ALMANACCO OPERISTICO - 10 novembre 2020 - LA FORZA DEL DESTINO di G. Verdi
LA FORZA
DEL DESTINO
Opera in quattro
atti di Francesco Maria Piave, dal dramma Don Alvaro o La fuerza del sino
di Angel Perez de Saavedra
Musica di Giuseppe
Verdi
Prima
rappresentazione: Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862
Distolto anche dagli avvenimenti politici che avrebbero portato all’unità
d’Italia, Verdi trascorse quasi due anni senza comporre, partecipando
attivamente ai lavori del nascente parlamento. Solo nel dicembre del 1860, a
seguito di una lettera del tenore Enrico Tamberlick, si lasciò tentare
dall’idea di comporre un’opera per Pietroburgo. Scartato definitivamente un Ruy
Blas, il musicista scelse il dramma Don Alvaro o La fuerza del sino,
che aveva apprezzato per l’originalità delle scene di ambientazione popolare,
inframmezzate agli eventi drammatici dell’intreccio principale. La stesura del
libretto fu condotta sotto la stretta supervisione di Verdi, che nell’agosto
del 1861 chiese ad Andrea Maffei di poter utilizzare liberamente una scena
della sua traduzione del Wallensteinsolager (Il campo di Wallenstein) di
Schiller, per l’episodio dell’accampamento presso Velletri (terzo atto). Nel
novembre del 1861 il musicista partì per Pietroburgo ma, a causa
dell’indisposizione della primadonna, la rappresentazione fu rimandata
all’inverno successivo. All’indomani della ‘prima’, l’opera, pur suscitando
vasti consensi, fu ritenuta dalla critica eccessivamente lunga e malgrado il
successo di pubblico fu contestata dai nazionalisti russi e dai filotedeschi.
Anche la ‘prima’ a Madrid, nel febbraio del 1863, nonostante le buone
accoglienze fu causa di polemiche: Verdi fu accusato di essersi allontanato dal
solco della sua tradizione e di avere profanato il dramma di Rivas.
LA TRAMA
Atto primo. Nella casa dei marchesi di Calatrava, a Siviglia.
Leonora, la figlia del marchese, riceve la buonanotte dal padre. Rimasta sola,
la giovane dà sfogo con le lacrime al suo intimo tormento: ama Don Alvaro, un
giovane di nobili origini ma di sangue misto, con il quale ha deciso di
fuggire; ma ama anche il padre, che osteggia il suo legame sentimentale poichè
lo ritiene disonorevole per il casato (“Me pellegrina ed orfana”). Giunge
Alvaro (“Ah, per sempre, o mio bell’angiol”): tutto è pronto per la fuga e
Leonora, abbandonate debolezze e perplessità, si appresta a lasciare la casa
paterna quando, all’improvviso, il marchese di Calatrava irrompe armato nella
stanza. Leonora si getta ai suoi piedi mentre Alvaro, proclamando l’innocenza
della giovane, si assume ogni responsabilità e offre addirittura la propria
vita all’ira del marchese. In segno di resa getta lontano da sé la pistola ma
questa, nell’atto di colpire il pavimento, lascia partire un colpo che ferisce
a morte il marchese. Alvaro, atterrito e impotente, trascina con sè Leonora,
maledetta dal padre nell’atto di esalare l’ultimo respiro.
Atto secondo. Quadro primo. Sulle tracce della sorella
Leonora e di Alvaro, Don Carlo di Vargas è giunto travestito da studente
all’osteria del villaggio di Hornachuelos. Fingendo buonumore e semplice
curiosità, interroga mastro Trabucco, il mulattiere, sulla misteriosa persona
che egli accompagna in viaggio. Intanto Leonora si è accorta della presenza del
fratello e si tiene nascosta con prudenza. Giunge Preziosilla, una giovane
zingara, che incita i presenti a lasciare la miseria del villaggio e a cercare
la fortuna in Italia, nella guerra contro i tedeschi (“Al suon del tamburo”).
