ALMANACCO OPERISTICO - 2 dicembre 2020 - SAMSON ET DALILA di C. Saint-Saens
SAMSON ET DALILA
(Sansone e
Dalila)
Opera in tre atti
e quattro quadri di Ferdinand Lemaire
Musica di Camille
Saint-Saens
Prima
rappresentazione: Weimar, Teatro granducale, 2 dicembre 1877
Nel giugno 1870, quando Saint-Saëns si sentì offrire da Liszt la
disponibilità del teatro di Weimar, di cui era direttore artistico, per tenere
a battesimo Samson et Dalila, egli non pensava ancora, con ogni
probabilità, che sarebbe stato così arduo farla rappresentare in patria; gli
avvenimenti successivi lo avrebbero smentito. Il pubblico festante del debutto
applaudì infatti Samson und Dalila, ovvero la traduzione tedesca
dell’opera di Saint-Saëns che aveva finito con l’accettare l’invito, per altro
prestigioso, del prodigo Liszt. Tredici anni dovettero passare prima che Samson
fosse unito a Dalila dalla più appropriata congiunzione et; accadde a
Rouen il 3 marzo 1890. L’esito senza meno trionfale ripagò il sessantacinquenne
compositore delle amarezze passate e segnò l’affermazione definitiva di
un’opera la cui storia aveva conosciuto agli inizi momenti travagliati. Quando
iniziò la composizione del Samson, nel 1869, Saint-Saëns aveva già
scritto Le Timbre d’argent (1865) e pensava a un opéra-comique, La
Princesse Jaune, ma non aveva ancora fatto rappresentare nulla. Il lavoro
conobbe un primo intoppo nel 1870, quando un’audizione privata di un brano si
risolse in una cocente bocciatura. Cade in questo periodo l’offerta lisztiana
che dovette rincuorare Saint-Saëns il quale, ripresa la composizione, la
terminava nel 1874. Un’esecuzione in forma di concerto del primo atto, il 12
marzo 1875, non dette esiti molto incoraggianti; né la rappresentazione di Le
Timbre d’argent, accolta freddamente all’Opéra nel 1871, giocava a favore
di una messa in scena francese del Samson che, come si è visto, prese la
strada felice di Weimar. Concepito inizialmente per un allestimento oratoriale,
il soggetto di Samson et Dalila era stato scelto dallo stesso
compositore. Non mancavano illustri precedenti letterari: il Samson
Agonistes di Milton, il Samson scritto da Voltaire per Rameau, né
era ignoto a Saint-Saëns il Samson del venerato Händel. Verseggiato con
cura, il libretto di Lemaire (cui si dice abbia messo mano anche il
compositore, che del resto era un fine letterato) sembra risentire nella
scansione drammaturgica dell’originaria destinazione oratoriale. Una
caratteristica questa che lo accomuna a molti dei testi letterari musicati, in
seguito, da Saint-Saëns.
LA TRAMA
Sulla piazza davanti al tempio di Dagon, nella citta di Gaza. Gli ebrei
piangono la schiavitù che li assoggetta ai filistei (“Dieu d’Israel”); Samson
li rimprovera di aver perso la fiducia in Dio e si dice pronto a spezzare il
giogo che li opprime (“Arrêtez ô mes frères”). Le grida di entusiasmo con cui
sono accolte le sue parole fanno intervenire il satrapo di Gaza, Abimélech, il
quale schernisce il dio degli israeliti, sordo ai loro lamenti (“Ce Dieu que
votre voix implore”). Affrontato da Samson, il satrapo vorrebbe trafiggerlo con
la spada, ma l’ebreo gliela strappa di mano e lo uccide. Animato da una forza
che sembra sovrumana, Samson mette in fuga i soldati filistei che scortavano
Abimélech, indi abbandona la piazza seguito dagli ebrei. Appare sulla soglia
del tempio il gran sacerdote. Davanti al cadavere di Abimélech, ordina che
Samson e il suo popolo siano sterminati. Un messaggero porta la notizia che gli
ebrei, ormai senza freni, stanno devastando il paese. Il gran sacerdote,
maledetti i ribelli, parte con i filistei per rifugiarsi sulle montagne
(“Maudite à jamais”). Col nuovo giorno la piazza si riempie di ebrei, che
elevano un inno di ringraziamento al Signore (“Hymne de joie”). Dal tempio esce
uno stuolo di fanciulle filistee, guidate dalla bellissima Dalila; esse lodano
la vittoria di Samson (“Voici la printemps”). Dalila corona la fronte dell’eroe
