ALMANACCO OPERISTICO - 22 novembre 2020 - IRIS di P. Mascagni

IRIS

Opera in tre atti di Luigi Illica

Musica di Pietro Mascagni

 

Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 22 novembre 1898

 

La proposta di un’opera ‘giapponese’ venne fatta a Mascagni nel 1896 da Luigi Illica, librettista di testi importanti come La Bohème e Andrea Chénier, che sarà suo collaboratore anche per Le maschere e Isabeau. Mascagni ha appena presentato il piccolo Zanetto, un primo saggio di gusto parnassiano-decadente, e l’idea di Illica interpreta una volontà di rinnovamento rispetto al realismo imperante, l’aspirazione a dare una risposta italiana al simbolismo di un Maeterlinck (il cui Pelléas et Mélisande non è stato però ancora rivestito dalle note di Debussy), intrecciandolo con il gusto per l’esotico che sta dilagando nella cultura europea. A fine Ottocento, il Giappone si affaccia alla ribalta politica internazionale e l’Estremo Oriente viene a sostituire le turcherie care al Settecento e all’età rossiniana; le suppellettili, i paraventi laccati, gli acquerelli, i gesti flessuosi, persino alcuni vocaboli (harahiri, musmé, geisha, kimono) entrano nelle case della borghesia europea e giungono a ispirare i pittori dell’Art Nouveau e della Secessione viennese. E anche scrittori e musicisti di teatro traggono immagini e suggestioni da questa terra incantata e misteriosa: Pierre Loti scrive nel 1887 una fortunata Madame Chrysanthème, da cui deriverà un’operetta di Messager, sull’onda del grande successo del Mikado, nato nel 1885 con musiche di Sullivan. Mascagni accoglie il progetto «con entusiasmo che non ha l’eguale» e si mette a studiare «il tipo armonico giapponese», a Firenze visita la preziosa collezione di strumenti orientali dei baroni Kraus; e di questa ricerca rimarrà nella nuova partitura il timbro dei campanelli giapponesi, del shamisen, dei gong e di un piccolo oboe per l’entrata del teatrino al primo atto, oltre all’impiego della scala esatonale in vari episodi e specialmente nel preludio al terzo atto. Non molto, perché il Giappone raffigurato nell’Iris è sostanzialmente una terra di fantasia, un paese di sogno inventato, ben diverso da quello ‘autentico’ di Butterfly, che Puccini riempì di temi giapponesi originali e di scale pentafoniche e esatonali per dare maggiore verità ambientale alla sua opera.


