ALMANACCO OPERISTICO - 10 dicembre 2020 - LA FANCIULLA DEL WEST di G. Puccini
LA
FANCIULLA DEL WEST
Opera in tre atti
di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma The Girl of the Golden West
di David Belasco
Musica di Giacomo
Puccini
Prima
rappresentazione: New York, Metropolitan, 10 dicembre 1910
Tra il fiasco scaligero di Madama Butterfly e la sua
riabilitazione a Brescia (1904) e La fanciulla del West, andata in scena
a New York nel 1910 con Enrico Caruso, Emmy Destinn, Pasquale Amato e Arturo
Toscanini sul podio, corrono sei anni, in gran parte impiegati da Puccini,
stufo delle «Bohème, Butterfly e comp.», nella ricerca di un
libretto nuovo e originale. Il secolo è appena scaduto, Debussy e Strauss hanno
inaugurato il Novecento con Pelléas et Mélisande e Salome; e
anche Puccini, erede riconosciuto di Verdi, acclamato in tutti i teatri del
mondo, avverte «che è necessario rinnovarsi o morire», poiché «l’armonia oggi e
l’orchestra non sono le stesse». Da questa «aspirazione verso un profondo
rinnovamento di tutto il suo stile», verso «una forma più alta di poesia
umana», deriva la faticosa ricerca di un nuovo libretto; ma dopo tante
peregrinazioni (Parisina e La rosa di Cipro di D’Annunzio, Tartarine
di Daudet, e poi Maeterlinck, Tolstoj, Mérimée, addirittura la Divina
commedia) la scelta incredibilmente cade su una pièce di forti
contrasti passionali e d’avventura come The Girl of the Golden West di
David Belasco. Così, «ancora attratto verso una forma di realismo drammatico»
rimproveratogli da D’Annunzio, Puccini tornava a rivolgersi all’abile
teatrante, sorta di Sardou americano, cui doveva il successo di Butterfly.
Come già in Tosca, La fanciulla del West riproponeva uno scontro
all’interno di un triangolo amoroso, confermando un credo irrinunciabile della
poetica pucciniana: «Non si può sortire da un soggetto passionale, contornato
pure da grandi avvenimenti, di folla, di moto, ma ciò che deve campeggiare è la
grande passione, la vera, la sublime, la sensuale»; pure, lo spazio concesso
alla pittura d’ambiente, ai tanti piccoli tipi umani che circondano i protagonisti,
ci dice che il mondo dei minatori all’epoca della febbre dell’oro ha
affascinato profondamente Puccini, tanto da attribuire loro un peso drammatico,
una funzione corale protagonistica e non di contorno. Sono questi uomini che
dominano l’azione con i loro sentimenti schietti e le reazioni immediate ed
elementari, presenti fisicamente in tutti e tre gli atti e, ancor più, è il
loro strano rapporto con la fanciulla (amica, sorella, madre, oggetto d’amore)
il nocciolo emotivo dell’opera stessa, assai più della rivalità fra lo sceriffo
Rance e Johnson.
Come era avvenuto per il Giappone di Butterfly, Puccini
‘ricostruisce’ l’ambiente utilizzando materiale folklorico americano: melodie
autentiche come quella di Jake Wallace “Che faranno i vecchi miei”, il canto
‘Dooda dooda day’, danze esotiche (ragtime, cake-walk, bolero), una
ninna-nanna pellerossa; e non lascia cadere nessun suggerimento paesaggistico
del libretto, come la tempesta di neve (al secondo atto) per la quale è
previsto l’impiego della ‘macchina del vento’; dipinge la raggelata alba
californiana all’inizio del terzo atto, inventa una lunga melodia ‘da carovana’
quando si parla della messicana Nina Micheltorena, e altri frammenti molto
‘Golden West’ per l’arrivo della posta (atto primo) e per l’inseguimento a
cavallo dei cowboys (atto terzo): episodi di grande autenticità e
suggestione, che preannunciano con esattezza il tipico stile dei commenti
musicali – nel 1910 ancora da nascere – dei film western americani.
LA TRAMA
Atto primo. In un campo di minatori della California. Siamo alla
‘Polka’, la taverna gestita da un singolare e forte personaggio, Minnie, di cui
tutti sono innamorati ma che «il primo bacio deve darlo ancora»; attendendo la
sua venuta, gli uomini giocano a carte, sono presi dalla malinconia (“Che
faranno i vecchi miei”), e lo sceriffo Rance e Sonora si azzuffano per amore di
Minnie. La fanciulla arriva e si mette a leggere la Bibbia ai minatori (“Dove
eravamo?”), commentando che «non v’è al mondo peccatore/ cui non s’apra una via
di redenzione». Finita la lezione, Rance dichiara a Minnie di essere innamorato
di lei (“Minnie, dalla mia casa son partito”), ma lei risponde elusiva,
riferendosi all’idea d’amore che si è fatta vivendo con i suoi genitori
(“Laggiù nel Soledad”). Giunge uno straniero, lo sconosciuto Dick Johnson che –
secondo le leggi del campo – non potrebbe entrare; ma la fanciulla garantisce
per lui, riconoscendolo come l’uomo che ha incontrato un giorno sul sentiero di
Monterey e ha subito amato. Mentre Minnie e Johnson ballano, i minatori
lasciano la taverna per inseguire il bandito Ramerrez; rimasti soli, i due si
dichiarano il loro amore (“Quello che tacete”) e la fanciulla invita l’uomo
nella sua capanna.
