ALMANACCO MUSICALE - 11 novembre 2020 - ARMIDA di Gioachino Rossini

ARMIDA

Dramma per musica in tre atti

Musica di Gioachino Rossini

 

Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 11 novembre 1817

 

LA TRAMA

Antefatto. I guerrieri crociati assediano ormai da tempo la città di Gerusalemme per liberare il Santo Sepolcro: li capeggia Goffredo di Buglione. Idraote, re di Damasco dotato di poteri magici, ha ordito uno strategemma per indebolire le truppe cristiane: la nipote Armida, anch’essa maga e sua complice nella trama, dovrà fingersi sua nemica e chiedere aiuto ai cristiani contro di lui. In realtà ciò dovrà servire ad allontanare dall’assedio di Gerusalemme i più valorosi tra i crociati.

Atto primo. Presso il campo cristiano, nelle vicinanze di Gerusalemme, Goffredo di Buglione invita i soldati ad onorare la salma di Dudone, capo dei paladini franchi. Eustazio, fratello di Goffredo, introduce la bellissima Armida, accompagnata, sotto mentite spoglie, da Idraote. Armida rivela come, unica erede al trono di Siria, questo le sia stato usurpato da Idraote: per riconquistarlo si appella ora alla magnanimità di Goffredo e lo prega di inviare i dieci paladini più valorosi contro l’usurpatore. Il comandante cristiano promette che appagherà il desiderio di Armida ma solamente dopo che Gerusalemme sarà stata liberata. Tuttavia Eustazio e gli altri paladini, mossi a pietà e colpiti dalla bellezza di Armida, insistono presso Goffredo e questi alla fine, nonostante avverta un sinistro presagio, acconsente alle richieste della donna. I paladini eleggono intanto quale successore di Dudone e loro capo Rinaldo: egli dovrà, per ordine di Goffredo, scegliere i dieci paladini per l’impresa. Eustazio ed altri cristiani, ormai invaghiti di Armida, seguono nel frattempo la maga ed Idraote nelle loro tende. L’elezione di Rinaldo provoca però la rabbia di Gernando, paladino franco desideroso a sua volta di ricoprire l’alto grado ed invidioso che esso sia stato affidato ad un giovane italiano: egli perciò giura vendetta. Idraote è soddisfatto per l’andamento del suo piano, poiché già alcuni guerrieri sono nelle sue mani; egli incita la nipote a far cadere nei suoi lacci in particolar modo il più valoroso tra i nemici, Rinaldo. Questi s’avanza e si incontra con Armida: conosciutisi in passato, allorché ella con le sue arti magiche aveva salvato Rinaldo da una schiera nemica, i due sono innamorati l’uno dell’altro, anche se l’eroe, a differenza di Armida, non l’ha mai palesato. La donna rimprovera il paladino perché, immemore dell’aiuto ricevuto, e del suo affetto, l’ha abbandonata per la gloria delle armi ed ora la combatte come una nemica. Rinaldo si discolpa, adducendo il suo dovere di cristiano e di soldato, ma non riesce a resistere ai rinnovati accenti d’amore di Armida e, dopo aver vacillato, si risolve a seguirla. La partenza dei due è però scoperta e bloccata da Gernando, il quale di fronte ai paladini accorsi accusa in modo ironico e sferzante Rinaldo di codardia: i rivali si battono e Gernando cade trafitto. I seguaci dei due si minacciano vicendevolmente; Goffredo, sdegnato, accusa Rinaldo e lo esorta a consegnarsi prigioniero. In una atmosfera di sgomento Rinaldo, consigliato da Armida, abbandona il campo seguito dalla maga.


