ALMANACCO OPERISTICO - 9 dicembre 2020 - SALOME di R. Strauss
SALOME
Dramma in un atto
di Hedwig Lachmann, dal poema omonimo di Oscar Wilde
Musica di Richard
Strauss
Prima
rappresentazione: Dresda, Königliches Opernhaus, 9 dicembre 1905
Dopo l’insuccesso di Guntram (1894) e il successo tiepido di Feuersnot
(1901), definite dallo stesso Strauss opere di «apprendistato wagneriano», Salome
rappresenta il più improvviso e al contempo discusso capolavoro della storia
dell’opera tedesca post-wagneriana. Raccolse inoltre fin dalle sue prime
apparizioni un successo tanto più straordinario e clamoroso, se si considera
che l’opera ebbe battesimo in un’epoca in cui il pubblico di tutta Europa
andava dividendosi tra fautori dell’avanguardia e della tradizione. O forse,
proprio a causa di ciò, tale successo è giustificabile, essendo Salome
opera ambivalente: un lavoro – per stare alle parole che Thomas Mann mette in
bocca ad Adrian Leverkühn, il personaggio del suo Doktor Faustus – «in
cui come non mai avanguardismo e sicurezza di successo sono uniti in esemplare
confidenza», lavoro di un «rivoluzionario fortunato, audace e conciliante al
tempo stesso!». Salome è a ogni modo una delle opere del Novecento più
rappresentate al mondo, anche se nei primi decenni della sua storia la circolazione
fu penalizzata, oltre che dalla scabrosità del soggetto, dalla censura nazista
in Germania e da quella puritana in ambiente anglosassone.
L’idea di musicare la Salome di Wilde fu suggerita a Strauss dal poeta viennese Anton Lindner (un cui testo è presente nella raccolta straussiana dei Lieder op. 37) che, in seguito all’interessamento del compositore, si cimentò in una prova di riduzione del testo. Strauss, tuttavia, preferì la traduzione tedesca della scrittrice Hedwig Lachmann utilizzata per una rappresentazione in prosa della tragedia, protagonista la grande attrice Sarah Bernhardt, che ebbe luogo a Breslavia e alla quale egli assistette. Il testo del bellissimo libretto corrisponde dunque, se non per qualche taglio e qualche variante, alla fedele traduzione dell’originale francese di Oscar Wilde. All’epoca della composizione di Salome, che impegnò il musicista bavarese dai primi mesi del 1902 al settembre 1904 per la stesura dell’abbozzo, e fino al giugno 1905 per l’orchestrazione, risalgono anche le prime schermaglie del lungo e controverso rapporto che Strauss intrattenne con Hugo von Hofmannsthal, suo futuro librettista. Il letterato aveva sottoposto un suo soggetto al musicista e al rifiuto di questi, impegnato appunto con Salome, reagì facendo notare come la corretta pronuncia dell’accento del nome della sensuale fanciulla protagonista dell’opera non fosse né ‘Sàlome’ (alla tedesca) né ‘Salomé’ (alla francese, come compare in Wilde), bensì ‘Salòme’, alla greca; Strauss continuò tuttavia a intendere il nome secondo la pronuncia tedesca.
Oggetto di discussione è se debba essere considerata la ‘prima’ italiana
la rappresentazione diretta dallo stesso Strauss al Regio di Torino (23
dicembre 1906), oppure la prova generale aperta al pubblico diretta da
Toscanini alla Scala di Milano nel pomeriggio dello stesso giorno.
LA TRAMA
Scena prima. A Gerusalemme, nella reggia di Erode. È notte, la
luna risplende luminosa e rischiara la sala dove Erode, tetrarca di Giudea, ha
raccolto a banchetto i suoi cortigiani. A lato della sala, sorvegliata da due
soldati, vi è un’antica cisterna nella quale è imprigionato Jochanaan, il
Battista. Dialogando nei pressi della cisterna, il paggio di Erodiade tenta di
convincere Narraboth, capitano dei soldati della guardia di Erode, a non
lasciarsi ammaliare dalla lunare bellezza di Salome, figlia di Erodiade. Intanto
dalla cisterna proviene la profetica voce di Jochanaan: «Dopo di me verrà uno
ch’è ancor più forte di me...». I soldati discutono se egli sia un profeta o un
pazzo ma, ligi all’ordine di Erode, impediscono l’accesso alla cisterna a un
cappadoce che desidera vedere Jochanaan. Intanto si avvicina Salome, «simile a
una colomba smarrita». Scena seconda. La figlia di Erodiade è stanca
degli sguardi insistenti che le rivolge il patrigno Erode ed è uscita a
guardare la luna, «bella come una vergine ch’è rimasta pura». Ode la voce di
Jochanaan, che continua a gridare le sue profezie, e ne è incuriosita al punto
di ignorare l’ordine di Erode, riferitole da uno schiavo, di fare immediato
ritorno nella sala, e di esprimere piuttosto il desiderio di incontrare il prigioniero.
