
Sfilano quindi i fantasmi di otto re, la stirpe di Banco che regnerà: Macbeth
li scaccia e infine sviene. Le streghe invitano gli spiriti aerei a destare il
re svenuto. Macbeth rinviene e incita se stesso ad accrescere il proprio potere
(“Vada in fiamme, e in polve cada”).
Atto quarto. Ai confini della Scozia e dell’Inghilterra, i
profughi scozzesi piangono le sorti della patria in mano a un tiranno che la
insanguina (“Patria oppressa”). L’ultimo eccidio fatto perpetrare da Macbeth è
infatti quello dei figli e della moglie di Macduff, il quale ne piange le sorti
(“Ah, la paterna mano”). Malcolm, alla testa dei soldati inglesi, invita tutti
a prendere un ramo e ad avanzare dietro a esso, mentre insieme a Macduff incita
alla rivolta contro il tiranno (“La patria tradita”). All’interno del castello,
intanto, Lady Macbeth è colta la notte da sonnambulismo: la dama e il medico la
vegliano e assistono a un rituale che si ripete uguale: Lady Macbeth si sveglia
e rievoca l’assassinio di Duncano, di Banco, di Macduff; affannosamente e
invano cerca di pulire le sue mani dalle macchie di sangue (“Una macchia... è
qui tuttora”). Le truppe nemiche assediano il castello di Macbeth, il quale
dichiara di non temere nulla in quanto le streghe hanno vaticinato che nessun
nato di donna gli può nuocere; eppure si sente sfuggire la vita ed è
consapevole che nessuno onorerà la sua memoria (“Pietà, rispetto, amore”).
Rimane fermo anche all’annuncio della morte di Lady Macbeth, ma quando apprende
che la foresta di Birnam si muove grida al tradimento e, impugnati spada e
pugnale, fronteggia Macduff, al quale rammenta il presagio delle streghe.
Vacilla quando Macduff gli dice di non essere nato da donna ma di essere stato
tolto dal seno materno, e ferito a morte spira (“Mal per me che m’affidai”).
Nella ripresa di Parigi del 1865, Verdi apportò alla partitura alcune
modifiche per le quali chiese l’intervento di Piave, nel frattempo ritornato in
auge. Piccoli cambiamenti di termini (uno per tutti la cabaletta di Lady
Macbeth nel primo atto, dove le «furie infernali» diventano «ministri
infernali») a modifiche più sostanziali quali la sostituzione della cabaletta
di Lady Macbeth del secondo atto (“Trionfai, securi alfine”), con l’aria “La
luce langue”, pezzo che tratteggia il personaggio in modo più sfaccettato,
rendendo così più credibile il crollo psichico di Lady Macbeth nella scena del
sonnambulismo dell’ultimo atto. Dopo la cabaletta infatti, nella versione del
1847, Lady Macbeth cantava ancora nel brindisi all’interno del convito, della
visione, e del finale secondo, dopo il quale non riappariva se non nella grande
scena del quarto atto. Nel 1865 Verdi fece sì che Macbeth trovi accanto a sé la
moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe in
conseguenza del quale decide di sterminare Macduff e prole e di cercare il
figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine sostituì la cabaletta di Macbeth
(III,4, “Vada in fiamme e in polve cada”) con un duetto tra Macbeth e Lady
Macbeth (“Ora di morte e di vendetta”). Sempre nel terzo atto, per adeguarsi
alle convenzioni francesi, furono inoltre inserite le danze. Nel quarto atto
provvide a sostituire al coro (“Patria oppressa”) una scena e un coro
modificato. Infine, la morte di Macbeth. Nella prima versione Verdi aveva
cercato per Macbeth una morte che si sviluppasse in un Adagio, da cantarsi con
voce fioca; una morte insomma che non fosse convenzionale, come quella di tanti
eroi donizettiani. Al posto di questo episodio, nella ripresa del 1865, un
fugato orchestrale rende l’infuriare della battaglia, mentre Macduff fronteggia
Macbeth spingendolo fuori scena, dove lo uccide.