LA TRAMA

Atto primo. L’opera si apre con una breve introduzione strumentale di carattere descrittivo che precede il celeberrimo Inno del Sole cantato dal “Sole” stesso reso attraverso un coro invisibile. Il Iris es. 1suo arrivo è preparato dalla Notte, rappresentata da un tema cupo e grave, che si schiarisce nelle morbide sonorità degli archi quando incominciano a filtrare i primi albori. La natura prende vigore e i fiori aprono i loro petali nei celestiali e acuti accordi dei violini fino a quando l’Aurora, annunciata dai corni, diffonde la sua luce con il suo celebre tema.  A questo tripudio di suoni si unisce il coro che inneggia al sole come fonte della vita e al suo spuntare riprende il tema precedentemente esposto (Dei mondi io la cagione) con le quattro voci che entrano a terrazza in un crescendo che rappresenta bene il diffondersi della luce. Il coro si conclude con la parola «amore» cantata su un solare accordo di re maggiore. In questo contesto di luce si sveglia Iris che ha appena fatto un brutto sogno popolato di serpenti ed espresso da una musica piuttosto drammatica che trova un’apertura melodica in corrispondenza del riferimento al sole. Frivoli accordi introducono l’ingresso di Osaka e Kyoto, personaggi le cui caratteristiche moralmente discutibili sono immediatamente riconoscibili nei loro atteggiamenti disinvolti. Osaka intende, infatti, possedere Iris, la figlia del Cieco, con l’aiuto di Kyoto con il quale alla fine inneggia alla vita. Il sole ravviva anche il Cieco, padre di Iris che, pur non vedendone la luce, ne sente il calore diffuso da una nuova breve ripresa del tema dell’inno del sole. Mentre la figlia innaffia i fiori e l’uomo prega, annunciato da un tema allegro e svolazzante, entra in scena un coro di Mousmè, giovani lavandaie che vanno al ruscello a lavare la loro biancheria. Le fanciulle inneggiano, in una scrittura delicata, all’acqua del ruscello che sembra popolarsi quasi di presenze animistiche. Iris si unisce al loro canto, insistendo sulla metafora della vita che scorre come l’acqua in gaie stille, mentre il padre recita il suo personale rosario. Questo momento poetico è infranto dal suono di samisen, di gongs e di tamburelli che introducono con un tema allegro l’arrivo di teatranti guidati da Kyoto il quale si presenta come Danjuro, il padre dei fantocci e chiede alle mousmè se hanno delle ragazze da marito, in quanto nelle sue commedie si parla di matrimoni. A questo punto viene messa in scena una piccola pièce teatrale di cui protagonista è Dhia, una Guecha, che si lamenta, in una scrittura piena di ribattuti, della sua condizione di donna, rimasta sola dopo la morte della madre e tiranneggiata dal padre il quale, impersonato da Kyoto, vorrebbe venderla al gran mercato di Simonosaky. La volgarità dell’uomo è resa con una scrittura pesante che insiste anche nell’accompagnamento orchestrale su suoni gravi; la ragazza, da parte sua, vorrebbe morire quando Osaka, nelle vesti di Jor, figlio del sole, intona, accompagnato dall’arpa, una serenata (Apri la tua finestra). Iris, che aveva abbandonato la siepe per accostarsi ancora di più alla scena, guarda con partecipazione la rappresentazione teatrale che raggiunge il suo acme nel momento in cui Dhia, dopo aver promesso di donarsi interamente a Jor, muore. Jor in una scrittura piena di sensuali cromatismi promette a Dhia gioie celestiali e invoca delle danzatrici celesti che danno vita a tre danze rappresentanti rispettivamente la Bellezza (un valzer lento), la Morte resa da un tema costituito da una melodia discendente sempre su un ritmo di valzer lento e, infine, il Vampiro il cui carattere sfuggente e misterioso è esaltato da rapide scale ascendenti in un passo dalla struttura ritmica sensibilmente più rapida. Durante questa danza, samurai, nascosti dalle guèchas che danzano, rapiscono Iris svenuta. Compiuto il misfatto, i presunti teatranti si allontanano lasciando solo sulla scena il Cieco, mentre l’orchestra riprende la musica festosa che aveva introdotto il loro ingresso. L’uomo, pensando di avere accanto la figlia, le chiede un parere sulla rappresentazione, ma, quando comprende che non è lì, incomincia a cercarla disperatamente facendosi aiutare da alcuni merciaiuoli sopraggiunti. Gli uomini trovano sulla soglia della casa del denaro con un foglio nel quale si legge che la fanciulla si trova al Yoshiwara, noto luogo di perdizione; il cieco lancia un appello, il cui carattere drammatico è accentuato da un lento incedere ritmico e da un’armonia prevalentemente dominantica, ai presenti affinché lo accompagnino al Yoshiwara per schiaffeggiare sua figlia.