Atto secondo. In un’orrida selva sull’isola della Fortuna, regno di Armida, sorge di sotto terra una schiera di demoni, fra cui Astarotte. Questi narra come Rinaldo sia ormai preda dell’amore per la maga e come ciò possa decidere le sorti della guerra. I demoni spariscono e su di un carro volante tirato da due draghi giungono Armida e Rinaldo in dolce conversazione d’amore. Armida giustifica il suo passato comportamento rivelando che ha accondisceso al piano di Idraote proprio per poter rivedere Rinaldo; e poiché ormai i paladini caduti in sua mano sono stati liberati proprio da lui, non esiste più tra loro alcun motivo di rancore e possono perciò abbandonarsi all’amore. Rinaldo ha perdonato Armida e non desidera altro che condividere con lei il loro reciproco sentimento, ma si stupisce che ella lo abbia condotto in un luogo così orrido. Allora Armida con un cenno trasforma la selva in un magnifico palazzo dove compaiono Geni, Ninfe, Amorini e Piaceri. I due amanti si abbandonano alla loro passione ed Armida, accompagnata da danze e cori di ninfe, inneggia alla giovinezza ed ai piaceri dell’amore. La maga infine evoca una visione allegorica: un giovane guerriero viene circondato da ninfe che fanno a gara per sedurlo, ed egli, dopo aver tentato di resistere, cede alla voluttà: le sue armi guerriere si tramutano in ghirlande di fiori.

Atto terzo. In uno splendido giardino incantato s’avanzano Ubaldo e Carlo, due guerrieri cristiani inviati da Goffredo di Buglione per tentare di sottrarre Rinaldo all’amore di Armida e per ricondurlo alla guerra santa: lo zio dello stesso Rinaldo, Guelfo, ha supplicato Goffredo e questi è disposto a perdonare l’eroe e ad accoglierlo. I due crociati hanno superato tutti gli incantesimi posti da Armida per rendere inaccessibile il giardino grazie ai doni magici ricevuti dal saggio d’Ascalona, mago ancor più potente di Armida ed Idraote; ora i guerrieri sono incantati dalla bellezza del luogo, ma comprendono che si tratta di un incantesimo maligno e con la loro verga magica respingono le ninfe che con canti e danze tentavano di soggiogarli. Si avvicinano Armida e Rinaldo, mentre Carlo ed Ubaldo si nascondono in una boscaglia; gli innamorati riaffermano il loro amore reciproco e promettono fedeltà costante. Armida si congeda da Rinaldo, al quale si mostrano Carlo ed Ubaldo: i compagni d’armi lo rimproverano aspramente perché mentre la guerra infuria ed ogni soldato combatte per la liberazione di Gerusalemme, proprio egli, il più valoroso fra tutti, vive abbandonato all’amore di un’infedele; gli porgono infine uno scudo scintillante nel quale Rinaldo può vedere riflessa la propria immagine ormai infiacchita ed imbelle. Rinaldo, esterrefatto, è in preda alla vergogna e al rimorso, ma si confessa ancora innamorato di Armida: incitato da Carlo ed Ubaldo, risolve il proprio conflitto interiore e, deciso a seguire la voce dell’onore e del cielo, parte con i suoi compagni. Armida, rientrando, scorge di lontano Rinaldo allontanarsi con i due crociati e, colta dalla sorpresa e poi dal furore, invoca le potenze infernali; ma la sua invocazione non riceve risposta e la maga decide così di inseguire l’amante traditore. All’esterno del palazzo di Armida, mentre Rinaldo è ancora afflitto per aver dovuto abbandonare la sua amata, Carlo ed Ubaldo ringraziano il cielo per essere usciti dal giardino incantato. Irrompe però Armida che, ancora incredula, chiede a Rinaldo perché voglia abbandonarla. L’eroe risponde con il cuore spezzato che il dovere lo chiama e che, comunque, manterrà sempre una dolce memoria del loro amore. Armida allora si dice disposta a seguirlo ovunque, a servirlo come un’ancella pur di non perderlo, ma egli, addolorato, la respinge. Il dolore sopraffà Armida che maledicendo Rinaldo per la sua crudeltà, gli chiede almeno di ucciderla per mettere fine ai suoi tormenti. Ma Rinaldo, trascinato da Carlo ed Ubaldo, parte ed Armida cade priva di sensi. Quando rinviene, rimasta sola ed in preda ad uno sconvolgente dolore, è avvicinata da una larva con le sembianze della Vendetta e da una con le fattezze dell’Amore; duramente combattuta, scaccia quest’ultima e giurando vendetta sale su di un carro tirato da draghi con il quale, tra fiamme e demoni, s’innalza in volo.


