ALMANACCO MUSICALE - 4 novembre 2020 - LES TROYENS di H. Berlioz
LES TROYENS
(I Troiani)
Grand-opéra in due
parti e cinque atti su libretto di Hector Berlioz, da Virgilio
Musica di Hector
Berlioz
Prima
rappresentazione: Parigi, Theatre Lyrique, 4 novembre 1863
Fu agli inizi del 1856, a Weimar, dove si era recato per incontrare l’amico Liszt, suo generoso sostenitore, che Berlioz decise di tradurre finalmente in atto il suo vecchio progetto di un grande poema drammatico musicale ispirato all’Eneide, di cui era stato lettore appassionato fin dagli anni giovanili. L’ambiente, i personaggi e gli incontri di Weimar, dominati dalla presenza occulta di Wagner, che nel suo esilio zurighese stava lavorando alla colossale impresa del Ring, agirono come un potente elemento catalizzatore sull’animo del musicista, tanto sicuro dei propri mezzi quanto bisognoso di una sollecitazione esterna. Oltre che da Liszt, questa gli venne dalla principessa Caroline Sayn-Wittgenstein, dal cui fascino anche Berlioz era stato stregato: il suo ultimatum – o scrivere la progettata opera virgiliana o non farsi nemmeno più vedere ai suoi occhi – accese la miccia decisiva al fuoco artistico che già covava. Rientrato a Parigi, Berlioz si pose alacremente al lavoro e nell’arco di due anni – dal 5 maggio 1856 al 7 aprile 1858 – scrisse testo e musica de Les Troyens; opera di soverchianti dimensioni, suddivisa in due parti distinte, forse occhieggiando al modello wagneriano di un lavoro ciclopico che esorbitasse dalle dimensioni di un’unica serata. Una volta compiuti, e per quanto più volte negli anni seguenti la partitura venisse ritoccata ed elaborata, si imponeva la questione non certo facile di una rappresentazione secondo la concezione originale: la quale, non solo nella sostanza ma anche nelle dimensioni, era tale da spaventare qualunque teatro, perfino quello avvezzo per eccellenza a celebrare i fasti del grand-opéra.
Proprio dal massimo teatro parigino vennero i primi dinieghi, protrattisi per
anni, nonostante tutti gli sforzi di Berlioz; e quando si trattò di aprire le
porte alla ‘musica dell’avvenire’, egli fu scavalcato proprio dal suo rivale
Wagner, in quella storica serata del 13 marzo 1861 che, con la tumultuosa prima
parigina del Tannhäuser, segnò definitivamente la rinuncia a perseguire
il sogno di una rappresentazione all’Opéra. In soccorso di Berlioz giunse il
baritono Léo Carvalho, che da alcuni anni aveva assunto la direzione di una
nuova sala parigina, il Théâtre Lyrique: tra buone, anche se non eccezionali
accoglienze, I Troiani vi andarono in scena il 4 novembre 1863 sotto la
direzione dell’autore. Si trattò però di una rappresentazione parziale: le
abnormi dimensioni dell’opera indussero Carvalho a sopprimere tutta la prima
parte, La prise de Troie, e a operare sulla seconda, Les Troyens à
Carthage, ampi tagli e alleggerimenti: con il forzato consenso di Berlioz,
che fu tenuto inoltre a pagare di tasca propria gli orchestrali aggiunti
ritenuti più indispensabili. Da quel momento la partitura rimase chiusa a lungo
nell’archivio dell’editore Choudens. Berlioz morì pochi anni dopo senza aver
mai potuto udire La prise de Troie; e se la prima rappresentazione
integrale ebbe luogo solo alla fine del 1890 – ben più di trent’anni dopo la
creazione – per iniziativa dell’eminente direttore wagneriano Felix Mottl, che
la presentò a Karlsruhe, all’Opéra di Parigi non ebbe accesso in questa forma
fino al 1921: preceduta dalla rappresentazione della sola prima parte, La
prise de Troie, il 15 novembre 1899, allo spirare di un secolo che non
aveva compreso né tanto meno acquisito coscienza della vocazione teatrale di
Berlioz.
