ALMANACCO OPERISTICO - 12 marzo - SIMON BOCCANEGRA di G. Verdi
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un
prologo e tre atti di Francesco Maria Piave, dal dramma Simón Bocanegra
di Antonio García-Gutiérrez
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 12 marzo 1857
Nella primavera del 1856 Verdi si recò a Venezia per una ripresa della Traviata e in quell’occasione si accordò con i dirigenti della Fenice per scrivere una nuova opera per il massimo teatro veneziano; Piave iniziò subito la stesura del libretto, sotto il diretto controllo del compositore, che gli fornì un completo abbozzo in prosa. Tornato a Parigi in agosto, Verdi, insoddisfatto di alcune parti del libretto di Piave, pregò Giuseppe Montanelli, intellettuale esiliato nella capitale francese per ragioni politiche, di riscrivere alcune scene. Verdi iniziò a comporre la musica in autunno, ma al suo arrivo a Venezia, nel febbraio successivo, mancava ancora un intero atto, oltre a tutta la strumentazione.
L’esito fu negativo; queste le parole di Verdi, in una lettera
alla contessa Maffei: «Il Boccanegra ha fatto a Venezia un fiasco quasi
altrettanto grande che quello della Traviata». La critica ebbe invece
parole di elogio per la coerenza drammatica della partitura, oltre che per
l’eleganza e l’espressività della melodia. Nel 1879, Verdi, che stava già
lavorando con Boito al progetto di Otello, fu sollecitato da Ricordi a
rivedere il Boccanegra. Il compositore, che fin dagli anni Sessanta
aveva pensato a questa possibilità, accettò, a patto che anche il libretto
subisse modifiche sostanziali. La scelta, per questa operazione, non poteva che
cadere su Boito, il quale, oltre a rivedere numerosi passi del libretto
originale, scrisse ex novo, su precise indicazioni di Verdi, la grande
scena del consiglio nel primo atto. La nuova versione ebbe un’accoglienza
trionfale alla Scala; fra gli esecutori, Victor Maurel (Boccanegra) e Francesco
Tamagno (Adorno), che sei anni dopo sarebbero stati i primi interpreti di Jago
e Otello.
Prologo. Verso la metà del secolo XIV, una piazza di Genova, davanti
al palazzo della famiglia Fieschi. Paolo Albiani sta tramando per far eleggere
alla carica di doge un plebeo e convince il capopopolo Pietro a far convergere
i favori su Simon Boccanegra, un corsaro che ha acquisito grandi meriti
liberando le coste dai pirati africani. Paolo incontra quindi lo stesso Simone
e lo convince ad accettare l’elezione anche per poter finalmente sposare
l’amata Maria, figlia del nobile Jacopo Fieschi, nonostante la fiera
opposizione del padre. Dall’unione dei due giovani è già nata una bambina. Dopo
che Paolo ha ufficialmente proclamato davanti al popolo il nome del candidato,
nella piazza rimasta vuota si avanza Fiesco, che piange l’improvvisa scomparsa
della figlia Maria e impreca contro Boccanegra che la ha sedotta (“Il lacerato
spirito”). Giunge Simone e si scontra immediatamente con Fiesco: il corsaro,
che ignora la sorte di Maria, dapprima implora il perdono e poi offre il petto
alla vendetta di Fiesco. Questi, colpito dal gesto di Simone, gli offre il suo
perdono, a patto che gli venga consegnata la figlia di Maria. Boccanegra
confessa di non poter esaudire questo desiderio: la bimba è infatti scomparsa
dalla casa ove era custodita da una donna, che Simone stesso aveva trovato
morta; Fiesco rifiuta allora ogni riconciliazione e si allontana. Simone,
deciso a rivedere la donna amata, si avvicina al palazzo: scopre con sorpresa
che la porta è aperta, entra e lancia un grido straziato quando scopre il
cadavere di Maria. Ritorna sconvolto sulla piazza proprio mentre entra una gran
folla, guidata da Paolo e Pietro, che lo acclama nuovo doge.