Terza delle nuove grandi opere serie destinate da Rossini al pubblico napoletano in virtù del rapporto che per sette anni lo tenne legato all'impresario Barbaja, Armida segnò un'ulteriore, profonda rivoluzione nel cammino del rinnovamento dell'opera seria intrapreso nel 1815 col dramma storico Elisabetta regina d'Inghilterra e proseguito nel 1816 con lo shakespeariano Otello. Toccava ora al genere fantastico, quasi a sottolineare la capacità del giovanissimo compositore di affrontare le più svariate angolature e i soggetti più contrastanti.

La prima notizia della nuova opera, destinata ad essere rappresentata al S. Carlo nell'autunno del 1817, ci viene dal Giornale delle Due Sicilie dell'11 agosto: "Il Signor Rossini, arrivato da più giorni da noi, è in questo momento applicato a scrivere l'Armida, nuovo dramma del Signor Smith. Quale più bell'argomento per eccitare l'estro animatore del chiarissimo autore della musica dell'Elisabetta!".


Andava "sans dire" che il personaggio su cui era centrata l'opera era quello della Gerusalemme liberata del Tasso che aveva illustri antecedenti anche nel teatro musicale. Della vicenda il melodramma si era impadronito sin dai primordi, con l'Armida di Monteverdi (1627) cui erano succeduti già nel XVII secolo un buon numero di altri lavori, tra i quali andrà almeno citato quello di Lilli (1686). Una vera e propria esplosione di Armide e di Rinaldi si era poi avuta sulle scene settecentesce, con un compositore del calibro di Handel e di Haydn, di Jommelli (la cui Armida abbandonata era andata in scena al S. Carlo nel 1770) e di Gluck (Parigi 1777).

C'era di che spaventarsi di fronte a tutti e così svariati modelli. Ed una qualche esitazione forse Rossini la dovette avere se la sua Armida, già iniziata ai primi di agosto, giunse in porto l'11 novembre, dunque dopo oltre tre mesi, pochissimi per i più, abbastanza per i suoi ritmi di quegli anni. Indice di cura nell'affrontare un soggetto rischioso non solo per gli inevitabili confronti.

Se infatti il personaggio della maga, concentrato di seduzione e di voluttà, aveva risposto perfettamente al gusto ed all'estetica barocche, poteva apparire alquanto superato in anni di incipiente romanticismo, nel momento in cui ai soggetti fantastici si andavano contrapponendo sempre più le vicende storiche ed alle favole mitiche le tragedie.

L’impresa aveva però i suoi lati seducenti. Barbaja, prima e più ancora di Rossini, dovendo agire nel S. Carlo appena riaperto dopo la ricostruzione operata in meno di un anno dall'incendio del febbraio 1816, poteva avere il desiderio di sfruttare gli elementi spettacolari del soggetto che consentiva di valorizzare al massimo la parte scenografica, il corpo di ballo e tutte quelle componenti che facevano del suo teatro il primo d'Italia.

D'altra parte anche Rossini, dopo lo scavo in profondità operato con Otello e con La gazza ladra appena rappresentata a Milano, poteva ben essere incline a concedersi una così lussuriosa divagazione. Né va trascurato un'ulteriore elemento tra quanti possono aver influito sulla scelta del soggetto.

Con Armida si riservava ad Isabella Colbran un ruolo "esclusivo". La grande cantante spagnola, legata anche sentimentalmente a Barbaja e, si diceva, allo stesso Re Ferdinando, nel 1817 era al culmine della carriera e del potere personale. Nulla di meglio per sfruttarlo imponendosi in un soggetto con un unico personaggio femminile, centro e perno sul piano vocale, scenico, spettacolare e psicologico.

Chi dovette sottostare a malincuore all'incombenza fu il poeta Giovanni Schmidt, che in una nota stampata nel libretto lamenta l'impossibilità di rispettare le "regole dell'arte drammatica" ovvero quelle classiche, con un soggetto legato al "meraviglioso" e in cui "un amore nell'ebrietà del contento" rischiava di divenire l'unico sostegno dell'azione.