Atto secondo. Il secondo atto si apre all’interno del Yoshiwara, dove una guecha intona una semplice melodia, accompagnata dal suono del samisen  e costruita su arpeggi di accordi di tonica e dominante di la minore. Il canto è interrotto da Kyoto il quale non vuole che Iris possa svegliarsi e in quel momento giunge Osaka che esalta le affascinanti doti della fanciulla. Kyoto, in realtà per una forma di brama personale, consiglia, in una scrittura insinuante, Osaka di corteggiare Iris con doni. Subito dopo ritorna il tema, che aveva accompagnato Iris al suo risveglio nel primo atto, per introdurre questo nuovo risveglio della fanciulla che, non riconoscendo il luogo, appare spaesata e ritiene di trovarsi in paradiso. Bicordi staccati introducono Osaka che entra in modo circospetto ordinando a Kyoto di inviare i doni a un suo cenno. Il duetto, nel quale Osaka cerca di sedurre Iris, presenta delle forti tinte sensuali soprattutto negli appassionati temi che Mascagni scrive per il personaggio maschile. Iris, da parte sua, mescolando la realtà con la finzione, crede di trovarsi di fronte a Jor, ma l’uomo infrange il sogno della fanciulla dichiarando di chiamarsi «Il piacere» in un passo vocalmente arduo costituito da un salto di settima maggiore seguito da sensuali cromatismi discendenti. Quest’affermazione fa fremere Iris che, accompagnata da un moto perpetuo di agitati accordi, intona la celebre aria della piovra conclusa da un raggelante si acuto sulla parola morte che sembra anticipare la tragica fine della fanciulla. Osaka cerca di rassicurarla, ma Iris, che non si lascia sedurre nemmeno dalle promesse delle ricchezze fattele dall’uomo,Iris es. 2 chiede soltanto di tornare dal padre. A questo punto l’uomo, spazientito, consiglia Kyoto di mandarla via, ma questi, non volendo perdere la possibilità di guadagno, decide di esporre la fanciulla al Yoshiwara e, per raggiungere il suo scopo, prima la minaccia e poi le regala il pupo Jor, utilizzato per la commedia. Iris, intonando la cantilena che aveva caratterizzato il pupo nella commedia, si veste e viene esposta alla vista delle persone che restano come folgorate. Tra queste vi è anche Osaka il quale, di fronte alla bellezza di Iris, non resiste e, dopo esser tornato sui suoi passi, si produce in un appassionato appello alla donna. Nel frattempo giunge il Cieco che chiama per nome la figlia su un inquietante accordo di settima diminuita acuito da un salto di quinta diminuita di non semplice intonazione che rende la situazione ancor più tragica. L’uomo, tra lo stupore generale, maledice la figlia che lancia un disperato grido di dolore.


Atto terzo. Un piccolo preludio di carattere orientaleggiante per l’utilizzo di strumenti nipponici e per una scrittura armonica originale costruita su scale orientali apre il descrittivo terzo atto dove ritorna il tema della Notte già udito all’inizio dell’opera. Un tema staccato introduce il cicaleccio dei cenciaiuoli che costituiscono quasi un piccolo e delizioso quadretto di genere a cui segue il risveglio di Iris che, come trasognata, sembra sentire nella sua anima l’eco del richiamo del padre. I suoi «perché» sono, infatti, resi da un drammatico salto discendente di quinta diminuita che ricorda quello con cui il padre l’aveva chiamata nel secondo atto. Alla domanda di Iris sembrano rispondere i tre personaggi maschili: Osaka, Kyoto e Il Cieco che mostrano il loro personale egoismo fornendo così al pubblico una spiegazione della tragedia di cui è vittima l’eponima protagonista. Iris, rimasta sola, canta il suo inno di morte in un acceso lirismo concluso dalla ripresa del tema dell’Inno del Sole che sembra diffondere una catartica luce spirituale sulla donna che muore in un ossimorico tripudio di suoni, fiori e colori esaltato dalla forza vivificatrice del sole.



 