Brevità e sublimità: questo richiedeva con pervicacia il maestro, perché
in Macbeth non c’è tempo per rallentare il ritmo. Dall’erompere
dell’azione in uno scenario selvaggio alle scene finali, il ritmo imposto dal
corso degli eventi non concede tregua. L’ambiente in cui l’azione ha luogo è
prevalentemente occupato dalle tenebre, squarciate da lampi di luce: siano
quelli del pugnale che vibra avanti a Macbeth), piuttosto che la luce tenuta da
Lady Macbeth vicino a sé per paura dell’oscurità. È una tenebra che richiama
quello dell’inferno, e per questo Lady Macbeth ne ha timore. Quando c’è colore
è quello del sangue, che macchia le mani della coppia fatale, irrora le lame,
si aggruma sui capelli degli uccisi. Anche la dimensione che percepisce
l’orecchio è sempre qualcosa che confonde le voci dell’interno, le voci della
coscienza, con quelle esterne, che prendono la forma di lamenti, mormorii,
colpi: quasi un costante richiamo a uno stato ipnagogico. Questo gioco su
dimensioni subliminali, che riguardano la coscienza e la componente
sovrannaturale, si traduce in partitura con un’attenzione straordinariamente
attenta alle componenti timbriche e strumentali. Ogni scelta è scrupolosamente
ponderata nell’esito: la sublimità della scena del sonnambulismo, fulcro
dell’opera insieme al duetto “Due vaticini”, la gran scena delle apparizioni,
per le quali Verdi ricerca sonorità arcane, il colore singolare degli episodi
delle streghe, per i quali dovette essergli presente l’esempio del Freischütz
di Weber, e sempre e ovunque la presenza del cromatismo, veste sonora del male,
del soprannaturale, del demoniaco, che pervade Macbeth fin dalla
microstruttura. La stessa attenzione è rivolta alla vocalità, specie a quelle
di Macbeth e Lady Macbeth. Complice un interprete d’eccezione, il baritono
Felice Varesi, Verdi poté studiare una forma di canto estremamente aderente
alla parola, e quindi alla situazione drammatica, che facesse uso anche di
tutte le forme intermedie di intonazione; a questo proposito alcuna critica è
arrivata a parlare addirittura di Sprechgesang (Mila). Ma a qual punto
Verdi si spingesse nell’individuazione del personaggio attraverso la vocalità
si può comprendere da una lettera nella quale, discutendo delle varie
interpreti di Lady Macbeth, il compositore arriva a rifiutare una cantante, la
Tadolini, perché dotata di voce troppo bella. Lady Macbeth, nel suo diabolismo,
doveva non cantare quasi, o comunque cantare con una voce ‘brutta’. Insomma, da
parte di Verdi, quasi una sorta di deliberato ritiro in secondo piano rispetto
alla lezione del poeta, dettato dalla preoccupazione di rendere appieno il
senso della poesia shakespeariana. Così sentito il peso di tale confronto, che
si sarebbe tentati di riportare come epitome all’opera, e decisa affermazione
di un nuovo stile di canto, essenzialmente funzionale alla situazione
drammatica, la frase scritta al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi: «Io
non cesserò mai di raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la
musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il poeta del maestro».
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
La prima opera verdiana tratta da Shakespeare continua ad avere anche
oggi una discreta discografia pur non essendo tra le più incise. Io personalmente
vi consiglio queste edizioni, tra le quali c’è naturalmente la mia preferita:
- Edizione audio diretta da Erich Leinsdorf nel 1959 a New York (L.
Warren, L. Rysanek, J. Hines, C. Bergonzi);
- Edizione audio diretta da Thomas Schippers nel 1964 a Roma (G. Taddei, B.
Nilsson, G. Foiani, B. Prevedi);
- Edizione audio diretta da Claudio Abbado nel 1976 a Milano (P.
Cappuccilli, S. Verrett, N. Ghiaurov,P. Domingo);
- Edizione audio diretta da Riccardo Muti nel 1976 a Londra (S. Milnes,
F. Cossotto, R. Raimondi, J. Carreras);
- Edizione audio diretta da John Matheson nel 1978 a Londra (P. Glossop,
R. Hunter, J. Tomlinson, K. Collins).
L’edizione newyorkese diretta da Erich Leinsdorf nel 1959 è stato il mio
primo Macbeth, acquistato in una edizione economica in edicola. Il
direttore austriaco, naturalizzato statunitense, dirige benissimo l’orchestra
del Met e raggiunge un’ottima amalgama anche con il cast che è capitanato da un
ottimo Leonard Warren. Discreta, a mio parere, la Lady della Rysanek. Buono il
Macduff di Carlo Bergonzi.
L’edizione romana del 1964 trova un altro ottimo direttore in Thomas
Schippers. Purtroppo l’edizione è piena di tagli che frenano una valutazione
ottimale. Ma le voci di Giuseppe Taddei e Birgit Nilsson valgono comunque l’ascolto.
L’edizione diretta a Londra da Riccardo Muti credo sia la sua migliore
versione di questo capolavoro verdiano (ben al di sopra della versione
scaligera di fine anni ’90). Sherill Milnes è un convincente Macbeth (anche se per
me non è questo il ruolo verdiano più adatto a lui) che vede affiancata a lui
la buona ma non entusiasmante Lady di Fiorenza Cossotto. Buono il Banco di Raimondi
e l’intenso Macduff di José Carreras.
L’edizione diretta da John Matheson ci porta a conoscenza la prima
versione dell’opera (quella del 1847) e vede un buon Macbeth in Peter Glossop.
L’edizione che però sovrasta tutte le altre è quella milanese con la
splendida direzione di Claudio Abbado e un cast ottimo in ogni ruolo.
Cappuccilli per me è il miglior Macbeth in assoluto così come la Verrett è una
interprete che non ha eguali (basta ascoltare l’incipt di “Nel dì della
vittoria” e la sua grandezza è già rivelata all’ascoltatore). Straordinario
interprete è anche Nicolai Ghiaurov così come ottima è l’interpretazione di Placido
Domingo che ci lascia una “Ah! La paterna mano” da antologia.
Ecco qui di seguito il link dell’opera
diretta da Abbado:
- Atto primo e secondo
e vogliamo ignorare De Sabata Callas
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