Obiezione che non poteva interessare più di tanto Rossini, ormai ben deciso a superare i vecchi schemi. Schmidt non manca nemmeno di citare le costrizioni dell'"odierno teatrale sistema, il quale, esigendo una complicazione di così detti pezzi concertati, obbliga il poeta a scarsissimo numero di recitativi, onde non produr tedio negli spettatori".

Accusa che sembra rivolgersi proprio a Rossini che dei grandi concertati aveva fatto le strutture portanti della drammaturgia e che dei recitativi del libretto, con buona pace del poeta, musicò solo una parte. Infine Schmidt lamenta di aver "dovuto anche abbreviare in maniera più che ordinaria l'atto secondo, per dar luogo al ballo analogo che forma uno dei principali ornamenti del dramma". Autodifese che mostrano la renitenza ad adattarsi alle esigenze dei committenti.

Con un certo impaccio nella conclusione e nella versificazione, il libretto finisce tuttavia per essere funzionale alla ritrovata drammaturgia rossiniana.

Schmidt ambienta il primo atto nel campo dove i Crociati stanno per rendere gli onori funebri a Dudone. Giunge Armida che, fingendosi spodestata dal trono di Damasco, chiede a Goffredo il soccorso di "dieci eletti campioni".

Spinto dai paladini, già irretiti dal fascino della maga, il perplesso Goffredo finisce per cedere, ma esige che prima sia scelto il successore di Dudone. Eustazio propone Rinaldo, suscitando la gelosia e l'ira di Gernando. I due rivali giungono ad uno scontro che, nel finale dell'atto, porta all'uccisione di Gernando da parte di Rinaldo.

Fin qui Schmidt segue da vicino i canti IV e V della Gerusalemme liberata. Unica licenza è quella, da lui stesso ricordata, di fingere che "Armida già da qualche tempo amasse Rinaldo prima di condursi al campo di Goffredo". Questo antefatto già consente di inserire un duetto d'amore nel primo atto, che viene dunque ad avere come punti di forza l'introduzione (presentazione dei Crociati e di Goffredo), il quartetto che segue l'arrivo di Armida e, dopo un'aria di Gernando, il duetto con Rinaldo e il finale.

L'architettura, con un prezzo solistico posto al centro di due doppie e grandi arcate (c'è in più un solo coro tra l'introduzione ed il quartetto), non è dissimile da quello del primo atto dell'Elisabetta. Del tutto insolita è invece la struttura del secondo atto. Dopo un breve quadro dedicato ad Astarotte e al coro dei deboli di un'"orrida selva", la scena cambia gradatamente con l'arrivo di Rinaldo e di Armida su una nube che, diradandosi, si trasforma prima in un "seggio di fiori, poi nell'interno di un "magnifico palagio". Le successive mutazioni ospitano un doppio coro di spiriti infernali, un altro breve duettino Armida-Rinaldo, i cori e le danze dei geni e delle ninfe con la grande aria con variazioni di Armida "D'amore al dolce impero".


Il terzo atto, derivato dal canto XVI del poema, si apre sul giardino incantato dove s'incontrano Ubaldo e Carlo, venuti per strappare Rinaldo alla maga. I due si nascondono all'apparire degli amanti, ma quando Armida si allontana si fanno avanti. Rinaldo, vedendo la propria immagine "imbelle" riflessa nello "scudo adamantino" che gli viene presentato, torna in sé e a nulla valgono i richiami di Armida. Tutta l'ultima parte è dedicata alle suppliche, alla disperazione, all'ira della maga. Divisa tra le due larve dell'Amore e della Vendetta, Armida, ordinata la distruzione del giardino fatato, scompare, tra il coro dei demoni, sul carro "tirato da draghi".