I due soldati non vorrebbero trasgredire l’ordine del re ma Salome, forte del
suo potere di seduzione, non fatica a convincere Narraboth di ordinare loro di
far uscire il profeta dalla cisterna. Scena terza. Liberato dalla sua
prigione, Jochanaan inveisce contro i peccati di Erode e soprattutto di
Erodiade, ma ciò non impedisce a Salome di rimanere, contro il consiglio di
Narraboth, in contemplazione dei suoi occhi, del suo corpo, della sua carne.
Quando Jochanaan si accorge di essere osservato tanto voluttuosamente, respinge
la fanciulla, inveendo di nuovo contro la madre che l’ha generata e il
patrigno. Ma Salome ne è sempre più attratta, vorrebbe vederlo più da vicino,
toccare il suo corpo, i suoi capelli, vorrebbe baciare la sua bocca, essere posseduta
da lui. Narraboth la supplica invano di non guardare quell’uomo in modo tanto
concupiscente, e non potendo più sopportare la violenza erotica di Salome, che
ama perdutamente, si pugnala. Salome, che non si è nemmeno accorta del suicidio
di Narraboth, continua a ripetere di voler baciare la bocca di Jochanaan, il
quale, dopo aver maledetto la fanciulla, fa infine ritorno nella sua prigione. Scena
quarta. Erode, Erodiade e il loro seguito sono usciti dalla sala del
banchetto; il tetrarca sta cercando Salome e non ascolta le parole di Erodiade,
che lo invita a rientrare. Quindi scivola sul sangue di Narraboth – avvenimento
che interpreta come un triste presagio – e ordina di portare via il cadavere.
Raggiunta infine Salome, le offre il miglior vino, le porge i frutti più
maturi, la invita a sedersi al suo fianco, ma lei respinge le sue offerte,
mentre Erodiade continua a inveire contro di lui, rinfacciandogli di temere
l’uomo che è imprigionato nella cisterna, da dove continua a scagliare le sue
tremende profezie. Erode, invece, timoroso e superstizioso, proclama che
Jochanaan è un sant’uomo, «uno che ha visto Dio»; ma l’affermazione è confutata
teologicamente da cinque giudei, la cui dotta disquisizione è interrotta da un
ordine di Erodiade, che ne è infastidita. Due nazareni intervengono in difesa
del Battista, testimoniando la verità delle sue affermazioni sulla venuta del
Salvatore. Erodiade intanto ordina di nuovo di far tacere Jochanaan, che
continua a insultarla. Erode, indifferente alla cosa, si rivolge di nuovo alla
figliastra pregandola insistentemente di danzare per lui. Solo alla promessa di
avere in cambio tutto quello che vorrà, Salome acconsente, nonostante
l’esortazione della madre di non compiacere il patrigno. Ma Salome è ormai
decisa a danzare e si fa togliere i sandali dalle schiave sopraggiunte a
portarle i profumi e i sette veli. Sulle note di una musica selvaggia, Salome
esegue una conturbante danza, con i veli che cadono a uno a uno, fino a
lasciarla in terra ai piedi del tetrarca, estasiato. E quando Erode le domanda
quale sia la ricompensa da lei desiderata, ella ordina che venga portata la
testa di Jochanaan su un piatto d’argento. Erodiade si compiace della richiesta
della figlia, mentre Erode ora vacilla, supplicandola di chiedere anche la metà
del suo regno ma di rinunciare al terribile proposito. Salome, tuttavia, è
irremovibile. E quando finalmente, dopo attimi di terribile attesa, il
carnefice le consegna l’oggetto del suo desiderio, si lascia andare a un canto
in cui esprime tutta la sua irrefrenabile passione: «Perché non mi guardasti?
Se tu mi avessi guardata, mi avresti amata. Lo so bene, mi avresti amata. E il
mistero della morte è più grande del mistero dell’amore». Il suo canto ha
termine solo quando, afferrata al colmo dell’eccitazione la testa di Jochanaan,
la fanciulla ne bacia la bocca sanguinante. Sulla reggia cala una tetra
oscurità, rischiarata appena da un raggio di luna. Erode, sopraffatto
dall’orrore del bacio necrofilo di Salome, ordina ai soldati di uccidere la
figliastra.