Poi, l’arrivo dei pellegrini che vanno al giubileo spinge tutti a
inginocchiarsi e a pregare. Il raccoglimento è di breve durata: un fiasco di
vino riporta allegria e il falso studente si rivolge di nuovo al mulattiere,
chiedendogli se la persona che accompagna è un uomo o una donna e perché non
sia scesa a cenare. Le domande alla fine stancano Trabucco, che sceglie di
andarsene a dormire in compagnia delle sue mule, senz’altro meno noiose dei
baccellieri. Invitato a rivelare la sua identità, lo studente afferma di
chiamarsi Pereda, di venire da Salamanca e di essersi trovato suo malgrado
coinvolto in una brutta storia. Il padre di un suo amico, Don Carlo di Vargas,
è stato ucciso dall’amante della figlia ed egli ha accettato di seguire Don
Carlo a Cadice sulle tracce dell’assassino. In seguito, partito l’amico per il
Sudamerica, egli è tornato ai suoi studi (“Son Pereda, son ricco d’onore”).
Tutti credono alla storia tranne Preziosilla, che si prende gioco dello
studente, ma ormai la notte è sopraggiunta e tutti si ritirano. Quadro
secondo. All’alba, davanti al convento della Madonna degli Angeli giunge
sfinita Leonora. La fanciulla ha udito della fuga in America di Alvaro, che
credeva morto, e ha compreso i crudeli progetti del fratello (“Madre, pietosa
Vergine”). Disperata, chiede ospitalità ai frati: ma non in convento, bensì in
un eremo, vicino ma completamente isolato. Il padre guardiano è inizialmente
perplesso da una richiesta così estrema, ma Leonora espone la sua situazione in
termini talmente drammatici e commoventi (“Se voi scacciate questa pentita”)
che alla fine la chiesa del convento si apre e i frati si riuniscono
accogliendo la supplica (“Il santo nome... La Vergine degli Angeli”).
Atto terzo. Quadro primo. È notte. Don Alvaro, capitano dei
granatieri spagnoli stanziati in Italia per la guerra ai tedeschi, ripensa alla
tragica notte in cui il suo destino è stato segnato: Leonora è morta; quanto a
lui, che vive sotto mentite spoglie, non sente più alcun attaccamento alla vita
(“La vita è inferno all’infelice... O tu che in seno agli angeli”). Grida di
aiuto lo distolgono dai suoi cupi pensieri. Alvaro accorre e trae in salvo da
una squallida bisca un uomo; questi, che è poi Don Carlo, gli si dichiara
subito riconoscente offrendo la sua opera per la causa comune. Durante la
battaglia, Alvaro è gravemente ferito. Carlo, giunto al suo capezzale, lo esorta
a resistere e gli promette come ricompensa per il suo valore l’ordine di
Calatrava. A queste parole Alvaro ha un sussulto, poi, rimasto solo con
l’amico, gli affida una valigetta che racchiude le cose a lui più care e alcune
lettere che lo prega di distruggere (“Solenne in quest’ora”). Carlo sospetta
che l’amico possa essere Alvaro, ma non vuole mancare al giuramento e leggere
le lettere consegnategli (“Urna fatale del mio destino”); tuttavia, aprendo la
valigetta scopre un ritratto di Leonora: in un attimo l’amicizia si muta in
disprezzo e desiderio di vendetta. Quando il chirurgo comunica che Alvaro è
fuori pericolo, Carlo esulta: finalmente, potrà riscattare l’onore dei Vargas
(“Egli è salvo”). Quadro secondo. Alvaro è ormai convalescente, ma pur
sempre oppresso da un inconsolabile dolore; Carlo lo affronta chiedendogli di
battersi. Alvaro dapprima rifiuta e si proclama innocente (“Sleale! Il segreto
fu dunque violato?”), appellandosi a Leonora e a suo padre; ma quando Carlo gli
rivela che Leonora è ancora viva dà sfogo a tutta la sua gioia, chiedendo
all’amico di estinguere ogni odio consentendogli di sposarla (“No, d’un imene
il vincolo”). Carlo è però inesorabile: ritroverà la sorella, ma al solo fine
di punirla del suo peccato. I due si battono, ma la ronda interviene e li
divide; mentre Carlo è trascinato via furibondo, Alvaro decide di chiudersi in
un chiostro per tutta la vita. Ormai è giorno fatto. Preziosilla apre la sua
baracca a tutti quelli che vogliono conoscere il loro futuro; i soldati cominciano
a bere e fanno ressa attorno a Trabucco, che sbarca il lunario facendo il
venditore ambulante (“A buon mercato”); alcuni contadini affamati chiedono
pane, mentre giungono le reclute, subito attorniate da giovani vivandiere che
offrono loro bicchieri di vino. Preziosilla esorta tutti a non avvilirsi e a
dimenticare la guerra folleggiando, ma, mentre gli animi si accendono, giunge
fra Melitone, del convento della Madonna degli Angeli, che si scandalizza per
un tale comportamento (“Toh, toh! Poffare il mondo!”). I soldati vorrebbero
conciarlo per le feste, ma Preziosilla interviene, esortandoli a impiegare le
loro energie per la vittoria sul nemico e per la gloria (“Rataplan”).