e gli svela il proprio amore, invitandolo a raggiungerla nella sua dimora,
nella vallata di Sorek (“Printemps qui commence”). Samson è diviso da opposti
sentimenti, ma, nonostante gli ammonimenti di un vecchio, decide di raggiungere
la donna. Nella sua casa, Dalila attende l’arrivo di Samson e prega Dagon
affinchè aiuti il suo proposito di vendicare i filistei (“Amour, viens aider ma
faiblesse”). Giunge il gran sacerdote, che le narra i prodigiosi successi di
Samson e le offre ricchi doni se riuscirà a consegnargli il temibile eroe. La
donna sprezza le offerte; se perderà Samson lo farà soltanto per l’odio che prova
per lui e per vendicare il suo popolo. Partito il gran sacerdote, Dalila è
assalita dal dubbio di non riuscire a mettere in atto il suo piano, quando ecco
arrivare Samson agitato dal desiderio e dal pentimento. Dalila usa tutte le
armi della seduzione; l’uomo soggiogato sembra alla sua mercé (“Mon coeur
s’ouvre a ta voix”). Su un punto, però, Samson non cede: nel rivelare il
segreto della sua potenza. Dalila allora, dopo averlo accusato di non amarla
veramente, lo scaccia e si rifugia in casa mentre imperversa un temporale;
l’uomo, disperato, la segue. Giungono gli armati del gran sacerdote, che si
pongono in agguato nei pressi della casa. Si ode una voce che li chiama: è
Dalila, Samson è in suo potere. Nella prigione di Gaza, incatenato, langue
Samson. È cieco, privo dei capelli che erano l’origine della sua forza, legato
ad una macina. Dalle sue labbra sale un’invocazione a Dio affinchè sottragga al
loro destino gli ebrei nuovamente in cattività (“Vois ma misère”). Da lontano
si odono le voci degli ebrei, che accusano Samson di averli traditi per amore
di una donna. Giungono alcune guardie; devono condurre il prigioniero al tempio
di Dagon. Nel tempio si festeggia, con un’orgia sfrenata, la vittoria filistea.
L’arrivo di Samson è salutato dallo scherno generale. Il gran sacerdote sfida
ironicamente Jehova, il dio degli ebrei: restituisca la forza e la vista a
Samson se ne è capace. Eleva quindi un inno a Dagon, unico vero dio, cui si
uniscono Dalila e il popolo. Samson invoca allora l’aiuto divino, chiedendo gli
restituisca una volta ancora la forza di un tempo. Appoggiatosi a due pilastri
del tempio, ritrova per un momento la sua potenza formidabile. Il tempio crolla
sotterrando lui e tutti i filistei.
Scrisse Giorgio Vigolo: «La carta da musica che adoperava Saint-Saëns
doveva avere in filigrana un organo dalle grosse canne, abbracciato da sinuosi
tralci di rose rampicanti e di convolvoli». Ironica e acuta, questa
osservazione sintetizza brillantemente le due anime che si agitano in Samson
et Dalila. Due anime che corrispondono non solo a un personale orientamento
di gusto del compositore, ma, più in generale, a due filoni culturali ben
riconoscibili dell’ultimo scorcio dell’Ottocento e poco oltre. Due filoni con
un punto di contatto: il recupero del passato, più o meno remoto che fosse. Da
un lato vagheggiato e ricreato con scrupolo filologico (Carducci, il Tristano
di Bédier, Schwob); dall’altro, fatto oggetto o pretesto di una reinvenzione
poetica il cui lussureggiante scatenarsi scrive pagine memorabili del
decadentismo e di altri ‘ismi’ minori: florealismo, ellenismo, esotismo (il
Louÿs di Aphrodite, Salome di Wilde e di Moreau, Pierre Loti...).
In Samson et Dalila sembrano riassumersi queste anime, come pure
convivono misticismo e sensualità, altra coppia assai ‘gettonata’ di fine
Ottocento, in un ossimoro spesso sull’orlo di una impudica sovrapposizione.
L’aver armonizzato tematiche così variegate in un’opera di grande compattezza e
qualità è un merito notevole di Saint-Saëns, che apparenta l’esperienza di Samson
et Dalila ad altre di matrice letteraria, nelle quali filologia e
tumultuosa fantasia narrativa si compenetrano ad alto livello (penso a Salammbô
e Hérodiade di Flaubert e, in minor misura, a Thaïs di France).