Musicalmente nel terzo atto si ha un duettino (Carlo-Ubaldo), un coro di "Larve in sembianze di Ninfe", un altro breve duettino Armida-Rinaldo e, prima del composito finale tutto centrato sulla protagonista, un ampio terzetto (Rinaldo-Carlo-Ubaldo) per tre tenori (un unicum, crediamo, nella storia del melodramma).

Come sempre in Rossini la struttura e la distribuzione vocale determinano la musica o sono da essa determinate. La sinfonia, abbandonato lo schema usuale, ci immette direttamente nel campo dei Crociati coniugando un maestoso tema di marcia ed una brillante fanfara. Non è che l'inizio di un'opera in cui l'eredità settecentesca appare ormai del tutto liquidata. Il compositore che appena qualche anno prima si era trovato costretto a gestire il pesante bagaglio di tributi all'Aria e, di conseguenza, ai cantanti, sembra aver messo da parte definitivamente

questa forma di rigoroso numero chiuso cui risponde appena un pezzo dell'opera, l'aria di Gernando nel primo atto. Gli altri interventi solistici sono tutti incuneati nelle strutture più ampie dei concertati, dei duetti e dei terzetti.

Quanto alla vocalità, in Armida vi è, come già accennato un solo ruolo femminile e una sola voce femminile, mancandovi anche quei ruoli "entravesti" che Rossini aveva stilizzato nella sua prima fase e che ben presto avrebbe reintrodotto anche a Napoli. Da questo punto di vista il caso è unico nella produzione delle opere rossiniane in più atti.

Al di fuori di quello della protagonista ci sono nell'opera otto ruoli, tra grandi e piccoli, sette dei quali furono alla prima affidati a tenori. Essi si ridussero in pratica a quattro, dato che Gaetano Ghizzola sbrigò i due ruoli di Eustazio e di Astarotte (questo in origine vergato in chiave di basso), Claudio Bonoldi quelli di Gernando ed Ubaldo, di notevole peso, soprattutto il primo, e Giuseppe Ciccimarra quelli di Goffredo e di Carlo.

La riduzione fu resa possibile dal fatto che, se si eccettuano Armida e Rinaldo, la presenza degli altri personaggi non è mai continua. Goffredo, Gernando ed Eustazio appaiono solo nel primo atto, Astarotte nel primo quadro del secondo, Carlo ed Ubaldo soltanto nel terzo. Questa discontinuità non risponde ad alcuna logica apparente, tanto più che Schmidt fu costretto a far accompagnare Armida al campo dal mago Idraote (sotto falso nome) al solo scopo, si direbbe, di introdurre il grande basso della compagnia di Barbaja, Michele Benedetti, e fornire una voce grave al quartetto.

In tanta dispersione di ruoli, l'uniformità di tessitura è indice di una eccentricità della costellazione vocale che non può essere casuale. In realtà Rossini mira allo scopo di esaltare Armida come centro unico, privo, sia drammaturgicamente che musicalmente, di un vero antagonista. Se infatti gli altri personaggi appaiono frammentariamente, Rinaldo che a Napoli era il grande Andrea Nozzari, si comporta come una specie di doppio vocale di Armida nella maggior parte delle scene. Una vera autonomia la assume solo all'inizio del finale primo, quando sfida Gernando, ed al termine dell'opera quando recupera il senso dell'onore e si distacca da Armida (e qui con una parte sviluppata al punto da compensare parzialmente la mancanza di una propria aria). Negli altri casi il canto di Rinaldo sembra, melodicamente e stilisticamente, speculare a quello di Armida. Si invera così anche sul piano vocale, e dunque musicale, la soggezione dell'eroe alla maga. Ma tutta l'opera poi, magistrale in tutti i suoi numeri, s'incendia in quelli in cui è presente la protagonista che, oltre all'esordio nel quartetto del primo atto, ha al suo attivo le due grandi scelte solistiche in corrispondenza dei finali secondo e terzo.

Nella prima, "D'amore al dolce impero", la voluttà e l'edonismo si esprimono in uno smagliante virtuosismo canoro. Non a caso la pagina resterà tra le più celebri ed eseguite. Accanto ad essa ha goduto di enorme favore, già all'epoca di Rossini, il duetto del primo atto "Amor possente nome".