Atto quarto. Quadro primo. Fra Melitone è ritornato al suo
convento e distribuisce la minestra ai poveri di Hornachuelos; ma non ha
pazienza ed è esortato alla carità dal padre guardiano, che gli ricorda la
benevolenza di padre Raffaele, assai amato dalla povera gente. Melitone, nel
sentire nominare il nuovo frate da poco giunto nel convento, ha un sussulto:
gli è amico, ma è spaventato dal suo aspetto e dal suo contegno; inoltre la sua
pelle scura, come quella di un mezzosangue, lo ha spinto a chiedersi se non sia
parente del diavolo. Il padre guardiano ricorda a Melitone che padre Raffaele
ha sofferto molto nella vita, ma un’energica scampanellata interrompe il loro
discorso. Melitone corre ad aprire e si trova di fronte a un cavaliere,
nient’altri che Carlo, che chiede imperiosamente di padre Raffaele. Melitone si
allontana borbottando e poco dopo appare il frate, che altri non è che Alvaro.
Ancora una volta Don Carlo sfida il rivale a un duello all’ultimo sangue;
Alvaro rifiuta, invoca il suo amore per Leonora e l’abito che porta (“Invano
Alvaro... Le minacce, i fieri accenti”) ma Carlo, irremovibile, fa leva
sull’orgoglio del nemico, tacciandolo di vigliaccheria e schiaffeggiandolo.
Accecati dall’odio, i due si precipitano al di fuori del convento. Quadro
secondo. Leonora, nell’impenetrabile silenzio dell’eremo, non ha trovato la
pace nella quale sperava: l’immagine di Alvaro l’ha tormentata rendendo più
vivo il dolore di un tempo (“Pace, pace, mio Dio”). Qualcuno batte alla porta,
la fanciulla non vorrebbe aprire ma alla fine cede. Davanti a lei è Alvaro,
stravolto e sporco di sangue. La sorpresa di rivedere l’uomo amato si muta in
orrore nell’apprendere che Carlo è morto; Leonora corre dal fratello. Mentre
Alvaro medita amaramente sull’ironia del destino si ode un grido; Carlo ha
colpito la sorella a morte. Alvaro impreca e si dispera, ma Leonora gli si
rivolge con suprema serenità: c’è una terra promessa nella quale anche il loro
amore potrà finalmente esistere. Mentre Alvaro grida tutta la sua amara protesta,
il padre guardiano gli si accosta e lo esorta alla fede e alla pietà (“Lieta or
poss’io precederti”).
Nonostante l’esito tutt’altro che negativo dell’opera, Verdi stesso non
era completamente soddisfatto, soprattutto per il finale che, nel suo progetto
originario, conforme al dramma, prevedeva anche il suicidio di Alvaro. Solo
dopo il 1867, tuttavia, quando ormai Piave, paralizzato da un colpo
apoplettico, era nell’impossibilità di occuparsi del libretto, Verdi ritornò
sull’argomento e affidò l’incarico della revisione a Ghislanzoni. La prima
rappresentazione italiana, al Teatro alla Scala (27 febbraio 1869), diretta da
Angelo Mariani e con Teresa Stolz e Mario Tiberini nei ruoli dei protagonisti,
fu uno straordinario successo. Dispiacque però la commistione di tragico e di
comico, che apparve una manifestazione di scarsa coerenza sul piano drammatico.