Una vicenda esile, priva di un forte mordente teatrale (e infatti Mascagni avrebbe preferito un finale scenografico, trionfale), i cui personaggi sono appena delineati e sembrano piuttosto bambole o fantocci dipinti, dai moti e dalle reazioni improvvisi e quasi ingiustificati: l’infatuazione, la noia repentina di Osaka e il suo accorato rimpianto di fronte alla bellezza di Iris, esposta alle Case Verdi: la manierata ingenuità della figura femminile, come la malvagità di Kyoto e la crudeltà ottusa del padre. Ma proprio in questo rifiuto di una logica di teatro realista consiste l’autentica novità di Iris: il libretto, infarcito di didascalie diffuse, più ampie degli stessi versi, propone per la prima volta nel teatro italiano un’opera nella quale i personaggi permangono in una sorta di limbo, inclinando a risolversi, secondo l’estetica simbolista, in emblemi, mentre il ruolo di protagonisti viene assunto dal solenne Fujiyama, dalla cornice, dagli elementi decorativi e dagli espliciti simboli che Illica dissemina in tutto il suo testo. Il Sole è il principio vitale che anima tutte le cose, il padre è cieco e non può né vedere la luce né comprendere nel suo egoismo l’umanità della figlia; nel teatrino dei pupi – un altro felice esempio di ‘teatro nel teatro’, dopo Pagliacci – si raffigura la storia di Dhia, sottratta al crudele padre a opera di Jor, figlio del Sole, e Iris s’identifica con questa piccola eroina, e non saprà disgiungere la voce di Osaka da quella che ha cantato l’ammaliante serenata. E ancora: Iris ha sempre con sé una bambola, su cui proietta le sue pene, con un transfert psicologico; il Piacere è rappresentato come un’orrenda piovra dipinta su un paravento; e, su tutto, preannunciata fin dal titolo, la metamorfosi donna-fiore. Illica, solido librettista storico-realista, scrivendo questo testo per Mascagni abbraccia – almeno per una stagione, ma con convinzione – l’estetica simbolista: d’altronde, «lo stile floreale fu un’espressione decorativa del realismo, che mescolava a motivi tratti dal mondo vegetale, anche figure e aspetti crudamente prelevati dal vero» (Vigolo). E appunto in questa direzione si muovono le scelte musicali di Mascagni, per cui i personaggi o piuttosto alcune loro isolate esplosioni di ‘affetti’ acquistano una verità emotiva assai più sbalzata che le fragili figure di lacca dipinte da Illica, e la storia di Iris, con il suo suggestivo involucro decorativo, può così apparire la trasposizione esotica di una comune cronaca di seduzione di una piccola provinciale, che incontra un qualche Gabriele nel bel mondo e, abbandonata, si ritrova in una casa di piacere della Roma umbertina. 


I modi di canto di quest’opera, infatti, non si differenziano in maniera radicale dai precedenti mascagnani: Iris ha gli accenti di una adolescente (quasi fosse la Suzel dell’Amico Fritz) un po’ bamboleggiante, e solo nella originalissima tornitura dell’aria ‘della piovra’, con quei melismi arcaizzanti e con quella sillabazione serrata, come di un ‘passo’ orientale affrettato e ansimante, attinge la statura di un personaggio tragico; accanto a lei Osaka, nella serenata di Jor, appoggiata ad armonie sempre cangianti, e nel grande duetto d’amore del secondo atto, torna a incarnare il tipo dell’eroe passionale, eppur minato da una irriducibile malinconia e insoddisfazione, l’eterno ‘tenore’ mascagnano. Sul piano più strettamente formale, il principio costruttivo cui l’autore torna a rifarsi è il declamato-arioso, con grande spazio per invenzioni puramente orchestrali, anche se in Iris la ‘volontà di canto’ torna a dominare, consentendo di estrapolare alcune scene, quasi fossero romanze, seppur liberamente articolate, come quelle di Iris in apertura del primo e del secondo atto. Ma, come si diceva, i veri protagonisti sono da ricercarsi al di là delle figure umane: e si dovrà additare fra le massime riuscite il grande preludio dell’opera, con il coro che incarna il Sole («Son io, son io la Vita/ Son la Beltà infinita/ la Luce ed il calor») che, pur respirando nella grandeur milanese del Prologo del Mefistofele, è una pagina autenticamente mascagnana per la bellezza e l’empito dell’invenzione melodica e per la ricchezza dei particolari strumentali; l’inedita pittura delle donne alla fonte, su un incredibile ritmo di bolero (atto primo); le tre danze delle geishe del teatrino, maliose e perfide, che avvolgono e rapiscono Iris: conferme di quanto il senso del décor, della scenografia, dell’arabesco abbia preso spazio anche nella campitura musicale dell’opera. Ma soprattutto si dovrà guardare all’ultimo atto, nel quale nulla si muove di teatrale, se non le simboliche apparizioni degli Egoismi. Appunto nell’affrontare una scena del tutto priva di tensioni, un delirio di morte, come nel terzo atto di Tristano, il ‘sanguigno’ Mascagni tocca il vertice dell’originalità, non solo dando voce toccante a quei fantasmi umani, ma trovando colori inediti (scale esatonali, impiego del ‘terzo suono’ di Tartini nei violini) per il livido paesaggio notturno, un letamaio, nel quale giace il corpo di Iris morente. E l’angosciante figura del cenciaiolo, che fruga tra i rifiuti cantando una balorda serenata alla luna, è una forte premonizione espressionistica, in un paesaggio di morte e disfacimento che qualunque artista della Sezession avrebbe potuto firmare. E quando, invocato da Iris che si chiede «Perché piango e muoio e m’abbandona/ ogni persona e cosa?», riemerge il Sole a illuminare con il suo canto la scena, che diviene miracolosamente un campo fiorito di iris, ci separiamo dall’opera con l’espressione dello smarrimento di un piccolo essere di fronte all’ingiustizia degli uomini e al mistero della morte, ma anche con la sensazione di aver assistito alla rappresentazione di quattro decenni di melodramma: dal Mefistofele del 1868 al verismo di Cavalleria rusticana, al simbolismo, all’espressionismo musicale che deve ancora nascere.

Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi

 

LA MIA PROPOSTA

Il catalogo di quest’opera mascagnana non è particolarmente ampia (se poi la si confronta col capolavoro Cavalleria rusticana). Ci sono comunque delle interessantissime edizioni, ed io propongo queste:

- Edizione audio diretta da Gianandrea Gavazzeni nel 1959 a Roma (C. Petrella, G. di Stefano, S. Meletti, B. Christoff);

- Edizione audio diretta da Fulvio Vernizzi nel 1963 ad Amsterdam (M. Olivero, L. Ottolini, R. Capecchi, P. Clabassi);

- Edizione audio/video diretta da Gianluigi Gelmetti nel 1996 a Roma (D. Dessì, J. Cura, R. Servile, N. Ghiaurov).


L’edizione registrata a Roma nel 1959, con la direzione sanguigna di Gianandrea Gavazzeni, è di sicuro interesse e vede una buona protagonista in Clara Petrella, un giovane e baldanzoso Giuseppe di Stefano come Osaka e un buonissimo Boris Christoff nel ruolo del Cieco.


L’edizione in forma di concerto registrata ad Amsterdam nel 1963 vede sostanzialmente primeggiare la straordinaria Iris di Magda Olivero. Credo che ad oggi nessuna cantante sia stata all’altezza della Olivero in questo ruolo difficilissimo. Ogni nota cantata è pregnante, strutturata… una prova straordinaria. Discreti i ruoli comprimari ma non esaltanti così come è abbastanza pesante e poco efficace la direzione orchestrale di Fulvio Vernizzi.


L’edizione che mi sento di consigliare è quella che ha inaugurato la stagione lirica 1996 del Teatro dell’Opera di Roma, con la direzione appassionata e molto partecipe di Gianluigi Gelmetti. La protagonista ha avuto la voce della bravissima Daniela Dessì, che canta con generosità e buoni armonici la parte. Ottimo l’Osaka dell’allora debuttante José Cura: la sua voce brunita ma molto incisiva (e ancora intatta… cosa non da poco) lo portano ad una prestazione di livello molto alto. Interessante il Kyoto di Roberto Servile così come di lusso è il Cieco di Nicolai Ghiaurov.

 

Molti forse non concorderanno con la mia proposta… nel caso attendo tra i commenti la vostra.

 

Di seguito il link per vedere (anche se non in maniera splendida) l’opera diretta da Gianluigi Gelmetti:



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