Atto primo. Sono trascorsi venticinque anni: nel giardino di
palazzo Grimaldi, ove Amelia attende l’amato Gabriele Adorno (“Come in
quest’ora bruna”); questi è un gentiluomo che, insieme ad Andrea, tutore di
Amelia (che altri non è se non il vecchio Jacopo Fiesco), sta organizzando una
congiura contro il doge. Giunge Adorno e Amelia gli manifesta tutta la sua
ansia per i pericoli cui si espone e tenta inutilmente di convincerlo ad
abbandonare i suoi progetti (“Vieni a mirar la cerula”). Adorno apprende poi da
Andrea che Amelia non è una Grimaldi, ma una trovatella adottata dalla nobile
famiglia, e che il doge ha messo gli occhi su di lei per impadronirsi delle sue
ricchezze. Boccanegra, in realtà, tenta di assecondare i desideri di Paolo
Albiani su Amelia e proprio per perorare la sua causa giunge in casa Grimaldi.
Amelia, toccata dall’umanità del doge, decide di svelargli le sue vere origini
(“Orfanella il tetto umile”); dal suo racconto, Simone capisce che la giovane è
proprio quella figlia che credeva di aver perduto. Padre e figlia si
riconoscono e si abbracciano (“Figlia, a tal nome io palpito”). Albiani,
costretto dal doge a rinunciare ad Amelia, ne progetta insieme a Pietro il
rapimento. Nella grande sala del Consiglio, nel Palazzo degli Abati, ove
Boccanegra sta inutilmente tentando di convincere i senatori a trattare la pace
con Venezia. D’improvviso, il clamore di una sommossa invade la sala: il doge
fa annunciare l’apertura delle porte del palazzo e una moltitudine di patrizi e
plebei fa irruzione nella sala. Adorno comunica al doge di aver ucciso
Lorenzino, un popolano, poiché aveva rapito Amelia Grimaldi e aggiunge che
l’uomo, prima di spirare, ha confessato di essere stato spinto al crimine da un
uomo molto potente. Adorno, accusando il doge, gli si scaglia contro con la
spada, ma proprio in quel momento giunge Amelia, che fa scudo con il suo corpo
a Boccanegra. La giovane, sollecitata dal doge, racconta poi le fasi del suo
rapimento, e di come Lorenzino l’abbia lasciata fuggire per timore della
reazione del doge, svelandole nel contempo il nome di colui che aveva
architettato il rapimento. Amelia, con intenzione, fissa Albiani. Tutti
vogliono sapere il nome del colpevole e ciò determina un altro scontro tra
patrizi e plebei, sui quali si erge con forza il doge (“Plebe, patrizi,
popolo”). Boccanegra infine, con accenti terribili, si rivolge ad Albiani,
costringendolo a maledire pubblicamente l’autore del misfatto: Albiani, con
orrore, scaglia di fatto la sua maledizione contro se stesso, subito imitato da
tutti gli astanti.
Atto secondo. Negli appartamenti del doge. Paolo, deciso a
vendicarsi, avvelena la brocca dalla quale dovrà bere Simone; ordina poi di
introdurre il prigioniero Fiesco e tenta inutilmente di convincerlo ad
assassinare il doge nel sonno. Rivolge quindi la stessa proposta ad Adorno,
facendo leva sulla sua gelosia per Amelia. Rimasto solo, Adorno medita su
quanto udito da Albiani (“Sento avvampar nell’anima”) e all’arrivo di Amelia
l’accusa apertamente: la giovane, non potendo svelare il segreto, ammette di
amare il doge, ma sostiene con forza di essere fedele ad Adorno (“Parla, in tuo
cor virgineo”). All’arrivo del doge, Adorno si nasconde. Amelia tenta di
intercedere per lui, dopo che Boccanegra le ha rivelato che il nome di Adorno
figura in una lista di congiurati. Il doge impone quindi alla figlia di
allontanarsi, beve un sorso d’acqua dalla brocca avvelenata e si assopisce.
Gabriele torna per trucidarlo, ma il doge si sveglia e accusa Adorno di volerlo
derubare dall’unico tesoro: sua figlia. Lo stupore e il pentimento di Adorno
commuovono Boccanegra, che benedice l’unione dei due giovani; Adorno, che non
vuole più combattere contro il doge, si offre come mediatore di pace.
Atto terzo. Nel palazzo ducale. Si odono le grida dei plebei che
hanno sconfitto i patrizi e inneggiano al doge: Fiesco viene liberato e Paolo,
passato tra i rivoltosi, mentre viene condotto al patibolo rivela a Fiesco di
aver avvelenato Simone e organizzato il rapimento di Amelia. Giunge il doge,
che comincia a sentire i primi effetti del veleno (“M’ardon le tempia”), e
Fiesco gli si rivela nella sua vera identità. Boccanegra può finalmente
ottenere il suo perdono, svelandogli di aver ritrovato in Amelia Grimaldi la
figlia che credeva perduta. Sopraggiungono Amelia e Gabriele e il doge, dopo
averli benedetti e aver nominato Adorno suo successore, spira fra le loro
braccia.
