IL DITTICO VERISTA PER ANTONOMASIA... CHIUDE (PER ORA) LA STAGIONE VIENNESE

Grazie allo streaming di ottima qualità ho potuto vedere ieri sera l’ultima rappresentazione (che purtroppo è coincisa con i tragici fatti terroristici che hanno angosciato non solo la capitale austriaca ma il mondo intero) del dittico verista per antonomasia, e cioè Cavalleria rusticana e Pagliacci, alla Staatsoper di Vienna.

L’allestimento andato in scena è lo “storico” spettacolo concepito per regia, scene e costumi da Jean-Pierre Ponnelle.

Partiamo innanzitutto, come da tradizione, con l’opera di Pietro Mascagni.

Ponnelle mette in scena una Sicilia pietrosa, che si avvicina molto a Matera per ambientazione, all’ombra della quale si muovono i personaggi: questi sono molto “carnali” come normalmente è vista la gente del Sud Italia. Non si tratta di stereotipi… ma di pura verità per Ponnelle che fa muovere i protagonisti in maniera molto credibile fin dal preludio, che non viene eseguito a sipario chiuso, nel quale vediamo Santuzza che nascosta fuori da casa di Lola aspetta che il suo amato Turiddu esca in sordina dopo aver consumato la “tresca” con la moglie di Alfio. Tutto è credibile in scena: Santuzza è quasi perennemente sul palco e mostra visivamente (insieme al canto) quali sono i suoi tormenti, Turiddu è un sanguigno mentre Alfio è molto più pacato come carattere, pur covando la rabbia che poi sfocerà nel duello vincente ai danni di Turiddu. Il coro qui è trattato quasi come in una tragedia greca: molto statico e osservante di tutte le vicende, quasi a non voler partecipare a tutto quello che invece in scena succede. Spettacolo che, seppur datato, è veramente bello.

La parte musicale ha visto come protagonista Eva-Maria Westbroek che ha messo nella voce tutta l’angoscia del personaggio. Sicuramente è arrivata al pubblico in maniera non monocorde ma personalmente non mi ha lasciato molto. Alcune concessioni timbriche e ritmiche di troppo oltre ad una pesantezza del canto nell’ultima parte dell’opera.

Il Turiddu di Brian Jagde sicuramente si presenta benissimo in scena, la voce è stentorea, abbastanza buona l’articolazione delle parole. L’ho trovato però un po’ troppo monocorde (e questo è uno dei grandi rischi a cui possono incorrere coloro che interpretano questo personaggio). Per carità le note ci sono tutte, anche gli acuti sono buoni ma nel complesso una prova piatta, che non scalda il pubblico come dovrebbe.

Interessante l’Alfio di Ambrogio Maestri pur rimanendo in un contesto di buona fattura, con però nulla di eccezionale.

Buona la Lucia di Zoyana Kushpler così come la Lola di Isabel Signoret.

Marco Armiliato dirige con alti e bassi il capolavoro di Mascagni. Ogni volta che ascolto Cavalleria mi rendo conto di quanto sia una partitura di difficilissima esecuzione ed interpretazione. Il direttore italiano, pur avendo a disposizione un’orchestra di primissimo livello (sostanzialmente i Wiener Philharmoniker) non riesce nell’intento di portare a termine una concertazione “da manuale”. Diverse durante la recita sono le scollature tra i vari reparti dell’orchestra così come ci sono alcune imprecisioni e discrepanze tra buca e palcoscenico. Tempi abbastanza lenti e clima nel complesso di pesantezza eccessiva. Una routine discreta insomma… ma che non rende a pieno la straordinarietà di quest’opera.


La seconda parte della serata è dedicata a Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Qui l’impianto di Ponnelle è abbastanza simile, per ambientazione, a quello dell’opera mascagnana. Nell’ampia piazza rappresentata arriva l’allegra brigata capitanata da Canio con un camioncino che poi fungerà anche da palcoscenico per la rappresentazione della commedia. Lo spettacolo fila via molto liscio, nel segno della tradizione, e la parte forse più bella si ha quando, nell’intermezzo, viene allestito a sipario aperto lo spettacolo sul camioncino di Canio. La regia è fatta di tante piccole cose che si colgono minuziosamente (questa è la vera arte messa in scena) e la rendono bellissima.

La parte musicale è affidata ad un cast quasi totalmente diverso rispetto a quello di Cavalleria.

La migliore in assoluto è la Nedda di Aleksandra Kurzak: ottima interprete così come ottima attrice. Canta tutte le note scritte da Leoncavallo e cerca di mettere nella voce anche i colori giusti. Molto bella la sua aria così come ben cantato è il duetto d’amore con Silvio. Non fa grandissime cose ma, al termine, risulta senza dubbio il personaggio più centrato sia visivamente che vocalmente.

Roberto Alagna è un Canio sanguigno ma che ormai comincia, nella voce soprattutto, a portarsi quasi come un macigno l’importante carriera che ha ormai alle spalle. Se scrivessi “ha cantato male” mentirei… però un conto è cantare e un conto è interpretare a tutto tondo. Le note ci sono quasi tutte, qualche nota alta non è presa benissimo e il fiato in alcuni momenti non c’è (spesso è costretto a mettere delle pause che non ci sono partitura per respirare). Ci lascia un buonissimo “Vesti la giubba” e l’attore è di razza… ma Canio è molto di più.

Sufficiente è il Tonio di Ambrogio Maestri che però qui è uno scalino al di sotto rispetto alla sua interpretazione precedente come Alfio.

Buono, ma non esaltante, il Beppe di Andrea Giovannini e interessante a mio avviso il Silvio di Sergey Kaydolov.

Marco Armiliato dirige con più convinzione, rispetto a Cavalleria, la partitura di Leoncavallo. Anche l’orchestra lo segue di più (anche se qualche scollamento tra buca e palcoscenico c’è sempre) ma sostanzialmente suona come nell’opera precedente. I colori sono un più accentuati, anche le dinamiche dei tempi scelti sono migliori. Qui si sente molto di più il tocco del direttore italiano.

Buono il coro in entrambe le opere, anche se con una interpretazione complessiva di onestissima routine. 

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