Atto secondo. La grande scena d’amore fra Johnson e Minnie è
interrotta dall’arrivo di Rance e dei ragazzi del campo, che avvertono Minnie
che lo straniero non è altri che il bandito Ramerrez. Minnie, sdegnata, caccia
fuori l’uomo, che viene ferito e si rifugia ancora nella capanna; la donna per
amore lo nasconde nel solaio. Rientra lo sceriffo, e fruga in ogni angolo senza
trovarlo; poi, una goccia di sangue che cade dall’alto rivela la sua presenza.
Minnie avanza allora una proposta disperata: giocare una partita a poker; se
Rance la vincerà, avrà la donna e la vita del bandito. Ma Minnie bara, e
ottiene la salvezza per il suo uomo.
Atto terzo. I minatori, ancora all’inseguimento di Ramerrez
l’hanno catturato e si accingono a impiccarlo. Prima di morire, dichiarando di
essere stato «ladro, ma assassino mai», egli rivolge un saluto a Minnie
(“Ch’ella mi creda libero e lontano”); ed ella sopraggiunge, e chiede la vita
di quell’uomo ai minatori, ricordando gli affanni e i disagi divisi con loro
(“Anche tu lo vorrai”). Commossi, gli uomini concedono il perdono a Johnson,
che si allontana con Minnie per vivere una nuova vita onesta e serena.
Il Puccini che con Madama Butterfly aveva offerto uno dei più
straordinari saggi di ‘psicoanalisi in musica’, in questa Fanciulla del West
sembra aver messo da parte le sue qualità di introspezione, tanto elementari e
immediati appaiono i sentimenti e le reazioni dei tre protagonisti; ma si dovrà
notare una certa dose di umanità (diversamente da uno Scarpia) concessa anche
al brutale sceriffo nel suo autoritratto “Minnie, dalla mia casa”, mentre la
figura di Johnson interpreta la favola lieta del peccatore che si redime, del self-made
man, forse dell’emigrante, che si conquista il successo e un nuovo stato
sociale: un tipo umano che è un vero emblema nella cultura degli Stati Uniti,
nati dal contributo di uomini di ogni origine che hanno costruito una grande
nazione. E appare inevitabile che Johnson canti come gli altri amorosi
pucciniani, con i toni appassionati e malinconici di un bravo giovane che è
divenuto bandito per disperazione («Or son sei mesi che mio padre morì»).
Accanto ai due rivali, la figura più nuova è dunque quella femminile, nella
quale un senso giovanile e ardito («Oh se sapeste come il vivere è allegro»)
s’intreccia con una saggezza di sorella maggiore (lettura della Bibbia), ma
anche con una passionalità forte e immediata e con un coraggio smaliziato (la
partita a carte truccata): nessuna delle donne pucciniane raccoglie tanti
contraddittori atteggiamenti, e nessuna canta con tanto languore e irruenta tensione,
toccando perfino il do e il do diesis acuto. La semplicità di questa tipologia
umana e la drammaturgia elementare dell’opera si trovano però in una certa
contraddizione con l’inventiva musicale che, rispetto al passato, non si
distende più in vere e proprie romanze, ma predilige il dialogo e l’assolo in
stile arioso, che non può essere più estrapolato come un pezzo chiuso. Se si
esclude il celebre addio di Johnson “Ch’ella mi creda”, tutti gli episodi
segnalati sono dei cantabili all’interno di scene in stile di conversazione, in
cui l’esclamazione, il grido, il canto, il parlato, persino i rumori, gli spari
si intrecciano e alternano liberamente; e si costruiscono in forme irregolari,
assai diverse tra loro, utilizzando frasi melodiche che non sempre hanno la
pregnanza e la caratterizzazione dei precedenti capolavori. Puccini, facendo
tesoro della conoscenza della musica di Debussy, ma anche dei russi e di
Strauss, compone infatti una delle sue partiture più raffinate sul piano
armonico, con impiego di scale esatonali, forti dissonanze, passaggi cromatici
e, per la varietà di ritmi e della ricerca timbrica (è noto che Ravel possedeva
una partitura della Fanciulla puntualmente annotata), un’opera nella
quale forse «protagonista è l’orchestra» (Gavazzeni), che elabora con
straordinaria eleganza e varietà di colori degli spunti, magari di poche note,
ma che divengono incisivi come veri emblemi, intrecciati in un continuum
sinfonico che molto deve alla tecnica wagneriana del Leitmotiv. Per valutare la
genialità di certe soluzioni, basterebbe considerare la scena della partita a
carte, un grande coup de théâtre risolto con la rinuncia al canto (i
personaggi parlano) e con il sostegno ossessivo del solo rullo di timpani.