Come la successiva Elektra, Salome è definita opera
pre-espressionista poiché anticipa molti aspetti costitutivi della cultura che
si affermò in Germania e nel Nord Europa nel secondo decennio del nostro
secolo. Manca qui l’elemento della denuncia sociale e politica, che del teatro
espressionista è una caratteristica ricorrente, ma la violenza espressiva, il
senso di umana angoscia, il solipsismo di personaggi che nel loro agire hanno
perduto ogni forma plausibile di ragionevolezza, la loro costituzionale
incapacità di comunicare (si noti il singolare ‘girotondo’ dei personaggi, che
non ascoltano mai il loro interlocutore: Erode non ascolta Erodiade, Salome
Erode, Salome Narraboth, Jochanaan Salome, Narraboth il paggio): questi tratti
della cultura espressionista, si diceva, Salome li descrive con una
evidenza talmente lucida e precisa da rivelare paradossalmente tutta la
sostanziale indifferenza dell’artista. Giustamente ha scritto Franco Serpa che
«l’arte [di Strauss] considera irrilevante, e quindi esclude, ogni
partecipazione etica, e perfino affettiva, da parte del soggetto, trattandosi
di una musica che conosce appena l’ironia, e non conosce la pietà». Strauss si
direbbe piuttosto preoccupato di esibire i ben ponderati aspetti della drammaturgia
dell’opera, tra i quali non vanno tralasciati i condimenti ‘alla moda’
dell’erotismo, del vitalismo, dell’esotismo, dell’estetismo e dell’edonismo,
che certo contribuirono a fargli ottenere il successo tanto desiderato.
Parimenti esibisce il virtuosismo di una scrittura musicale che rispetto alla
tradizione è altrettanto accidentata e frammentata, seppure controllatissima.
Il linguaggio, in Salome, è forse l’aspetto che più degli altri sembra
giustificare la citata e peraltro discutibile affermazione di Thomas Mann:
avanguardia e sicurezza di successo si traducono in un’armonia dissociata e
dissonante quant’altre mai, eppure tonalissima; in una ricchezza polifonica
smisurata eppure fondata su pochissimi motivi dominanti (che, in epoca di
esegesi wagnerianamente orientata, sono stati denominati come i Leitmotive ‘di
Salome’, ‘di Jochanaan’ e ‘della loro relazione’); in una orchestrazione a dir
poco lussureggiante (imponente l’organico orchestrale, che, oltre agli
strumenti tradizionali, comprende numerose percussioni, organo, armonium e un
particolare oboe baritono di recente costituzione, denominato Heckelphon),
eppure non aliena da effettismi della più vieta tradizione; in un melodismo e
in una vocalità, infine, di violento stile declamato eppure non scevra dalla
plasticità, persino ‘volgare’ a tratti, del gesto verista. Quella di Salome
è insomma una partitura costruita a regola d’arte da quel formidabile artigiano
che fu Richard Strauss, né più né meno di tante opere successive, da Rosenkavalier
a Capriccio, che appunto, nel loro originalissimo ‘rifarsi a’, come Salome
ed Elektra si rifanno al loro tempo, dimostrano la continuità e
l’uniformità di orizzonti dell’intero teatro straussiano, a dispetto dei
presunti mutamenti di rotta (non conta se verso il meglio o il peggio) troppe
volte registrati in sede critica.