Le armi adoperate da Saint-Saëns per l’anima filologica del Samson (‘accademica’
per i detrattori, ‘neoclassica’ per gli entusiasti) sono prima formali che
linguistiche. Trionfa in generale un sovrano dominio della forma; in
particolare l’uso sistematico della forma chiusa: le tre arie della
protagonista ne sono esempio probante. La quasi narcotizzante bellezza melodica
che le caratterizza riveste nel primo caso un’aria strofica (“Printemps qui
commence”), nel secondo e terzo vere e proprie arie col da capo: con
recitativo quella ad apertura del secondo atto (“Amour, viens aider ma
faiblesse”), addirittura con ‘pertichino’ (il frastornato Samson) la successiva
e celeberrima “Mon coeur s’ouvre à ta voix”. Solidamente costruiti anche gli
interventi solistici degli altri personaggi: dalle splendide arie di Abimélech
(“Ce Dieu que votre voix implore”) e del sommo sacerdote (“Maudite à jamais”),
dai tratti diffusamente arcaizzanti, all’esordio di Samson (“Arrêtez, ô mes
frères”) alla sobria, commovente “Vois ma misère”, l’aria di Samson mentre, prigioniero,
è legato alla macina. Sul piano di una più articolata architettura formale,
esemplare risulta l’ampio brano corale che apre l’opera (“Dieu d’Israel”),
animato da tutta una serie di suggestioni illustri, dagli oratori händeliani,
alla scena delle tenebre del Mosè di Rossini. Evidente in questo brano,
accanto alla prodigiosa solidità di struttura (con l’inserimento, tra l’altro,
di una fuga rigorosa “Nous avons vu nos citées renversée”), l’uso di un
linguaggio che rimanda costantemente al passato nell’utilizzo del contrappunto,
nella scrittura melodica, nella strumentazione. Per quel che riguarda la
seconda ‘anima’ di Samson et Dalila, quella esotica e floreale, per
intenderci, Saint-Saëns sembra muoversi in sintonia con altri operisti francesi
a lui contemporanei: Delibes e Bizet, ad esempio. Da qui il colorismo ora
mollemente sensuale del coro di donne filistee nel primo atto (“Voici le
printemps”), ora sgargiante, ricco di inflessioni ‘orientali’ del Baccanale
nell’atto terzo. Le coordinate sono quelle che hanno reso celebre l’esotismo
musicale francese di fine Ottocento: smagliante veste orchestrale, melodismo
accattivante, gusto dell’effetto, armonizzazione piquant. Resterebbe ora
da parlare di una terza ‘anima’ del Samson che ha fatto più sopra fugacemente
capolino: quella che si vuol dire ‘neoclassica’. Un’anima che partecipa della
natura delle altre due, e in qualche modo storicamente le supera, prendendo le
distanze dal passato che recupera, con un atteggiamento di sorprendente
modernità. È l’anima che Saint-Saëns libera nel finale dell’opera, dopo aver
percorso lungo l’ultimo atto una sorta di cammino iniziatico: dall’arcaismo
dell’aria iniziale di Samson all’esotismo del baccanale, al neoclassicismo del
duetto con coro (“Gloire a Dagon”). Qui il venerando meccanismo del canone
all’ottava viene coinvolto in un brano di tale inedita freschezza – ritmica,
vocale, strumentale (i brillanti virtuosismi della celesta) – che sembra
portare, con la sua beffarda e algida eleganza, già nei pressi di certo
Novecento stravinskiano.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini & Castoldi
LA MIA PROPOSTA
Il catalogo delle edizioni ufficiali del capolavoro di Saint-Saens è
molto cospicuo (una settantina) e io mi sento di ricordare innanzitutto queste
edizioni:
- Edizione audio diretta da Jean Fournet nel 1964 ad Amsterdam (J.
Vickers, O. Dominguez, E. Blanc);
- Edizione video diretta da Julius Rudel nel 1981 a San Francisco (P.
Domingo, S. Verrett, W. Brendel);
- Edizione audio diretta da Colin Davis nel 1985 a Londra (P. Domingo, A.
Baltsa, J. Summers);
- Edizione audio diretta da Myung-Whun Chung nel 1991 a Parigi (P.
Domingo, W. Meier, A. Fondary).
L’edizione live del 1964 diretta da Jean Fournet vede due straordinari
interpreti come John Vickers e Oralia Dominguez che interpretano un Samson
smagliante e una Dalila accattivante.
L’edizione video live del 1981 a San Francisco si avvale di una bella direzione
di Julius Rudel che fa da cornice a due dei massimi interpreti assoluti dei
ruoli di Samson e Dalila: Placido Domingo e Shirley Verrett. Domingo ha uno
slancio e una magnificenza di suono che arriva a pari merito a Vickers mentre
la Verrett a mio modesto parere è la migliore Dalila di sempre, anche se è
penalizzata dalla registrazione live che non rende a pieno la sua straordinaria
voce (la sua pecca è quella di non aver mai registrato in studio questo
personaggio).
L’edizione londinese del 1985 (ascoltata qualche anno fa in radio e mai più riascoltata) vede nella direzione di Colin Davis
sicuramente uno dei punti di forza e si avvale di due ottimi cantanti: Domingo,
qui a mio avviso un po’ più appannato rispetto all’edizione live a San
Francisco, e Agnes Baltsa in una delle sue migliori performance.
L’edizione che però mi sento di consigliare è quella diretta da
Myung-Whun Chung a Parigi, con i complessi dell’Opéra Bastille, nel 1991. La
concertazione del direttore coreano è a mio parere la più completa a confronto
con tutti gli altri direttori che ho preso in esame e ci porta un “colore” di
fondo a tutta la vicenda musicata da Saint-Saens particolarissimo. Placido
Domingo eguaglia, se non supera, la sua interpretazione di San Francisco ed è
affiancato dalla splendida Dalila di Waltraud Meier, nella sua migliore
incisione discografica (a parte i ruoli wagneriani). Ottimo qui anche il Grande
Sacerdote di Dagon interpretato da Alain Fondary.
Di seguito il link per ascoltare l’opera diretta da Wyung-Whun Chung:
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