Anche qui il dato immediato è l'edonismo tradotto in musica tramite gli accorgimenti più sottili del belcantismo e quelle seducenti brevi melodie, appena venate di patetismo, che costituivano la concessione massima di Rossini al sentimento.

In questa centralità di Armida, ed in questo rincorrere gli altri personaggi, si crea musicalmente il nucleo e il vero cuore del dramma, la seduzione della donna-maga che riduce, come vuole il soggetto, tutti al suo servizio e tutti tiene legati con voluttuosi, quanto fallaci nodi. Non stupisce così che l'opera sfolgori ed abbagli e che per ottenere questo scopo Rossini ricorra, oltre che alla vocalità, ad una serie esuberante di trovate armoniche e strumentali. Queste innovazioni non mancarono di colpire sin dall'apparire dell'opera, la quale, ad onta di quanto è stato scritto a ripetizione, a Napoli piacque e conobbe anche una discreta diffusione in Italia, maggiore ancora nei paesi di lingua tedesca, ma suscitò le violente reazioni di alcuni recensori, come quella più ricordata del "Giornale delle Due Sicilie" che considerò Rossini succube delle nuove mode oltramontane.

Ricomparve la vecchia accusa di "tedeschino" rivolta a Rossini sin dall'adolescenza, un'accusa che ritrovava i suoi accaniti cultori nei seguaci della melodia "tendre et naive" alla Paisiello ed alla Cimarosa. Tali giudizi non erano ingiustificati e, in qualche modo, coglievano nel segno.

Ciò che quei bravi nostalgici di un antico regime ormai liquidato non potevano comprendere od accettare erano le ragioni delle scelte rossiniane, ragioni della mente e non, come essi avrebbero voluto, dal cuore.

E si spiega la maggiore apertura in Austria e Germania dove si era più pronti a cogliere la sottigliezza dell'"artificio". Non il valore globale dell'opera però, disconosciuto ancora più gravemente in seguito da quanti hanno parlato di "barocchismo vocale" e da quanti, al seguito della critica tardo-romantica, postisi alla ricerca del "dramma" tra virgolette, trovarono troppo poco scavati i contrasti psicologici tra Armida e Rinaldo.


Vero è che quest'ultimo dell'opera è mera parvenza e che Rossini aveva inteso scrivere un'Armida alle prese prima di tutto o forse solo con i propri trabocchetti, per cui il suo dramma è di mostrarci una maestra d'ingegni che finisce per ingannare sé stessa e, ripetendo una tragedia di Narciso, finisce per trovarsi sola.

È il finale dell'opera ad offrirci la chiave di volta esplicativa dell'operazione rossiniana. Qui balza agli occhi un dato sorprendente: esso è esattamente il rovescio dei finali di Elisabetta, di Cenerentola o della futura Donna del lago, cioè di quei finali consistenti in elaborate esplosioni belcantistiche in cui Rossini riesce a raggiungere un assoluto estraniamento.

Come non aspettarsi altrettanto in Armida, la sola opera in cui quell'edonismo vocale in cui tanto spesso Rossini si rifugia, ha piena e totale cittadinanza e ragion d'essere?

Come non attendersi quanto meno il "trionfo della bontà" e dei giusti, con una trionfante punizione della colpevole con aria di furore, cori di giubilo e quant'altro l'armamentario delle convenzioni melodrammatiche offriva per approntare un'opportuna catarsi?

Ma sarebbe stata soluzione troppo facile e troppo poco consona al disincantato Rossini, il quale fa esattamente l'opposto e suggella Armida seguendo altra logica e fornendo una conclusione frammentata e stravolta, dimessa quasi nei suoi accenti dilacerati e ridotti all'essenziale.

Quando, dopo il terzetto dei tenori, la protagonista rientra in scena per scoprirsi abbandonata, abbiamo sì un momento di furore in piena regola, fitto di salti, scale e veementi fioriture ("Se al mio crudel tormento"), ma poi, dopo che Rossini si è liberato con poche battute di Rinaldo (qui inadeguato al massimo!), con l'andantino ("Dove son io!..... Fuggi!") è come se iniziasse gradatamente una spoliazione con cui la maga trasforma Armida in donna ed in vittima di opposti sentimenti.