LA TRAMA
Atto primo. ‘La prise de Troie’. Il campo abbandonato dei Greci
nella piana di Troia. I Greci hanno tolto l’assedio alla città di Troia e i
Troiani, dopo tanti anni di guerra, finalmente escono dalle mura e si danno
alla più grande esultanza (“Ah, ah, après dix ans”). Solo Cassandra è in preda
alla più grande agitazione: ma le sue profezie non trovano ascolto nemmeno
presso Corebo, suo innamorato. Irrompe Enea, interrompendo i festeggiamenti
della pace. Egli narra come Laocoonte, che aveva espresso i suoi sospetti circa
il cavallo di legno che i Greci hanno abbandonato sul campo, sia stato divorato
da serpenti (“Du peuple et des soldats”). Cassandra ripete le sue profezie in
modo ancora più esplicito: la partenza dei Greci è solo un inganno, che porterà
alla rovina e alla morte tutti i Troiani (aria “Non, je ne verrai pas”).
Ciononostante il cavallo viene trascinato in città, quale dono propiziatorio ad
Atena.
Atto secondo. Quadro primo. Una stanza nel palazzo di Enea.
L’ombra di Ettore appare a Enea e lo esorta a fuggire da Troia per fondare in
Italia una nuova città. Entra il sacerdote Panteo, ferito al viso. La città è
in fiamme, e il fuoco è stato appiccato dai Greci che si erano nascosti
all’interno del cavallo di legno. Enea prende per mano il figlio Ascanio e si
accinge a combattere l’ultima battaglia. Quadro secondo. Nel palazzo di
Priamo, davanti all’altare di Vesta. Cassandra, in preda al più profondo
abbattimento e con i capelli scarmigliati, annuncia alle donne troiane la morte
di Corebo e la fuga di Enea, che ha portato con sé il tesoro di Priamo per
fondare in Italia una nuova Troia (“Tous ne périront pas”). All’irrompere dei
Greci, Cassandra e le donne troiane si uccidono piuttosto che cadere in mano ai
vincitori; la loro ultima parola è: «Italia».
Atto terzo. ‘Les Troyens a Carthage’. Una grande sala del palazzo
di Didone a Cartagine. Nella città sono in corso i festeggiamenti in onore
della regina Didone, che ha dato al suo popolo prosperità e ricchezza. La
regina, nel ricevere gli omaggi della sua gente, afferma la propria volontà di
mantenersi fedele alla memoria del marito (“Nous avons vu finir sept ans à
peine”); benché sua sorella Anna cerchi di smuoverla da questo proposito, ella
non intende dare a Cartagine un nuovo re. Il poeta Iopas annuncia che degli
stranieri stanno giungendo dal mare: sono i Troiani in fuga, guidati da Enea.
Didone li accoglie con amicizia. Proprio in quel momento il ministro Narbal
porta la notizia che Iarbas, re dei Numidi, si appresta ad attaccare con le
armi Cartagine. Enea, fino ad allora in incognito, si rivela e offre il proprio
aiuto. Didone, turbata, accetta che i Troiani combattano a fianco dei
Cartaginesi contro il re barbaro.
Atto quarto. Quadro primo. Una pantomima, sulla musica di
un interludio sinfonico intitolato ‘Caccia reale e tempesta’, mostra Didone ed
Enea inoltrarsi nella foresta e addentrarsi in una grotta dove, mentre infuria
la tempesta, danno compimento al loro amore. Quadro secondo. I giardini
di Didone in riva in mare. Vinti i Numidi, Enea viene festeggiato nei giardini
di Didone. Fra l’eroe e la regina è nato l’amore, che è visto con simpatia da
Anna ma che preoccupa Narbal, consapevole della missione che attende Enea. Si
celebrano grandi feste, tra canti e balli appena offuscati da oscuri presagi.
Rimasti soli al chiaro di luna, Didone ed Enea si abbandonano finalmente alla
passione (“Nuit d’ivresse, et d’exstase infinie”). Ma al culmine dell’estasi
appare improvvisamente Mercurio; con voce grave, egli ammonisce: «Italia!».
Atto quinto. Quadro primo. La riva del mare gremita di
tende troiane; è notte. Un giovane marinaio frigio canta dall’albergo di una
nave una nostalgica canzone (“Vallon sonore”). Panteo e i capi troiani si
preparano a partire, nonostante l’incertezza di Enea. L’eroe si avanza in
grande agitazione, ancora indeciso tra amore e dovere (“Inutiles regrets... je
dois quitter Carthage”). Un coro d’ombre lo chiama per nome: sono gli spettri
degli eroi troiani che vengono a esortarlo affinché compia la sua missione.