Verdi, invece, continuò a difendere l’insolita struttura drammatica dell’opera,
che trovava funzionale all’idea di un Destino inesorabile e infallibile, capace
pur sempre, in mezzo a tante divagazioni, di guidare le azioni dei personaggi e
di condizionarli. Dal punto di vista musicale l’opera segna un’ulteriore
maturazione dello stile di Verdi (ancora più evidente nell’edizione del 1869,
composta dopo il Don Carlos), nel quale confluiscono numerose esperienze
compositive. Già la versione del 1862 impiegava, nella scena dell’osteria e
dell’accampamento, uno stile musicale da commedia (cui Piave amò infondere un
linguaggio realistico che, come osserva Luigi Baldacci, era decisamente atipico
nella librettistica del tempo) che prelude con decisione al Falstaff;
includeva l’episodio della chiesa, che è nella tradizione più tipica del grand-opéra,
e prevedeva episodi come la descrizione della battaglia (atto terzo), risolta
con grande raffinatezza orchestrale. Anche una pagina come il duetto tra il
padre guardiano e Melitone (che, dopo il paggio Oscar, rappresenta un’altra
sorprendente e riuscita concessione al registro ‘comico’ del Verdi maturo)
anticipa quello stile chiesastico e modale che troverà un’espressione ancor più
compiuta nel duetto Fiesco-Boccanegra, nella versione riveduta del Simon
Boccanegra del 1881. Ma l’elemento che maggiormente caratterizza
quest’opera sin dalla prima versione è il coro, che qui assume una dimensione
cosmica, inedita persino per Verdi, capace di slanci di gioia e di gesti di
raccolta religiosità. Sotto questo profilo non c’è dubbio che l’opera abbia
costituito un esempio per il Musorgskij del Boris Godunov, poichè
entrambi i drammi sono dominati dalla presenza del popolo, visto nella sua
complessità ed eterogeneità e che assurge a ruolo di vero e proprio
personaggio. La versione del 1869, musicalmente più matura, è superiore alla
precedente anche dal punto di vista drammaturgico, poiché Verdi studiò
soluzioni che limitavano l’impiego di formule melodrammatiche convenzionali:
come nel finale, rasserenato dalla speranza e dal senso della redenzione (forse
ispirato, come pensa Budden, dal commosso incontro tra Verdi e Manzoni nel
luglio 1868), nel quale il musicista ebbe modo di creare una pagina che esprime
con pienezza la spiritualità raccolta e delicata della morte di Leonora. In
seguito all’esecuzione diretta da Franco Faccio al Teatro Grande di Brescia
(agosto 1872), l’opera cominciò a circolare in Italia e all’estero: dapprima
Parigi (Théâtre Italien, 31 ottobre 1876) e in seguito Anversa, per la quale
Verdi scrisse una versione apposita (1882), che rimase in repertorio fino al
1931 e che prevedeva alcune modifiche anche sostanziali. Nei primi anni del
secolo fu tra le più trascurate opere verdiane della maturità; ma dopo la sua
clamorosa ‘riscoperta’ in Germania, da parte di Fritz Busch (Dresda 1926), e in
seguito al festival di Glyndebourne (1951), è rientrata stabilmente in
repertorio.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il catalogo delle edizioni, sia audio che video, di questo capolavoro
verdiano è corposo (se ne contano solo di edizioni ufficiali più di 100) e io
mi sento innanzitutto di segnalare queste edizioni:
- Edizione audio diretta da Gino Marinuzzi nel 1941 a Torino (M.
Caniglia, G. Masini, C. Tagliabue, E. Stignani, T. Pasero);
- Edizione audio diretta da Dimitri Mitropoulos nel 1960 a Vienna (A.
Stella, G. di Stefano, E. Bastianini, G. Simionato, W. Kreppel);
- Edizione audio diretta da Thomas Schippers nel 1964 (L. Price, R.
Tucker, R. Merrill, S. Verrett, G. Tozzi);
- Edizione audio diretta da James Levine nel 1976 a Londra (L. Price, P.
Domingo, S. Milnes, F. Cossotto, B. Giaiotti);
- Edizione audio diretta da Riccardo Muti nel 1986 a Milano (M. Freni, P.