È una lunga teoria di frasi spezzate che non trova sollievo e risoluzione in una cabaletta, ma sfocia in un breve e concitato allegro che chiude precipitosamente l'opera. Finale, come molti tra quelli di Rossini, incompreso dai contemporanei, ma il cui significato è trasparente.

Lungo tutta l'opera il bel canto aveva trionfato ed offerto la sua fantasmagoria. Ma sappiamo che colui che era nato al bel canto di lì a pochi anni avrebbe chiuso la sua carriera col silenzio. Cosa dunque poteva offrire la chiusa di quest'opera, dopo tanta sonora voluttà, da parte del musicista più precoce e più precocemente destinato a cedere che il teatro ricordi, se non gli sparsi lacerti di una drammaticità, non voluta forse, ma sempre temuta ed in agguato?

Come tante altre opere di Rossini anche Armida evita di chiudersi alla ribalta. Si chiude, o meglio si perde, non nell'utopia come era avvenuto in Elisabetta, ma nel fondo del palcoscenico o di qualche abisso che sarebbe errore tentar di esplorare. Meglio restare avvinti alle catene, soavi ed aurate, della musica che precede.

Fonte: magiadellopera.com

 

LA MIA PROPOSTA

Il catalogo delle edizioni di quest’opera rossiniana è molto esiguo ma mi sento comunque di citare queste edizioni:

- Edizione audio diretta da Tullio Serafin nel 1952 a Firenze (M. Callas, F. Albanese, M. Frosini);

- Edizione video diretta da Gianfranco Masini nel 1988 a Aix -en-Provence (J. Anderson, R. Blake, G. Surjan);

- Edizione audio diretta da Claudio Scimone nel 1991 (C. Gasdia, C. Merritt, F. Furlanetto);

- Edizione audio diretta da Daniele Gatti nel 1993 a Pesaro (R. Flemig, G. Kunde, I. d’Arcangelo).



L’edizione del 1952 si basa tutta sulla straordinaria personalità e vocalità di Maria Callas, a cui si deve la riscoperta iniziale di questo straordinario ruolo. Naturalmente la prassi esecutiva è quella del primo ‘900 e Serafin dirige quasi come se sul palcoscenico ci fosse in scena Norma… se non un’opera verdiana.


L’edizione del 1988 registrata al Festival di Aix-en-Provence è interessante e ci mostra due ottimi cantanti (June Anderson e Rockwell Blake) in una prestazione discreta. Non entusiasmante la ripresa così come la direzione di Masini però ci sono alcuni parti dell’opera ben eseguite.


L’edizione diretta da Claudio Scimone, che si avvale dei “suoi” Solisti Veneti è a mio avviso inficiata proprio dalla concertazione. Il maestro padovano stacca tempi per lo più veloci, se non velocissimi, e ne risente non poco sia l’integrità melodrammatica dell’opera sia i cantanti. Questi ultimi non sono affatto male, specie l’interessante Armida di Cecilia Gasdia e il bellissimo Rinaldo di Chris Merritt.


Nel complesso però io scelgo, come edizione da consigliare, quella diretta nel 1993 al Rossini Opera Festival di Pesaro da Daniele Gatti. Il maestro milanese ha a disposizione una buonissima orchestra (quella del Teatro Comunale di Bologna) che lo segue a menadito e dalla quale riesce ad ottenere ottimi timbri e sonorità. Nel cast primeggia l’Armida di Renée Fleming (che in quegli anni ne ha fatto un cavallo di battaglia) ma anche l’ottimo Rinaldo di Gregory Kunde. Ottimo a mio avviso anche l’Idraote di Ildebrando d’Arcangelo.

Un problema enorme di quest’opera sono i tenori comprimari che in nessuna edizione che ho avuto modo di ascoltare sono all’altezza dei cantanti principali.

 

Di seguito il link per ascoltare l’opera diretta da Daniele Gatti: 

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