Enea non può sfuggire al destino e ordina la partenza. Mentre fervono i
preparativi, Enea si congeda da Didone, che cerca invano di trattenerlo. Quadro
secondo. Nella casa di Didone. La regina, rientrata nelle sue stanze,
ordina alla sorella Anna di recarsi da Enea per implorarlo di restare. In quel
momento giunge la notizia che i Troiani sono partiti. Fuori di sé, Didone prima
maledice Enea, poi si accascia e dà sfogo alla sua disperazione (“Je vais
mourir... Adieu, fière cité”). Quadro terzo. Nei giardini di Didone. La
regina ha dato ordine di innalzare un grande rogo; è la cerimonia funebre
allestita per se stessa, un sacrificio per gli dèi degli inferi. Salita sul
rogo con le armi di Enea, ha la visione della vendetta di Annibale sui Romani;
poi estrae la spada dal fodero e si uccide (“D’un malheureux amour, funestes
gages”). Mentre tutti accorrono, in un ultimo sussulto Didone annuncia la fine
di Cartagine e il trionfo di Roma immortale: i Cartaginesi maledicono in eterno
la gloria di Roma (“Haine éternelle à la race d’Enée”).
Tutto, non solo le vicende esterne della sua fortuna, concorre a fare dei
Troiani un’opera di grandezza tragica, quasi un monumento funebre alla
storia dell’Opera. Che ciò avvenisse in un’epoca nella quale le sorti del
teatro musicale erano tutt’altro che irrevocabilmente segnate, accresce il suo
fascino di capolavoro postumo, di grandioso affresco di classicismo e
romanticismo, di ragione e sentimento, di destino e sogno. Le forme nelle quali
s’incarna appaiono anch’esse ricostruite sulle macerie della storia e non
offrono molto più che riferimenti labili. La stessa tradizione del grand-opéra,
sul cui tronco si innesta, è vista con occhio non critico ma piuttosto
disincantato, forse con l’orgoglio di rinnovare schemi ormai consolidati
ritrovandone la freschezza e la sostanza. Certo i Troiani non inclinano verso
il dramma musicale più di quanto non guardino al passato, alla forza espressiva
della parola incorniciata in forme apparentemente chiuse. Dove non si tratta di
fare di necessità virtù, ma di ridare all’arte una sua necessità. Soltanto un
giudizio basato sulla concezione originale e globale – ossia mettendo in
relazione la prima e la seconda parte in un arco unico e complessivo – può
rendere giustizia al significato dell’opera. Non è con i tagli o con le suture
che il suo valore può essere riconosciuto; al contrario, ne viene
irrimediabilmente compromesso. Anche se non mancano pagine isolate di grande
bellezza – a cominciare dal fastoso interludio sinfonico che apre il quarto
atto, in realtà una pantomima di audace visionarietà, per finire con le arie e
i duetti che ne costellano il percorso – è il respiro dell’insieme, la
collocazione delle singole parti nel tutto, a costruire passo dopo passo il
senso sia drammaturgico sia musicale: il quale, a onta delle proporzioni
dilatate e delle numerose digressioni, attese e sospensioni, risponde a un
principio eminentemente classico di esposizione, sviluppo e scioglimento, tanto
nell’azione quanto nella musica. E ciò nonostante che fin dall’inizio, e non
solo in base alle nostre conoscenze della storia antica e di Virgilio, noi si
sappia – e Berlioz non manca di ricordarcelo in ogni momento – che il destino è
irrimediabilmente segnato e che non vi saranno vie d’uscita.