Il Simon Boccanegra del 1857 presentava aspetti fortemente
innovativi dal punto di vista drammaturgico, soprattutto per quanto concerne la
caratterizzazione dei personaggi: un’opera cupa – troppo, a giudizio dello
stesso Verdi – dominata dalla tinta delle voci maschili gravi. Particolarmente
impressionante, a questo riguardo, è la grande forza suggestiva del prologo:
infatti vi si odono soltanto i bassi e i baritoni, mentre la sezione femminile
del coro figura soltanto nelle battute conclusive. La revisione del 1881, pur
conservando la medesima distribuzione vocale, viene però innervata da tutta la
raffinatezza dei dettagli melodici, armonici e strumentali propria dell’ultima
fase creativa di Verdi e, soprattutto, dall’innesto della straordinaria scena
del Consiglio, che arricchisce enormemente la caratterizzazione del
protagonista. La sua accorata richiesta di pace, la calma con cui reagisce
all’aggressione di Adorno, la formidabile invettiva “Plebe, Patrizi, Popolo” e
infine la maledizione scagliata contro Albiani, danno a Boccanegra una
dimensione di grandezza che mancava nella versione originale e che getta una
luce diversa anche sugli atti successivi. Certo, il grande climax suscitato da
questa scena fa sì che si avverta, nel seguito dell’opera, un leggero calo di
tensione; a ciò si aggiunga che il notevole lasso di tempo che separa le due
versioni determina inevitabilmente una certa disuguaglianza stilistica. Ma
nella sua veste definitiva – tale è da considerare la versione del 1881 – Simon
Boccanegra rappresenta sicuramente uno dei vertici della drammaturgia
musicale verdiana.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il Simon Boccanegra è senza dubbio uno dei capolavori più
complessi di Verdi (non a caso la sua continua rimodulazione fino alla versione
definitiva del 1881 la dice lunga su quanto il compositore di Busseto ci
tenesse a quest’opera) e non può prescindere da queste edizioni, le uniche che
restituiscano a pieno la sua straordinarietà:
- Edizione audio diretta da Gianandrea Gavazzeni nel 1973 a Londra (P.
Cappuccilli, R. Raimondi, K. Ricciarelli, P. Domingo);
- Edizione audio diretta da John Matheson nel 1975 a Londra (S. Bruscantini,
G. Howell, J. Ligi, A. Turp);
- Edizione audio diretta da Claudio Abbado nel 1977 a Milano (P.
Cappuccilli, N. Ghiaurov, M. Freni, J. Carreras).
Gianandrea Gavazzeni dirige con pugno e cuore questa bellissima edizione
che vede protagonista il cantante che ha reso in maniera migliore il complesso
personaggio di Simone: Piero Cappuccilli. Il suo doge genovese è sontuoso e
portentoso allo stesso momento, capace di grandissima musicalità nei duetti con
la figlia così come di altera durezza quando deve affrontare le “questioni di
stato”. Interessantissimo il Fiesco di Ruggero Raimondi così come l’Amelia di
Katia Ricciarelli (una delle sue più belle interpretazioni). Giovanile e fresco
il Gabriele di Placido Domingo.
L’edizione live del 1975 diretta da Matheson ha due caratteristiche: è la
prima versione dell’opera (pochissimo eseguita) nata nel 1857 a Venezia ed in
più vede come protagonista un Sesto Bruscantini assolutamente inedito in questo
ruolo.
Chi ha incarnato a pieno lo spirito di quest’opera è Claudio Abbado che ne
ha ottenuta una resa mai raggiunta da nessun suo collega direttore d’orchestra.
L’orchestra e il coro della Scala sono a livelli qualitativi stratosferici e
gli interpreti del cast sono il “non plus ultra”. Piero Cappuccilli affina
ancora di più (rispetto all’edizione del ’73) il suo personaggio regalandoci un
Simone superlativo sotto ogni aspetto. Nicolai Ghiaurov è un Fiesco regale; Mirella
Freni è una Amelia sublime e ottimo è anche José Carreras nel ruolo di
Gabriele.
Ecco qui di seguito il link dell’opera
diretta da Abbado:
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