Domingo, G. Zancanaro, D. Zajick, P. Plishka);
- Edizione audio/video diretta da Valery Gergiev nel 1996 a San Pietroburgo
(G. Gorchakova, G. Grigorian, N. Putilin, O. Borodina, M. Kit).
L’edizione registrata all’EIAR (l’antenata della attuale RAI) di Torino
con la direzione di Gino Marinuzzi non è sicuramente la migliore edizione ma ci
riporta ad un periodo in cui la solida routine di canto e direzione erano uno
standard talmente alto che oggi, se l’ascoltassimo nei nostri teatri, grideremmo
ogni volta all’esecuzione perfetta. Maria Caniglia e Galliano Masini sono un’ottima
coppia, Carlo Tagliabue a io parere è un po’ troppo irruento ma canta molto
bene Carlo. Pasero è un Guardiano di tutto rispetto così come la Preziosilla di
Ebe Stignani.
L’edizione live diretta da Mitropoulos alla Staatsoper di Vienna è
interessantissima proprio sotto il profilo della direzione del grandissimo
direttore d’orchestra. Tutta la recita è una continua tensione e i cantanti
seguono il “vecchio” direttore con una dedizione e una meticolosità
impressionanti. La Stella è un’ottima Leonora così come è bello da ascoltare l’Alvaro
di Giuseppe di Stefano. Bastianini è un ottimo Carlo e la Siminionato una
buonissima Preziosilla. A mio parere inascoltabile il Padre Guardiano di
Kreppel. Una curiosità per chi vorrà ascoltare questa registrazione: la
sinfonia è inserita non all’inizio dell’opera ma prima del secondo atto.
L’edizione diretta nel 1964 da Thomas Schippers vede la straordinaria
Leonora di Leontyne Price (inarrivabile in questo ruolo), un Richard Tucker
molto interessante, un Robert Merrill altrettanto interessante ma perfettibile
come Carlo e una Verrett bravissima come Preziosilla. Schippers dirige molto
bene e si avvicina molto alla perfezione in quest’opera che è tutt’altro che
semplice.
L’edizione diretta da James Levine nel 1976 in maniera ottima vede ancora
in campo Leontyne Price (qui uno scalino al di sotto dell’edizione diretta da
Schippers ma sempre bravissima) insieme ad un giovane e baldanzoso Placido
Domingo. Ottimo il Carlo di Sherill Milnes così come la Preziosilla di Fiorenza
Cossotto. Splendido il Padre Guardiano di Bonaldo Giaiotti.
L’edizione russa del 1996 diretta da Valery Gergiev non ha, a mio avviso,
un grandissimo interesse per quanto riguarda il cast vocale (che è buono senza
dubbio ma non entusiasma nel suo complesso) ma è da ricordare per l’interessante
interpretazione del direttore oltre al fatto, ancora più importante, che si
tratta dell’edizione che è stata rappresentata proprio a Pietroburgo nel 1862,
prima delle importanti modifiche che Verdi apportò alla partitura.
L’edizione a mio parere più completa, che quindi mi sento di consigliare,
è l’edizione milanese del 1986 diretta in maniera magistrale da Riccardo Muti.
Credo che questa sia una delle sue migliori direzioni verdiane, supportato da
un’orchestra in vero stato di grazia, e da un cast di primissimo piano. Mirella
Freni è un’ottima Leonora, forse un gradino al di sotto di Leontyne Price, ma
in questa registrazione né dà una lettura personalissima che a ma piace
tantissimo. Placido Domingo è un ottimo Alvaro e in questa edizione lo
preferisco rispetto a quella diretta da Levine. Giorgio Zancanaro è un ottimo
Carlo e qui lo trovo non monotono – o meglio monocorde – come spesso veniva
criticato. Ottima la Preziosilla di Dolora Zajick. Unico neo di questa edizione
(che vede anche un grandissimo Fra Melitone interpretato da Sesto Bruscantini)
è l’insufficiente Padre Guardiano di Paul Plishka. Complessivamente però questa
è l’edizione che io preferisco de La forza del destino.
Di seguito il link per ascoltare l’opera diretta da Riccardo Muti:
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