Non è senza peso nell’economia dell’insieme che al centro di tutte e due
le parti, quasi come principio unificatore che si rispecchia in se stesso, vi
siano due figure femminili votate alla sconfitta e al sacrificio: Cassandra e
Didone. Ciò che a Cassandra non riesce in forza della sua lucidità – evitare la
rovina dei Troiani – non riesce neppure a Didone in forza dell’amore:
trattenere Enea e impedire che il destino faccia il suo corso. Parallelamente,
la prima e la seconda parte si aprono con cori gioiosi in un’atmosfera di
festa; e in entrambi già si stende l’ombra di presagi funesti in modo
immediatamente percepibile, quasi implicito. Ne consegue che la drammaturgia
dell’opera non si basa sull’evolversi di un’azione in presa diretta, ma sulla
riflessione e sulla memoria da un lato, sull’immaginazione dall’altro, come se
i personaggi, attraverso Berlioz, rivivessero non fatti ma suggestioni ideali a
essi collegati. E in effetti quasi tutti i fatti dell’azione – dalla presa di
Troia all’amore di Didone e Enea – sono elusi e raccontati, quando non evocati:
ciò che interessa a Berlioz è cogliere il momento che precede e che segue
all’azione, il momento della speranza (ingannevole) e dell’ineluttabile
conseguenza funebre, ossia della preparazione e dello scioglimento. E su questi
per l’appunto indugia, lasciando ai personaggi secondari, di contorno, la
concretezza della vita vissuta. Il tempo e lo spazio in cui questo periplo si
compie, quasi avvitandosi su se stesso in un istante eternamente prolungato, in
un centro continuamente spostato, non hanno nulla a che fare con uno spettacolo
d’opera nell’accezione convenzionale: ne sono per così dire la sublimazione,
una sorta di celebrazione rituale fuori dal tempo e dallo spazio. Al punto che
la grandezza tragica dell’opera non sta neppure, in fondo, nel soggetto che
tratta e nei personaggi che pone in scena, bensì nel modo in cui considera quel
soggetto e quei personaggi alla stregua di simboli di un mondo ideale, forse
mai esistiti, o comunque appartenenti a un lontano regno di memorie. Che
Berlioz sentisse con infinita nostalgia le ombre e i fantasmi di questo mondo
non significava soltanto rifiuto delle strategie teatrali più o meno inclini al
compromesso della sua epoca, ma anche convinta affermazione di una funzione del
teatro musicale che alle ragioni della spettacolarità opponesse quelle dello
spirito e dell’elevazione verso più alte mete: commozione senza sentimentalismi
e pietà verso i perdenti, nella convinzione che solo così il teatro, potenziato
dalla musica, avrebbe onorato la sua missione artistica.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il catalogo delle edizioni audio/video di quest’opera (che pur è poco rappresentata
per la sua grande complessità) è particolarmente ampio e io mi sento di
consigliare innanzitutto queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Colin Davis nel 1969 a Londra (J. Vickers, P.
Glossop, B. Lindholm, J. Veasey);
- Edizione audio diretta da Colin Davis nel 2000 a Londra (B. Heppner, P.
Mattei, P. Lang, M. De Young);
- Edizione video diretta da John Eliot Gardiner nel 2003 a Parigi (G.
Kunde, L. Tézier, A. C. Antonacci, S. Graham);
- Edizione audio diretta da John Nelson nel 2018 a Strasburgo (M. Spyres,
S. Degout, M.-N. Lemieux, J. Di Donato).
L’edizione diretta da Colin Davis nel 2000 si avvale della splendida
London Symphony Orchestra che suona in maniera divina. La concertazione del maestro
inglese è sublime (pur a mio avviso non superando quella dell’edizione del ’69)
e dona alla partitura una regalità assoluta. Molto buoni i cantanti e, a mio
avviso, tra di loro primeggia il Chorèbe di Peter Mattei.
Lo spettacolo andato in scena nel 2003 al Teatro Chatelet di Parigi vede una bella direzione di John Eliot Gardiner alla guida dell’Orchestre Revolutionaire et Romantique e quindi ci porta una esecuzione effettuata con strumenti antichi. Ne risulta quindi una tipologia di suono completamente differente rispetto alla normalità che però non si addice (almeno in questo repertorio) alle mie corde. Il cast a disposizione del direttore inglese è buono ed ha come punta di diamante l’ottima Cassandra di Anna Caterina Antonacci.
L’edizione registrata a Strasburgo nel 2018 con la buona direzione di
John Nelson vede nel cast alcune punte di diamante: Michael Spyres è un ottimo
Enea e Joyce Di Donato una affascinante Didone. Non esaltanti a mio parere gli
interpreti di Chorébe e Didone.
Facendo un po’ la somma delle varie edizioni a mio avviso quella più interessante, che mi sento di consigliare, è l’edizione del 1969 diretta da Colin Davis e che si avvale di un cast stellare. John Vickers è un intenso ed eroico Enea, mentre Peter Glossop è il miglior Chorébe discografico. Berit Lindholm è un’ottima Cassandra e Josephine Veasey una altrettanto ottima Didone. La direzione di Davis è avvolgente, mai sopra le righe (pur con una orchestrazione importante), ben assortita rispetto alle varie situazioni, che accompagna ottimamente le voci. Insomma… uno spettacolo!
Di seguito il link per ascoltare l’opera nell’edizione che io preferisco:
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