Breve, fulminea, priva di ouverture, l’opera inizia in medias res
e attanaglia a ogni modo l’ascoltatore, quale che sia il suo convincimento
estetico sull’autenticità della drammaturgia straussiana, in un vortice, quando
di inaudita violenza fonica e quando di tagliente leggerezza. È un fuoco che si
consuma in un attimo, ma non senza aver prima evidenziato la necessaria varietà
di modi d’essere, vocali e drammatici, dei personaggi: la vacuità tenorile
dell’inconsistente e superstizioso Erode, la composta e quasi fatalistica
tragicità di Erodiade, l’esterrefatta umanità di Narraboth, l’agghiacciante e
stentoreo diatonismo di Jochanaan e la sensualità, la corporeità animalesca di
Salome. Tale polifonia di modi d’essere si fonde in un magma musicale che non
conosce soste, mancando ovviamente in Salome ogni forma di stroficità
chiusa. L’unica eccezione, l’unico brano cioè ‘chiuso’, formalmente autonomo e
dunque estrapolabile dal contesto, è la celebre, seducente danza orchestrale
dei sette veli, l’ultima pagina che Strauss compose prima di licenziare alle
stampe la partitura. Può comunque essere considerato brano a sé, non foss’altro
per l’ampiezza del disegno musicale che lo informa, anche l’assolo di Salome
(“Ah, du wolltest mich nicht deinem Mund küssen”), nella raccapricciante e
tesissima scena di necrofilia che chiude l’opera: una sorta di Liebestod
a rovescio, come è stato giustamente osservato, se è vero che Isotta canta il
compimento trasfigurato di una inalienabile tensione d’amore che vince la
morte, mentre Salome canta l’incompiutezza dell’amore mai conosciuto e
impossibile a compiersi, seppur bramato anche attraverso la morte.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Molto corposo è il catalogo di questo grandissimo capolavoro di Strauss.
Io ammetto di averci messo un po’ di tempo prima di “capirla” abbastanza… ma
una volta entrato in sintonia con essa non possono non riascoltarla, ad
intervalli regolari. Queste sono alcune edizioni a mio avviso molto
interessanti:
- Edizione audio diretta da George Solti nel 1961 a Vienna (B. Nilsson,
E. Wachter, G. Stolze, G. Hoffman);
- Edizione audio diretta da Erich Leinsdorf nel 1968 a Londra (M.
Caballé, S. Milnes, R. Lewis, R. Resnik);
- Edizione audio diretta da Herbert von Karajan nel 1977 a Vienna (H.
Behrens, J. van Dam, K.-W. Bohm, A. Baltsa);
- Edizione audio diretta da Giuseppe Sinopoli nel 1990 a Berlino (C.
Studer, B. Terfel, H. Hiestermann, L. Rysanek);
- Edizione video diretta da Fraz Welser Most nel 2018 a Salisburgo (A.
Grigorian, G. Bretz, J. Daszak, A.M. Chiuri).
L’edizione del 1961 si avvale sicuramente della bella direzione di Solti
(molto scoppiettante, tutta linfa), di una Nilsson buona ma non entusiasmante
oltre ad una schiera di comprimari interessanti. Nel complesso una edizione da
avere in casa ma sicuramente non eccezionale.
L’edizione diretta da Karajan sostanzialmente si pone nettamente
all’opposto rispetto a quella di Solti (il suono dell’orchestra è molto più
corposo e sensuale) e qui trova la giusta interprete in Hildegard Behrens che
canta magnificamente. Il resto del cast è sicuramente migliore di quello a
disposizione di Solti.
L’edizione del 1990 diretta da Giuseppe Sinopoli ci dà un’altra
sfaccettatura altrettanto interessante: il direttore veneziano tende ad aver in
alcuni momenti tempi molto veloci rispetto ai colleghi citati prima e ci lascia
una Salome piena di passione, carnosa, giovanile. E qui si innesta benissimo
l’interpretazione di Cheryl Studer, a mio avviso in una delle sue registrazioni
migliori in assoluto. Interessante anche il resto del cast con un bravo Bryn
Terfel come Jochanaan.
Il recentissimo video tratto dalle rappresentazioni salisburghesi si
poggia sulla straordinaria interpretazione vocale e non solo di Asmik
Grigorian, una Salome cantata tutta sul velluto. Io personalmente mi sono
innamorato di questa interpretazione. Pur non avendo un contorno ideale (buona
la direzione di Welser Most anche se troppo “appoggiata” sulla regia di
Castellucci; discreti i comprimari con unica punta, a mio parere, l’Erodiade di
Anna Maria Chiuri).
L’edizione che mi sento di consigliare (o quanto meno… è quella che
ritengo più completa in tutto) è quella diretta da Erich Leinsdorf che trova
nella sua concertazione la “giusta distanza” tra il nervosismo di Solti e la
sensualità di Karajan. Montserrat Caballé è poi una Salome straordinaria: il
suo bellissimo timbro di voce la rende nei vari momenti infantile, ma anche
sexy, sinistra e maledetta al contempo. Una prova maiuscola del soprano
spagnolo. C’è poi da dire che anche i comprimari qui sono ottimi: Milnes è un
grande Jochanaan, Richard Lewis è un Erode subdolo ma decandente mentre Regina
Resnik è la migliore Erodiade di sempre.
Di seguito il link per ascoltare l’opera diretta da Erich Leinsdorf:
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