Mirando a raffinare e consolidare la presenza dell’orchestra, Puccini può
curarsi assai meno che in passato della rispondenza fra pensiero musicale e
testo letterario, accontentarsi – senza intervenire in modo puntiglioso – dei
versi modesti confezionati dai librettisti Civinini e Zangarini, e di una
vicenda improbabile, in cui Minnie pensa di punire i boys minacciandoli
«non farò più scuola» e, angelica com’è, invita uno sconosciuto nella sua casa
di notte, dice le sue preghiere prima di addormentarsi nella stanza dove dorme
con il bandito; eppure non esita a barare come una consumata commediante quando
è in pericolo la vita del suo uomo. E che dire poi di questi incredibili
minatori che si azzuffano per un niente, e leggono la Bibbia in mezzo a whisky
e pistole, che pensano sempre alla mamma e alle sorelle, che piangono come
bambini al canto di Jake Wallace o quando Minnie li supplica in nome di «una
suprema verità d’amore»?
Allettato dalla prospettiva di consistenti vantaggi economici, Puccini
destinò questa Fanciulla al pubblico americano e mentre, con un occhio
rivolto alle esigenze dell’ambiente europeo, portava a esiti raffinatissimi la
sua scrittura orchestrale, al tempo stesso componeva la sua prima e ultima
opera naïve, prendendo a protagoniste delle «anime rudi e buone»,
credendo nel loro candore e prospettando per i due innamorati un inevitabile happy
end. Ma, in mezzo alla semplice umanità di questi cowboys, l’amore
(quello vero, quello sensuale) torna a risuonare come violenza imprevista, come
evento crudele e lacerante, incarnando in modo nevrotico il principio della
separazione freudiana dal grembo materno. Questi innamorati rompono un
preesistente equilibrio di affetti (tra Minnie e i minatori) e la conclusione,
nonostante il lieto fine di facciata, sarà inevitabilmente un doloroso «stillicidio
di addii» (Mariani). Il generoso impegno del Puccini maturo – riuscire semplice
e ingenuo nel celebrare una positiva storia d’amore e di redenzione – naufraga
nelle ultime battute dei minatori, che chiudono l’opera pensando a Minnie: «mai
più ritornerà»; l’amore, ancora una volta, è una colpa che lascia desolazione
intorno a sé, e l’andarsene di Minnie e Johnson, cantando “Addio, mia dolce
terra”, risuona amaro come le morti di Mimì, Tosca e Butterfly.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Abbastanza importante è stato il riscontro delle registrazioni (sia live
che in studio) di questa tra le più belle, a mio parere, opere pucciniane. Ne
ho ascoltate parecchie versioni e mi sento di consigliare queste:
- Edizione audio diretta da Franco Capuana nel 1958 a Roma (R. Tebaldi,
M. Del Monaco, C. MacNeil);
- Edizione audio diretta da Zubin Mehta nel 1978 a Londra (C. Neblett, P.
Domingo, S. Milnes);
- Edizione audio diretta da Leonard Slatkin nel 1991 a Monaco (E. Marton,
D. O’Neill, A. Fondary);
- Edizione audio diretta da Lorin Maazel nel 1991 a Milano (M. Zampieri,
P. Domingo, J. Pons).
L’edizione nel 1978 è diretta molto molto bene da Zubin Mehta con una
schiera di cantanti molto interessanti. Carol Neblett è un’ottima Minnie (anche
se non è l’interprete ideale), canta molto bene anche se la pronuncia lascia
molto a desiderare. Domingo è un ottimo Johnson (uno dei migliori dal punto di
vista discografico) e Milnes un altrettanto ottimo Rance.
L’edizione del 1991 è diretta molto bene da Leonard Slatkin (ottima anche
una sua versione video live al Met) ed ha una buona Minnie nella Marton e due
discreti co-protagonisti in O’Neill e Fondary.
L’edizione milanese dello stesso anno vede una delle massime direzioni
assolute di Lorin Maazel. Mara Zampieri è divisiva: o piace oppure no.
Personalmente qui la trovo molto molto brava ed è accompagnata da un Domingo, a
mio parere, ancora migliore rispetto all’edizione del ’78 e da un buonissimo
Pons.
L’edizione che però mi sento di consigliare è quella del ’58 di Santa
Cecilia con la direzione buona ma non entusiasmante di Franco Capuana (tempi
abbastanza bislacchi e un secondo atto non entusiasmante). I protagonisti sono
però eccezionali e quest’opera… senza cantanti non è nulla! Renata Tebaldi è
una Minnie ideale, dalla voce potente ma nello stesso tempo affascinante (il duetto
del primo atto e tutto il secondo sono da antologia), Mario Del Monaco non ha
aggettivi… superlativo: la parte sembra scritta sul “suo dosso”. Ottimo anche
il Rance di MacNeil.
Di seguito il link per ascoltare l’opera con la coppia Tebaldi / Del Monaco:
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